Incontro con le autorità, con la societa civile e con il corpo diplomatico (2 settembre)

Ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le parole che mi ha rivolto, e porgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Sono onorato di essere qui, felice di aver viaggiato verso questa terra affascinante e vasta, verso questo popolo che ben conosce il significato e il valore del cammino. Lo rivelano le sue dimore tradizionali, le ger, bellissime case itineranti. Immagino di entrare per la prima volta, con rispetto ed emozione, in una di queste tende circolari che punteggiano la maestosa terra mongola, per incontrarvi e conoscervi meglio. Eccomi dunque all’ingresso, pellegrino di amicizia, giunto a voi in punta di piedi e con il cuore lieto, desideroso di arricchirmi umanamente alla vostra presenza.

Ho saputo che dalla porta della ger, di prima mattina, i bambini delle vostre campagne stendono lo sguardo sul lontano orizzonte per contare i capi di allevamento e riferirne il numero ai genitori. Fa bene anche a noi abbracciare con lo sguardo l’ampio orizzonte che ci circonda, superando la ristrettezza di vedute anguste e aprendoci a una mentalità dal respiro globale, come invitano a fare le ger che, nate dall’esperienza del nomadismo delle steppe, si sono diffuse su un territorio vasto, divenendo elemento identificativo di diverse culture vicine. Gli spazi immensi delle vostre regioni, dal deserto del Gobi alla steppa, dalle grandi praterie alle foreste di conifere fino alle catene montuose degli Altai e dei Khangai, con le innumerevoli anse dei corsi d’acqua, che visti dall’alto sembrano decorazioni raffinate su antiche stoffe pregiate: tutto questo è uno specchio della grandezza e della bellezza dell’intero pianeta, chiamato a essere un giardino ospitale. La vostra sapienza, la sapienza del vostro popolo, sedimentata in generazioni di allevatori e coltivatori prudenti, sempre attenti a non rompere i delicati equilibri dell’ecosistema, ha molto da insegnare a chi oggi non vuole chiudersi nella ricerca di un miope interesse particolare, ma desidera consegnare ai posteri una terra ancora accogliente, una terra ancora feconda. Quello che per noi cristiani è il creato, cioè il frutto di un benevolo disegno di Dio, voi ci aiutate a riconoscere e a promuovere con delicatezza e attenzione, contrastando gli effetti della devastazione umana con una cultura della cura e della previdenza, che si riflette in politiche di ecologia responsabile. Le ger sono spazi abitativi che oggi si potrebbero definire smart e green, in quanto versatili, multi-funzionali e a impatto-zero sull’ambiente. Inoltre, la visione olistica della tradizione sciamanica mongola e il rispetto per ogni essere vivente desunto dalla filosofia buddista rappresentano un valido contributo all’impegno urgente e non più rimandabile per la tutela del pianeta Terra.

Le ger, presenti nelle zone rurali così come nei centri urbanizzati, testimoniano inoltre il prezioso connubio tra tradizione e modernità; esse infatti accomunano la vita di anziani e giovani, raccontando la continuità del popolo mongolo, che dall’antichità al presente ha saputo custodire le proprie radici, aprendosi, specialmente negli ultimi decenni, alle grandi sfide globali dello sviluppo e della democrazia. 

Entrati in una ger tradizionale, lo sguardo è portato a elevarsi verso il punto centrale più alto, dove c’è una finestra sul cielo. Vorrei sottolineare questo atteggiamento fondamentale che la vostra tradizione ci aiuta a riscoprire: saper tenere gli occhi rivolti in alto. Alzare gli occhi al cielo – l’eterno cielo blu da voi sempre venerato – significa restare in un atteggiamento di docile apertura agli insegnamenti religiosi. C’è infatti una profonda connotazione spirituale tra le fibre della vostra identità culturale ed è bello che la Mongolia sia un simbolo di libertà religiosa. Nella contemplazione degli orizzonti sterminati e poco popolati da esseri umani, si è affinata infatti nel vostro popolo una propensione al dato spirituale, a cui si accede dando valore al silenzio e all’interiorità. Davanti al solenne imporsi della terra che vi circonda con i suoi innumerevoli fenomeni naturali, nasce anche un senso di stupore, il quale suggerisce umiltà e frugalità, scelta dell’essenziale e capacità di distacco da tutto ciò che non lo è. 

