Il miracolo riguarda la guarigione di Sorino Yanomami, assalito e gravemente ferito da un giaguaro, nella foresta amazzonica brasiliana, il 7 febbraio 1996. Sorino è guarito e ha recuperato completamente la salute grazie all'intercessione del Beato Giuseppe Allamano.

DESCRIZIONE DELL’EVENTO

Sorino Yanomami è un indigeno di etnia Yanomami, nato nella comunità di Maimasik (Roraima-Brasile), presumibilmente nel 1955 (giorno e mese non sono registrati). Residente nella comunità di Yaropi (nella regione del medio corso del fiume Catrimani), è sposato con Helena Yanomami, ma senza figli. L’ambiente in cui è inserita la sua comunità è l’immensa foresta amazzonica, da cui, come gli altri membri del suo popolo, può ottenere ciò che è fondamentale per vivere, tramite la raccolta, la caccia, la pesca e la coltivazione di grandi orti.

La sua maloca (abitazione indigena, usando un termine tupi entrato nel vocabolario del portoghese brasiliano) è, tuttora, nei pressi di una “comunità missionaria della Consolata”, lì presente dal 1965 e costituita da religiosi (padri e fratelli coadiutori) e da suore missionarie.

Il superiore di allora, Guglielmo Damioli, così ricorda Sorino: «Lungo gli anni, già sposato, col suo gruppo familiare, Sorino era venuto a costruire la sua maloca all’inizio della pista di atterraggio della missione. Appariva frequentemente alla missione, sempre accompagnato dalla sua giovane sposa. Uomo comune, semplice, con un sorriso perenne sul volto. Buon cacciatore, in foresta, sulla fragile canoa, gran lavoratore nella piantagione per contribuire col gruppo e sostenere la sua famiglia».

Proprio nel cuore della foresta, quella mattina del 7 febbraio 1996, Sorino Yanomami subisce l’assalto di una femmina di giaguaro (onça pintada).

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Suor Florença Lindey con Sorino e la moglie nella casa di cura per gli indigeni, Hekura Yano a Boa Vista

Sempre Gugliemo Damioli, così racconta: «Il giaguaro, come di consueto, ha attaccato Sorino di sorpresa, alle spalle. Con una zampata, gli ha fratturato la scatola cranica. Sul posto, per terra, furono trovati dagli indigeni pezzi di osso e parte di massa encefalica. Nonostante la gravità estrema delle ferite, Sorino non perse i sensi; riuscì a svincolarsi, ad alzarsi e a usare l’arco come una lancia per tenere il giaguaro a una certa distanza, mentre gridava, chiedendo aiuto. In pochi minuti, con le grida e l’arrivo degli indigeni armati di archi e frecce, il giaguaro fuggiva».

Il cognato di Sorino, B. (non riportiamo il nome, per rispetto delle usanze Yanomami che non pronunciano più il nome di una persona già morta), corre al piccolo dispensario della missione a cercare soccorso e l’infermiera titolare, suor Felicita Muthoni, missionaria della Consolata kenyana, si precipita sul luogo dell’incidente per rendersi conto della situazione e prestare le prime cure.

Così, la suora ricorda quei primi momenti: «Ho visto Sorino per terra, in un bagno di sangue, sono rimasta impietrita, bloccata e tremante, non sapendo cosa fare. Ho chiamato sua madre e ho chiesto dell’acqua; poi ho capito che il cuoio capelluto sporgeva e che Sorino stava anche sanguinando molto; c’era molta sabbia, sporcizia e parte del cervello era fuoriuscito. Ho spinto dentro il cervello e poi ho preso il cuoio capelluto e l’ho rimesso a posto, ma continuava a sanguinare; era vivo, ma non parlava. Siccome non avevo portato niente con me, ho preso l’unica cosa che avevo, la maglietta che indossavo: me la sono tolta e l’ho avvolta alla testa di Sorino, per premere meglio e fermare un po’ l’emorragia.

Ho poi mandato qualcuno a cercare la Toyota, in servizio alla nostra missione. Con dona Creuza, nostra aiutante, lo abbiamo messo in un’amaca e poi sistemato nella Toyota arrivata nel frattempo con fratel Antonio Costardi che si trovava anche nella missione. Sono rimasta con lui seduta nella parte posteriore, tenendogli la testa e ci siamo diretti al piccolo dispensario della missione».

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Suore missionarie della Consolata di ritorno dalle visite alle comunità lungo il fiume Catrimani

Riferisce ancora suor Felicita: «Ho guardato le sue mani, ma le vene non erano più visibili.  Avevo del plasma e l’ho messo in un piede e, all’altro piede, una flebo di glucosio con un forte analgesico».

