Il 15 febbraio 2023, papa Francesco ha elevato a diocesi il vicariato Apostolico di Isiolo in Kenya e ha nominato primo vescovo della diocesi, il missionario della Consolata, Mons. Anthony Ireri Mukobo, fino a quel momento vicario Apostolico di Isiolo dove è arrivato il 6 aprile 2006. Il 4 maggio 2024, il papa ha nominato Mons. Peter Makau, anche lui missionario delle Consolata keniano, di 49 anni, vescovo coadiutore della stessa diocesi di Isiolo.

Esattamente oggi, 23 settembre 2024, mons. Anthony compie 75 anni e si sta avvicinando alla fine del suo servizio come vescovo titolare di Isiolo, avendo raggiunto l'età canonica per chiedere le dimissioni dall'incarico, come stabilito dal Codice di Diritto Canonico (Canone 401, paragrafo 1). Mons. Anthony è stato ordinato sacerdote il 5 gennaio 1980 e vescovo il 18 marzo 2000.

Trovandosi a Roma per la sua quarta visita ad limina, il vescovo ha rilasciato un'intervista alla Segreteria per la Comunicazione dove fa il punto sul cammino di evangelizzazione della diocesi, commenta sulle sfide pastorali e le prospettive per il futuro con l'arrivo del giovane vescovo coadiutore, Mons. Peter Makau. (Video: montaggio di Francisco Martínez)

Situata nella parte centrale del Kenya, la diocesi ha una superficie di 25.700 km2 e una popolazione di 268.000 di abitanti di cui il 19% sono cattolici. Ci sono 15 parrocchie, 74 istituzioni educative ed 11 di carità, tra cui 5 dispensari ed 1 maternità. Nella diocesi vi lavorano 27 sacerdoti diocesani, 6 sacerdoti religiosi, assieme a 58 religiosi/e. Sono presenti anche 10 catechisti a tempo pieno e tantissimi laici impegnati nella cura pastorale delle comunità cristiane. Nel corso degli anni la chiesa locale è cresciuta e ha portato buoni frutti nell'evangelizzazione.

* Padre Jaime C. Patias, IMC, Segretariato per la Comunicazione, Roma.

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Mons. Anthony Mukobo e Mons. Peter Makau con i formatori riuniti a Roma per il corso di formazione permanente

«La violenza non va bene, ma gridano contro la corruzione e per avere un futuro». Monsignor Anthony Muheria, arcivescovo metropolita di Nyeri e vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya, parla delle proteste della «generazione Z» nel Paese. «La violenza non va bene ma gridano contro la corruzione e per avere un futuro».

«Le leadership non vogliono ascoltare il grido dei giovani ma loro chiedono solo un futuro, un lavoro e la fine della corruzione». A parlare delle proteste che negli ultimi mesi hanno visto in Kenya migliaia di giovani in piazza è monsignor Anthony Muheria, arcivescovo metropolita di Nyeri e vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya.

A Roma per la visita ad limina in Vaticano e per l’incontro con Papa Francesco, il vescovo parla del suo Paese che «è arrivato davvero vicino alla rivoluzione. I ragazzi hanno assaltato il Parlamento… sono arrivati fino al Parlamento», scandisce con il volto ancora preoccupato. Un’ondata, quella della «generazione Z» del Kenya, che «era cominciata pacificamente e che poi purtroppo è sfociata nella violenza».

Il vescovo condanna questa deriva e anche il fatto che «i giovani sembrano come chiusi nei loro circoli, soprattutto sui social», ma allo stesso tempo chiede al governo e alle istituzioni di ascoltare il loro «grido».

La storia del Kenya, d’altronde, è simile a quella di molti Paesi dell’Africa dove la povertà, ma anche la corruzione nella gestione delle risorse, tolgono il futuro alle nuove generazioni.

Molti tentano il lungo viaggio per arrivare in Europa, ma altri protestano fino al sangue. «Il governo è arrivato con la milizia – racconta monsignor Muheria -, e molti giovani sono stati uccisi. Ragazzi nella maggior parte dei casi laureati, ma che non hanno un lavoro e non vedono il futuro».

La corruzione è uno dei problemi più sentiti: «Le autorità devono essere trasparenti, dare conto dei soldi che spendono. Il costo della vita e le tasse aumentano ma non le entrate delle famiglie».

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I giovani fanno storiche proteste in Kenya. Foto: Gerald Anderson/Anadolu via Getty Images

Alla gente del suo Paese il vescovo però dice di non seguire la logica del male minore quando, per esempio, si va a votare. «Noi, come Chiesa, siamo molto preoccupati, perché è sempre più difficile instaurare un dialogo con questi ragazzi. Il problema è grande: come arrivare a formare e incoraggiare questa generazione? Quando c’è la disperazione deve esserci un aiuto».