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Le religioni quando si rifanno al loro originale patrimonio spirituale e non sono corrotte da devianze settarie, sono a tutti gli effetti sostegni affidabili nella costruzione di società sane e prospere, dove i credenti si spendono affinché la convivenza civile e la progettualità politica siano sempre più al servizio del bene comune, rappresentando anche un argine al pericoloso tarlo della corruzione.

Di sguardo verso l’alto e di ampie vedute furono invece protagonisti molti dei vostri leader antichi, i quali dimostrarono una non comune capacità di integrare voci ed esperienze diverse, anche dal punto di vista religioso. Un atteggiamento rispettoso e conciliante era infatti riservato anche alle molteplici tradizioni sacre, come testimoniano i diversi luoghi di culto – tra cui uno cristiano – tutelati nell’antica capitale Kharakhorum. È stato dunque quasi naturale per voi arrivare alla libertà di pensiero e di religione, sancita dalla vostra attuale Costituzione; superata, senza spargimento di sangue, l’ideologia atea che credeva di dover estirpare il senso religioso, ritenendolo un freno allo sviluppo, vi riconoscete oggi in quel valore essenziale dell’armonia e della sinergia tra credenti di fedi diverse, che –ognuna dal proprio punto di vista– contribuiscono al progresso morale e spirituale.

In tal senso, la comunità cattolica mongola è lieta di continuare ad apportare il proprio contributo. Essa ha cominciato, poco più di trent’anni fa, a celebrare la sua fede proprio all’interno di una ger e pure la cattedrale attuale, che si trova in questa grande città, ne ricorda la forma. Sono segni del desiderio di condividere la propria opera, in spirito di servizio responsabile e fraterno, con il popolo mongolo, che è il suo popolo. Sono perciò contento che la comunità cattolica, per quanto piccola e discreta, partecipi con entusiasmo e con impegno al cammino di crescita del Paese, diffondendo la cultura della solidarietà, la cultura del rispetto per tutti e la cultura del dialogo interreligioso, e spendendosi per la giustizia, la pace e l’armonia sociale.

La Chiesa cattolica, istituzione antica e diffusa in quasi tutti i Paesi, è testimone di una tradizione spirituale, di una tradizione nobile e feconda, che ha contribuito allo sviluppo di intere nazioni in molti campi del vivere umano, dalla scienza alla letteratura, dall’arte alla politica. Sono certo che anche i cattolici mongoli sono e saranno pronti a dare il proprio apporto alla costruzione di una società prospera e sicura, in dialogo e collaborazione con tutte le componenti che abitano questa grande terra baciata dal cielo.

«Sii come il cielo». Con queste parole, un famoso poeta invitava a trascendere la caducità delle alterne vicende terrene, imitando la magnanimità ispirata proprio dall’immenso e terso cielo blu che si contempla in Mongolia. Anche noi, oggi, pellegrini e ospiti in questo Paese che tanto può offrire al mondo, desideriamo raccogliere tale invito, traducendolo in segni concreti di compassione, dialogo e progettualità comune. Possano le diverse componenti della società mongola, qui ben rappresentate, continuare a offrire al mondo la bellezza e la nobiltà di un popolo unico. Come la vostra scrittura, così possiate restare “in piedi” e sollevare tante sofferenze umane intorno a voi, ricordando a tutti la dignità di ogni essere umano, chiamato ad abitare la casa terrena abbracciando il cielo. Bayarlalaa! [grazie!].