Vista la situazione di estremo pericolo, suor Felicita chiede che Sorino venga trasportato all’ospedale di Boa Vista, capoluogo dello stato di Roraima. Riesce a contattare la CCPY (Commissione Pro Yanomami) e le viene assicurato un posto sul piccolo aereo che fa servizio nella vasta area indigena, anche se dovrà aspettare un po’, perché le richieste di aiuto sono numerose.

Ma i compagni di Sorino si oppongono alla proposta di trasferire il paziente a Boa Vista. Come è frequente nella retorica che accompagna situazioni di tensione e preoccupazione, arrivano anche a proferire minacce; per loro, infatti, è inconcepibile che uno Yanomami possa morire fuori dal suo villaggio, senza l’accompagnamento dei parenti e di uno sciamano. Lo spirito di Sorino era pronto a fare il suo viaggio. Gridano: «No! Sorino resterà qui! Lo sciamano ha già detto che, quando il sole tramonterà, lui entrerà nella casa degli spiriti e salirà in alto».

Alla fine, cedono alla richiesta di suor Felicita, ma con una minaccia terribile: se il loro compagno dovesse morire in città, lontano dalla foresta e tra “i bianchi”, uccideranno, con le loro frecce, i missionari presenti al Catrimani.

Mentre si attende l’arrivo dell’aereo, un ragazzo porta una foglia di banano arrotolata, con dentro un frammento di osso della testa di Sorino, rinvenuto nel luogo dell’incidente, e formula una sua “diagnosi”: «Noi abbiamo visto bene quando Sorino è arrivato. Abbiamo visto il cervello, abbiamo visto l’osso, l’abbiamo tirato fuori e arrotolato e poi abbiamo parlato con gli xapuri, gli spiriti della foresta: Sorino non può vivere, perché il cervello è fuoriuscito!».

Verso le 14,00, con l’arrivo dell’aereo, Sorino viene imbarcato, accompagnato dal tuxaua (capo del villaggio) C. Dopo circa un’ora di volo, all’aeroporto di Boa Vista, viene accolto da Suor Rosa Aurea e Suor Lisadele, che lo trasportano immediatamente all’Ospedale Generale.

Ricordava il dott. José Nunes da Rocha, un medico che ha avuto in cura Sorino: «Quella di Sorino era una situazione molto grave e il paziente respirava con affanno, esalava miasma e non credevamo molto nella guarigione, perché il modo in cui era infetto, putrido e in un posto “nobile” come il cervello, avrebbe causato encefalite e meningite. Quindi, non avevamo davvero molte speranze, ma lui era arrivato vivo e dovevamo curarlo, facendo tutto il possibile».

Sorino giunge, dunque, al Pronto Soccorso dell’Ospedale Generale in stato di coma, in shock ipovolemico, con una vasta ferita al cranio (perdita di cute, osso, dura madre, estesa lesione fronto-temporo-parietale con perdita di sostanza cerebrale).

In anestesia generale, viene effettuato il lavaggio della ferita, che è contaminata da terra, frammenti ossei e sangue coagulato. Il paziente tollera la procedura senza problemi, ma a causa della perdita significativa di tessuto e dell’elevato rischio di infezione, la ferita viene lasciata aperta.

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L'interno di una maloca - abitazione Yanomami. Foto: Jaime C. Patias

Sulle condizioni del paziente abbiamo la testimonianza di suor Florença Lindey, religiosa che aveva lavorato al Catrimani e che conosceva bene Sorino e la sua famiglia: «Quando sono tornata a Boa Vista e i medici hanno saputo che ero arrivata, mi hanno chiamata per andare in ospedale. Sorino era stato ricoverato in terapia intensiva, non parlava e non mangiava. Quando sono entrata nella stanza, è rimasto sorpreso di vedermi, voleva abbracciarmi e parlare. Dopo alcuni giorni, è stato dimesso dalla terapia intensiva e trasferito in infermeria. Stava migliorando sempre di più, specialmente nell’umore, quando qualcuno che conosceva era con lui. Ad un certo punto del ricovero, è stato necessario eseguire un secondo intervento chirurgico, ma lui era contrario. Non è stato facile convincerlo, era molto determinato, aveva un carattere forte. Ho parlato con i medici e mi hanno permesso di accompagnarlo in sala operatoria; gli hanno spiegato e gli hanno assicurato che non avrebbe sentito dolore; quindi, ha accettato di sottoporsi all’intervento. Sono stata nella stanza per tutto il tempo dell’intervento. Quando è stato dimesso dal reparto di chirurgia, era ancora ricoverato in ospedale e sono sempre rimasta con lui, fino a quando non è stato trasferito alla casa di cura per gli indigeni, Hekura Yano», per la convalescenza.