Con coraggio i vescovi hanno allora avviato corsi di formazione sociale e politica con la speranza che «nel giro di dieci anni creaca una leadership che possa essere un punto di riferimento per la società».

Di fronte a un’Europa nella quale il dibattito sui migranti è sempre più acceso, il vescovo fa presente che in Africa ci sono «da oltre vent’anni milioni di sfollati interni. In Etiopia 900mila, in Uganda un milione e 700mila, da noi in Kenya i rifugiati sono 700mila. È un problema grande perché non ci sono le risorse per consentire loro di uscire dai campi. Ci sono giovani nati nei campi profughi che non sono mai usciti di lì. È come se non ci fosse una via d’uscita».

La Chiesa africana dunque lancia un appello, anche alla comunità internazionale, perché «possa essere garantita a queste persone condizioni di vita dignitose». Sono per lo più persone che scappano dalle guerre in Congo, Rwanda, Sudan, Nigeria, «e queste guerre vanno avanti da anni e la situazione politica non aiuta il loro rientro nei Paesi di origine».

C’è anche il problema degli attentati degli islamisti: «In Kenya, grazie a Dio, sono anni che non si verificano. Ma i terroristi di al-Shabaab sono sempre un pericolo anche per noi. In altri Paesi», prosegue il vescovo facendo riferimento ai recenti attacchi terroristici in Burkina Faso soprattutto contro i cristiani, «anche se i fondamentalisti sono una piccola minoranza, fanno molto rumore». Con i loro attentati minano infatti quel dialogo tra diverse fedi che «è invece molto buono», sottolinea monsignor Muheria.

C’è anche un altro «estremismo religioso», come lo definisce il vescovo Keniano: quello dei leader delle sette religiose che «pretendono di essere cristiani ma pensano solo ai soldi e fondano il loro potere sulla disperazione e sulla credulità della gente».

In questo quadro difficile c’è però una fede cristiana gioiosa e in crescita: «In Africa c’è una vera e propria esplosione delle vocazioni. Quest’anno nella mia diocesi sono entrati in seminario centocinquanta ragazzi. Ma per altrettanti non è stato possibile entrare perché non abbiamo abbastanza fondi economici per aprire le porte a tutti coloro che lo chiedono».

* Manuela Tulli, MC Notizie. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

Nella cattedrale di Nostra Signora dell'Assunzione a Jakarta, Francesco si rivolge a vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati, seminaristi e catechisti: la fede non si impone, ma si condivide con gioia. E poi spiega il senso della "compassione": non dispensare elemosine ma abbracciare i sogni di giustizia.

"Ciò che manda avanti il mondo non sono i calcoli di interesse, che finiscono in genere col distruggere il creato e dividere le comunità, ma la carità che si dona"

Fede, fraternità, compassione: le tre parole chiave, che costituiscono il motto della visita apostolica nel variegato Paese asiatico composto di ben 1.300 etnie e popoli, sono al centro del discorso pronunciato da Papa Francesco discorso pronunciato da Papa Francesco nella cattedrale di Nostra Signora dell'Assunzione, a Jakarta. Siamo nel cuore della megalopoli, proprio di fronte alla moschea Istiqlal dove domani (stanotte in Italia) si terrà l'incontro interreligioso con la firma della Dichiarazione congiunta con l'imam Nasaruddin Umar. È stato un gesuita architetto, Antonius Dijkmans, a progettare, a fine '900, quello che è il luogo di culto principale per i cattolici indonesiani, oggi più di 8 milioni di fedeli, pari a poco più del 3 percento della popolazione. Al secondo piano della chiesa un museo ne illustra la storia.

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Le religiose in ascolto del Papa

In questa prima giornata di permanenza in Indonesia - che finora ha visto impegnato il Pontefice nell'incontro con le autorità e la società civile, al palazzo presidenziale e, successivamente in nunziatura, in quello privato, ormai tradizionale per ogni trasferta papale internazionale, con i gesuiti locali - il Papa torna sui temi del dialogo, dell'amicizia sociale, di come incarnare il Vangelo in un contesto estremamente diversificato. Lo fa dopo aver scandito la necessità di contrastare "l'estremismo e l'intolleranza", di evitare che la fede venga manipolata per fomentare odio e accrescere divisioni. Dinanzi a vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati, consacrate, seminaristi e catechisti, guide pastorali di 37 diocesi, e mentre i presuli celebrano un secolo dalla fondazione della Conferenza episcopale (al 1940 risale invece la consacrazione del primo vescovo indigeno), Francesco si pone in ascolto di chi gli illustra (un prete, una suora e due catechisti) le sfide ordinarie di questo 'piccolo gregge' dell'Asia sud orientale. 