Discorso completo

Lutsk

Questo viaggio si svolge nel cuore dell’estate ed inizia con una prima tappa nella città di Lutsk, la prima che si incontra entrando dalla frontiera più a nord dalla Polonia. Questa città come del resto la regione chiamata Volyn, è la zona più lontana dal fronte. Per questo motivo più di 100 mila rifugiati hanno trovato qui accoglienza. 

I problemi non mancano considerando che la zona è economicamente povera. Nella regione si trovano decine di villaggi medio piccoli e qui la gente sono prevalentemente contadini. In questa zona, fortemente influenzata dalla vicina Polonia, sono avvenuti scontri molto crudeli alla fine delle seconda guerra mondiale. La presenza dei cristiani cattolici è bassa; sono molto più numerosi gli ortodossi. Quasi ogni nostro viaggio è iniziato da qui perché e la strada più diretta per proseguire nel paese arrivando dalla Polonia. Conosciamo il Vescovo Mons Vitalii; la chiesa locale è impegnata nell’aiutare i rifugiati che hanno trovato riparo in questa regione.

Lubieszów

Il giorno successivo di buon mattino ci mettiamo in viaggio insieme a don Paolo, il vicario del Vescovo, in direzione nord verso Lubieszów  a 130 km da Lutsk. Lubieszow e una cittadina di circa 10 mila abitanti posta a soli 20 km. dal confine con la Bielorussia. Lo scopo di questa breve visita è quello di visitare un chiesa e il convento adiacente che il Vescovo vorrebbe dare al nostro Istituto, per una possibile futura presenza di lavoro missionario. La chiesa dedicata ai SS Cirillo e Metodio è stata costruita dai Cappuccini nel XVIII secolo; con la seconda guerra mondiale e l’inizio dell’occupazione russa, i frati hanno dovuto abbandonare tutto. Dopo il convento divenne la stazione della Polizia locale e la chiesa una sala di ginnastica. Quando nel 1992 cadde il muro di Berlino e la democrazia ritornò in Ucraina il complesso fu restituito alla diocesi locale. Oggi la comunità locale e formata da circa 30 fedeli che la domenica partecipano alla S. Messa presieduta da un parroco polacco che vive a 60 km da qui. L’intero edificio ha bisogno di importanti lavori di manutenzione, già iniziati con il cambio del tetto. Vedremo se in futuro il discernimento che faremo coi superiori ci porterà forse un giorno a lavorare in questo luogo. 

Dopo questa breve visita ci dirigiamo verso Kiev che raggiungiamo dopo circa 6 ore di viaggio. Ci alloggiamo in Nunziatura per riprendere il viaggio il giorno successivo in direzione di Cherson. La sera faccio una passeggiata nella centro della città per sgranchire la gambe dopo le lunghe ore di viaggio e per gustare le bellissime chiese e palazzi illuminati. 

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Cherson

La distanza che separa  Kiev da Cherson è di quasi 600 km passando per la strada più diretta e sicura. Il GPS la mostra chiusa ma in realtà è percorribile. Il viaggio ci regala dei paesaggi suggestivi. La giornata calda e soleggiata fa brillare intensamente le sconfinate distese di coltivazioni di girasoli che spesso incontriamo. 

Sono abbastanza numerosi i grandi camion che viaggiano in direzione sud carichi di cereali e frumento per poi essere imbarcati nelle gigantesche navi cargo nel grande porto di Odessa e da li partire per tutto il mondo. Purtroppo i magazzini portuali sono diventati ultimamente obiettivi sensibili e spesso sono stati colpiti causando la perdita di tonnellate di prodotti. Anche il mancato accordo sul grano contribuisce a far lievitare i prezzi a livello mondiale di queste materie prime così importanti per sfamare tantissime povere popolazioni nel mondo.