Dal Diario della missione Catrimani, sappiamo che Sorino rientra al suo villaggio l’8 maggio, accolto dallo stupore e dalla gioia della sua famiglia, dei missionari e dai membri della sua comunità: è quasi perfettamente guarito, ma con l’obbligo di essere ancora seguito dal dispensario del Catrimani, presentandosi, ogni 15-20 giorni, per il controllo e le medicazioni.

Sull’aereo che lo riporta a casa, c’è anche suor Lisadele, la quale annota: «Sorino stava rientrando per la prima volta al Catrimani… ho visto la sua gioia di tornare. Ogni maloca lo stava aspettando, fu molto bello. La ferita era ancora semiaperta, quindi ho avuto l’opportunità di applicargli le medicazioni; lo lavavo con acqua ossigenata, lo pulivo con una garza e poi gli mettevo in testa il mio cappello, ma solo per proteggerlo dal sole».

Sorino riprende, così, la sua vita normale di “abitante della foresta” nelle sue attività di cacciatore, pescatore, agricoltore, anche se più debole per gli acciacchi dell’età che avanza, le anemie causate dalla malaria (endemica in quei luoghi) … mentre le sue condizioni di salute, al di là di ogni previsione, rimangono buone e senza alcuna conseguenza negativa dell’incidente.

Lui stesso, così si descrive, durante l’Inchiesta diocesana (2021): «Quando sono tornato dall’ospedale, facevo come gli altri Yanomami: lavoravo, coltivavo i campi, solo che ora non posso più lavorare, perché sono vecchio. Lavoro solo la mattina presto e, quando il sole diventa alto, torno a casa. Ma mi sento bene».

Interessante la testimonianza della dott.ssa Roberta Barbaro: «In data 4 marzo 2019 (dunque, ben 23 anni dopo l’assalto del giaguaro mi sono recata presso la missione Catrimani, ho incontrato Sorino Yanomami, avendo modo di osservarlo nella sua quotidianità. Sorino ha fornito un racconto dettagliato dell’incidente accorso nel 1996. Ha riferito di condurre una vita normale, continuando a svolgere le sue attività di caccia e pesca, senza problemi».

E conclude: «Il paziente presenta oggi completa ripresa funzionale e senza postumi alcuni, duratura nel tempo, che alla luce delle estese lesioni cerebrali riportate in seguito al trauma con perdita di sostanza, risulta scientificamente inspiegabile».

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Mons. Mário Antonio con la Commissione durante il processo diocesano per la canonizzazione del Beato Allamano. Foto: Diocesi di Boa Vista

La vicenda “umana e sanitaria” dell’indigeno Sorino Yanomami ha come sfondo un intenso movimento di fede e invocazione, ad opera soprattutto delle suore missionarie, che lo hanno assistito e accompagnato in tutto il decorso della sua malattia e guarigione.

Una “coincidenza”: il giorno dell’incidente in foresta era anche il primo giorno della novena, in preparazione alla festa del Fondatore dei missionari/e della Consolata, che cade il 16 febbraio. Da ciò, le suore hanno tratto l’ispirazione di affidare Sorino all’intercessione del beato Giuseppe Allamano.

Dal 7 al 16 febbraio 1996, e anche nei mesi successivi, sia alla missione del Catrimani, come nella Casa Regionale delle missionarie, a Boa Vista, si è intensificata l’invocazione, espressa in umili gesti, come il cero acceso per tutto il tempo della novena o, subito dopo l’operazione, l’azione furtiva di suor Maria Da Silva Ferreira di infilare, sotto la stuoia di Sorino, una reliquia del Fondatore.

Un esempio dell’intensa preghiera da parte delle suore di Roraima è quella di suor Felicita Muthoni, nella missione del Catrimani, dopo la partenza di Sorino per l’ospedale della città: «Oh, mio Dio, oggi iniziamo la novena del nostro Fondatore. Ho detto: Hai fondato i tuoi missionari per i non cristiani. Per questo popolo, ti chiederò una cosa: che Sorino possa guarire completamente (perché, se guarisce e rimane storpio, non può vivere nella foresta). Guarisca completamente, per poter cacciare, coltivare, pescare… può guarire, se tu intervieni!».

Iniziava da quel momento il percorso di guarigione di Sorino Yanomami che, nonostante la prognosi infausta, «guarisce completamente, per poter cacciare, coltivare, pescare», come aveva chiesto al Fondatore, suor Felicita Muthoni.

* A cura della Postulazione a Roma.

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