Per una Chiesa sinodale

Prima di procedere con la lettura del testo preparato, il Papa ascolta l'impegno di cui si fa portavoce il capo dei vescovi, monsignor Antonius Subiantu Bunjamin, nel suo saluto di benvenuto: "Cercheremo sempre più un incontro con Dio che esprima la gioia del Vangelo, crei una cultura dell’incontro in cui vediamo gli altri come fratelli o sorelle e ripristini l’integrità della creazione ascoltando il grido dei poveri e della terra, la nostra Casa comune". Poi si concede alcune sottolineature a braccio in cui rimarca il ruolo cruciale dei catechisti, "la forza della Chiesa". Chiede, in un clima di grande familiarità, quanti siano i seminaristi in assemblea. Evoca l'essenza di una Chiesa veramente sinodale, in cui "ognuno ha il suo compito per far cresere il popolo di Dio", laici e bambini compresi. 

Rispetto e sobrietà per la cura della Casa comune

Il Papa si compiace di quella connaturale tensione all'unità e alla convivenza pacifica che contraddistingue la cultura indonesiana, certamente non un monolite ma un poliedro. I principi tradizionali della Pancasila, ne sono al tempo stesso riflesso, fondamento e garanzia. Francesco esalta l'enorme ricchezza naturale del Paese e invita a coltivare, dinanzi a questa abbondanza meravigliosa, un cuore grato e responsabile, oltre ogni tentazione di orgoglio. "Guardare a tutto questo con umili occhi di figli ci aiuta a credere, a riconoscerci piccoli e amati", ricorda. E rimanda alle condivisioni ascoltate da chi ha offerto la propria testimonianza, in particolare ha apprezzato la voce di Agnes:

Ce ne ha parlato Agnes, a proposito del nostro rapporto con il creato e con i fratelli, specialmente i più bisognosi, da vivere con uno stile personale e comunitario improntato al rispetto, alla civiltà e all’umanità, con sobrietà e carità francescana.

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La cattedrale di Nostra Signora dell'Assunzione a Jakarta

L'annuncio del Vangelo non si impone, non è proselitismo 

Il Papa, che più volte ricorre a citazioni letterarie, in questa occasione cita un verso del Nobel Wisława Szymborska, poetessa polacca: essere fratelli vuol dire amarsi riconoscendosi «diversi come due gocce d’acqua». Torna, dunque, sul senso della fraternità: accogliersi a vicenda riconoscendosi uguali nella diversità. L'invito, cui già la Chiesa indonesiana tiene molto per costituzione, è di valorizzare sempre l'apporto di tutti, generosamente e in ogni contesto. 

[...] Annunciare il Vangelo non vuol dire imporre o contrapporre la propria fede a quella degli altri, ma donare e condividere la gioia dell’incontro con Cristo (cfr 1 Pt 3,15-17), sempre con grande rispetto e affetto fraterno per chiunque. E in questo vi invito a mantenervi sempre così: aperti e amici di tutti – “mano nella mano”, come ha detto don Maxi –  profeti di comunione, in un mondo dove sembra invece stia crescendo sempre più la tendenza a dividersi, imporsi e provocarsi a vicenda (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 67).

Il catechista, un ponte che unisce

Francesco si sofferma poi sull'importanza di favorire la più ampia accessibilità, non solo dei testi biblici ma anche degli insegnamenti del magistero, mediante la traduzione nella lingua ufficiale locale, il Bahasa Indonesia. Del resto è ciò che sperano gli stessi operatori pastorali. L'immagine che ha colpito tanto il Papa in cattedrale è quella del ponte, evocata dal catechista Nicholas. Così insiste su quei costruttori di ponti, i catechisti appunto, fondamentali per edificare la Chiesa, senza i quali non si reggerebbe, così come senza i collegamenti tra le migliaia di isole, non ci sarebbe coesione in un arcipelago. Cosa è la fraternità se non un ricamo? E chi è, invece il divisore, chiede ancora Francesco: "Il diavolo". 

Un ricamo immenso di fili d’amore che attraversano il mare, superano le barriere e abbracciano ogni diversità, facendo di tutti «un cuore solo e un’anima sola» (cfr At 4,32).