Torniamo a Cherson per la seconda volta dopo essere stati qui a marzo. La situazione non è cambiata. La città prima occupata e poi liberata è continuamente sotto tiro, giorno e notte. Il fiume è la linea naturale del confine. Abbiamo con noi aiuti sanitari. In particolare abbiamo raccolto pastiglie utili per disinfettare l’acqua. Il 6 giugno  a circa 100 km da qui in direzione nord fu fatta saltare la diga sul fiume a Kakhovka. L’esplosione della diga liberò lungo il tracciato del fiume una piena che travolse e allagò villaggi e città dove ancora oggi non c’è acqua potabile.

A Cherson  il parroco don Massimo ci indica la pareti delle case con il segno lasciato dall’acqua della piena. Molte case sono state invase dall’acqua, quelle più fragili sono state distrutte, alcune persone, rimaste senza niente, sono ospiti in parrocchia.

Cherson è una città disabitata. Prima del conflitto contava con circa 300 mila abitanti. Oggi si stima che siano tra i 20 e i 25 mila. La mattina, nelle zone più lontane dal fiume, troviamo aperto qualche negozio e il mercato, invece nei pressi del fiume non si vede quasi nessuno durante tutto il giorno. I mezzi pubblici, dove è possibile, svolgono ancora il loro servizio e nei pressi delle fermate degli autobus ci sono dei rifugi dove la gente può trovare riparo quando la città è bombardata.

Nel primo pomeriggio le strade dell’intera città si svuotano, i mezzi si fermano e dalle nove di sera fino alle cinque del mattino c’è il coprifuoco. Per motivi di sicurezza è proibito accendere luci nei piani più alti dei palazzi anche se poi sono poche le persone che abitano in posti elevati perché ritenuti troppo pericolosi.

La mattina visitiamo l’ospedale pediatrico della città accompagnati dalla dottoressa responsabile. Ci racconta che prima della guerra qui nascevano annualmente circa 1500 bambini e invece oggi si registrano poco più di una ventina di parti al mese. La sala parto è una semplice stanza con l’occorrente e, a fianco, ce un’altra stanza che è la sala operatoria; quando ci affacciamo vediamo che un intervento è in corso. 

Tutte le attività dell’ospedale sono state trasferite al piano terra. Il quarto piano tempo fa è stato colpito da un razzo, ci è concesso visitarlo brevemente; dal balcone più alto si può vedere tutta la città.

Scendiamo nelle cantine dove si trovano i locali più sicuri. Qui ci sono delle brandine con i sacchi a pelo. Durante gli allarmi questo è il luogo di riparo. A fianco di esso si sta lavorando per organizzare una sala operatoria. 

All’esterno dell’ospedale vediamo un grande generatore di corrente ancora imballato che è arrivato con una serie di aiuti umanitari. La dottoressa ci dice che sarebbe molto utile ma purtroppo non ci sono i cavi per collegarlo e renderlo operativo. Promettiamo cercare di procurarceli.

La parrocchia del sacro cuore, dove siamo ospiti, è uno dei pochi centri di distribuzione di aiuti agli abitanti. Il giorno precedente al nostro arrivo è stata organizzata una distribuzione e a circa mille persone è stato consegnato del cibo. 

Questa distribuzione è rischiosa. Ogni assembramento di persone costituisce un potenziale obiettivo. E’ sufficiente che questa informazione arrivi dalla parte opposta del fiume e si potrebbero avere conseguenze gravi. Per questo motivo il giorno e l’ora della distribuzione sono spesso cambiati e mai fatti con una certa regolarità anche se gli aiuti oggi stanno arrivando con bastante regolarità; senza di essi sarebbe difficile sfamare i cittadini di questo luogo. 

Oltre alla parrocchia in città è stata aperta una mensa organizzata dai padri domenicani che, pur non vivendo qui, assicurano il cibo e ciò che occorre per la distribuzione. Ogni giorno vengono preparati 1000 pasti. Si possono consumare sul posto oppure una rete di volontari li consegna nelle case. Anche la parrocchia greco cattolica della città guidata dai pp. Basiliani è impegnata nella distribuzione degli aiuti. 