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Sacerdoti e religiosi nella cattedrale di Nostra Signora dell'Assunzione a Jakarta

I calcoli di interesse sono distruttivi, la carità edifica

Infine, il Papa precisa il significato della compassione che molto è legata alla fraternità, "il patire con l'altro, bella parola...". Non è una debolezza ma una virtù, non è dispensare elemosine dall'alto di una torre, non è qualcosa che offusca la visione della realtà in un pietismo poco incisivo. Tutt'altro, come è richiamato nella Fratelli tutti: "Vuol dire anche abbracciarne i sogni e desideri di riscatto e di giustizia, prendersene cura, farsene promotori e cooperatori, coinvolgendo anche altri, allargando la “rete” e i confini in un grande dinamismo espansivo di carità". Il Papa invita ad essere attenti al "linguaggio del cuore", ricorda di "toccare" la povertà dell'altro, incrociando per davvero il suo sguardo. "Questo non vuole dire essere comunista, vuol dire carità", insiste ancora a braccio Bergoglio. Sono alcuni aneddoti raccontati dal Papa, che generano anche qualche ilarità nei presenti, ad accompagnare una espressione più volte ripetuta: "Il diavolo entra dalle tasche". 

Ciò che manda avanti il mondo non sono i calcoli di interesse - che finiscono in genere col distruggere il creato e dividere le comunità - ma la carità che si dona.

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Forti nella fede, aperti alla fraternità, vicini nella compassione

Procedendo con il suo tipico linguaggio per immagini, il Papa si lascia affascinare dal portale della cattedrale per evidenziare su cosa davvero si regge la Chiesa. La roccia è Cristo che "sembra portare il peso di tutta la costruzione", Maria simbolicamente con il suo 'sì' sostiene l'opera. Maria, immagine di fraternità, di accoglienza, icona di compassione. Conclude, il Successore di Pietro, ricordando e facendo proprie le parole del Salmo 96 che San Giovanni Paolo II amò ripetere in questa terra nell'89: Gioiscano le isole tutte. 

Anch’io vi rinnovo questa esortazione, e vi incoraggio a continuare la vostra missione forti nella fede, aperti a tutti nella fraternità e vicini a ciascuno nella compassione. Vi benedico e vi ringrazio per il tanto bene che fate ogni giorno! Prego per voi e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie.

* Antonella Palermo - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va

Il missionario della Consolata, Mons. Peter Makau, 49 anni, nominato dal Papa Francesco vescovo coadiutore della diocesi di Isiolo nel Kenya il 4 maggio 2024, sarà ordinato vescovo, questo sabato 27 luglio 2024, nella cattedrale di Sant'Eusebio nella Diocesi di Isiolo alle 10:00 ora locale.

Insime a molti missionari e missionarie della Consolata, alla Messa di ordinazione partecipa anche il Superiore Generale IMC, padre James Bhola Lengarin.

La Santa Messa sarà presieduta dal Nunzio Apostolico in Kenya, Mons. Bert Van Megen, l'ordinante principale.

La celebrazione in diretta su Capuchin TV

 L'ingresso di Mons. Peter Makau nella diocesi di Isiolo il venerdi 26 luglio 2024. (Video: Francisco Martínez)

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* Segretariato Generale per la Comunicazione

“Abbiamo ringraziato il Papa per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, siamo una minoranza ma dobbiamo essere luce e sale nella società”, dice il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel, acivescovo metropolita di Addis Abeba, che è a Roma ad altri 12 presuli e un sacerdote della Chiesa cattolica etiope in visita ad Limina.

Più di 500 anni fa i cristiani dell’Etiopia viaggiavano fino ad Alessandria, in Egitto, per pregare sulla tomba di San Marco, poi andavano a Gerusalemme per pregare sul Golgota e poi prendevano una nave fino a Roma, per recarsi sulle tombe dei Santi Pietro e Paolo e dei martiri, riposando nel luogo che è ancora il collegio etiopico in Vaticano. “Siamo qui a continuare la storia di questo pellegrinaggio antico”, spiega il cardinale Berhaneyesus, (in un'intervista alla Radio Vaticana). Dopo aver pregato nelle quattro basiliche maggiori a Roma, i vescovi hanno visitato i dicasteri della Santa Sede e, venerdì 28 giugno, sono stati ricevuti da Papa Francesco.

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Il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel ospite della Radio Vaticana. Foto: Vatican Media

Eminenza, come è andato l’incontro con il Papa?

Ci ha ricevuto con tanta semplicità e anche umiltà. Eravamo noi, soli con il Papa e abbiamo spiegato la nostra situazione in Etiopia. Lo abbiamo ringraziato anche per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, di cui lui ha parlato negli appelli dopo l'Angelus. Lo abbiamo ringraziato e gli abbiamo chiesto di continuare a pregare per noi.

Che cosa avete raccontato della realtà dell'Etiopia?

Noi abbiamo presentato la situazione dell'Etiopia dal punto di vista dei giovani, perché su 120 milioni, il 70% della popolazione è costituito da giovani che vogliono migliorare la loro vita e quella dei loro parenti. Vedono sulla tv e sui social media come vivono in altre parti del mondo e molti vanno nei Paesi arabi e purtroppo lì soffrono perché non sono preparati a lavorare come domestici. Altri vogliono andare in Sudafrica, dove va un po’ meglio, ma anche lì ci sono problemi. Gli altri vanno a nord e attraversando il Sudan e la Libia cercano di arrivare in Europa. Nel XIX secolo molti europei migravano e c’erano alcuni luoghi in Europa disponibili a riceverli e sostenerli, ma tutto questo adesso viene a mancare. Papa Francesco questo lo sa.

Il primo luogo che è andato a visitare, dopo l’elezione, è stato Lampedusa, dove ha offerto dei fiori per tutti quelli che sono morti in mare e dove ha detto a chi governa l’Europa che le migrazioni sono importanti. Dobbiamo fare qualcosa per aiutare la gente, sia in Africa sia in Siria o in altri Paesi. Quando qualcosa riguarda i poveri, ci ha detto, allora dobbiamo essere vicini a loro. Noi siamo accanto ai bambini, che soffrono molto quando non vanno a scuola perché le scuole sono distrutte, siamo vicini alle mamme che non possono andare negli ospedali perché sono distrutti e agli anziani che sono sfollati dai loro villaggi e vivono come stranieri. Gli abbiamo spiegato tutto questo e lui ha detto di continuare a essere vicini alla gente, in mezzo al popolo, così da poter sentire l’odore delle pecore. Un vescovo deve essere così. Non deve scappare ma deve essere tra la gente. Anche se non si possono fare grandi cose, la fraternità e la presenza paterna sono importanti. Lui ha detto così.

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Spazio di amicizia per donne e ragazze vittime dei drammi della guerra in Tigray

Com’è la vita della Chiesa cattolica in Etiopia, che è una comunità minoritaria nel Paese?

Noi siamo minoranza, circa il 2% di 120 milioni di persone. La maggioranza degli abitanti è cristiana: più del 45% sono ortodossi, poi vengono i protestanti, intorno al 18-20%. Abbiamo la responsabilità di essere luce e sale in questo grande Paese. Le sfide sono la povertà e i conflitti e noi, grazie all'appoggio della Chiesa universale, siamo al secondo posto per i servizi sociali che offriamo, come scuole, centri sanitari o centri gestiti dalle suore di Madre Teresa o presidi per lo sviluppo o l’assistenza umanitaria, come la Caritas. In tutto questo siamo chiamati ad essere luce e sale, come Gesù ci ha detto. Non è facile, ma ci stiamo provando.

Lei ha parlato anche dei conflitti che riguardano l'Etiopia, come quello che è avvenuto nel Tigray. Quali sono le ripercussioni per la popolazione?

Il conflitto in Tigray era fra il governo regionale e il governo federale. Una cosa politica, ma chi soffre è il popolo. Grazie a Dio, dopo due anni hanno fatto una pace a Pretoria. L'altro è in Oromia. L’Oromo Liberation Army è in lotta con il governo federale da quattro anni e anche lì chi soffre è il popolo. Hanno cominciato a parlare in Tanzania, ma non sono riusciti ancora a fare la pace. Il terzo fronte adesso, che continua da più di un anno, è nella regione Amhara. Anche lì ci sono i movimenti in conflitto con il governo federale. Speriamo che arriveranno a una soluzione. Noi come Chiesa cattolica non appoggiamo né l’uno né l’altro, ma siamo con il popolo che soffre.

Piuttosto siamo per l’assistenza sociale e per cercare una riconciliazione per il dopo guerra, quando si deve fare non solo la pace, ma anche guarire dai traumi sia chi ha sofferto direttamente nella guerra, come le donne vittime di abusi e i bambini che hanno visto le loro famiglie morire. Questo è importante e non si fa solo a livello di una piccola Chiesa, ma con l'appoggio della Chiesa universale. Si può fare insieme con i tanti missionari che lavorano con noi e che vengono da tutto il mondo.

* Michele Raviart - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: Vatican News

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