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Fedorivka

Nel pomeriggio di questa intensa giornata ci rechiamo in un villaggio fuori città, di nome Fedorivka a situato a poche decine di chilometri a nord di Cherson. Fedorivka è uno dei tanti villaggi colpiti dall’inondazione avvenuta a causa della distruzione della diga. Per arrivare qui occorre passare diversi check point dei militari. Ne vediamo alcuni su una macchina che hanno appena abbattuto un drone: i resti sono ancora visibili e fumanti in un campo non lontano da lì.

Nel villaggio siamo accolti dal responsabile con la moglie. Portiamo un generatore di corrente perché qui gli abitanti non hanno più di due ore di corrente al giorno, troppo poca per tenere carichi i telefonini tutto il giorno; il generatore sarà messo a disposizione nella chiesetta del villaggio. 

Ci accompagnano in una breve visita e ci raccontano che l’acqua dell’inondazione è rimasta stagnante per più di due settimane; il terreno pianeggiante non favoriva il deflusso. Molte case e fienili sono stati trascinati via insieme ad animali. Sacchi di cereali custoditi nei magazzini sono marciti. Chi è rimasto prova ora salvare ciò che è possibile salvare. 

In questi villaggi per motivi igienici esiste ancora il divieto di bere l’acqua dai pozzi. Per questo si cercano alternative come autopompe (una purtroppo si è guastata), acqua in bottiglia e pastiglie disinfettanti. In tutti i campi e attorno al villaggio persiste il cattivo odore del marciume. 

Portiamo del cibo a una coppia di anziani. Ci raccontano che durante il tempo dell’occupazione nella loro casa tenevano nascosti 6 soldati ucraini in fuga ma poi arrivarono le forze speciali russe che li stavano cercando. La signora li nascose in un locale e diede loro il rosario dicendo: “che crediate o no, usatelo!”. Lei stessa informò i russi che non aveva mai visto i militari ucraini e allora questi se ne andarono. Quando si furono allontanati i soldati ucraini, a piedi, scapparono fino a Mikolajow. 

Tornati in città trascorriamo la serata in parrocchia dopo aver fatto una breve passeggiata nei dintorni. Come spiegavo più sopra il quartiere appare deserto e per tutta la notte siamo stati svegliati dal suono delle sirene e dai colpi di artiglieria.

*Missionario della Consolata in Polonia

Non restare imprigionati nella paura

  • , Lug 11, 2023
  • Pubblicato in Notizie

Lettera in occasione del decimo anniversario della visita a Lampedusa

Carissimi, in questi giorni in cui stiamo assistendo al ripetersi di gravi tragedie nel Mediterraneo, siamo scossi dalle stragi silenziose davanti alle quali ancora si rimane inermi e attoniti. La morte di innocenti, principalmente bambini, in cerca di una esistenza più serena, lontano da guerre e violenze, è un grido doloroso e assordante che non può lasciarci indifferenti. È la vergogna di una società che non sa più piangere e compatire l’altro.

Sono trascorsi dieci anni dal viaggio che ho voluto compiere nella comunità lampedusana per manifestare il mio sostegno e la paterna vicinanza a chi dopo penose peripezie, in balìa del mare, è approdato sulle vostre coste. Il consumarsi di sciagure così disumane deve assolutamente scuotere le coscienze; Dio ancora ci chiede: “Adamo dove sei?”, “Dov’è il tuo fratello?” Vogliamo perseverare nell’errore, pretendere di metterci al posto del Creatore, dominare per tutelare i propri interessi, rompere l’armonia costitutiva tra Lui e noi? Bisogna cambiare atteggiamento; il fratello che bussa alla porta è degno di amore, di accoglienza e di ogni premura. È un fratello che come me è stato posto sulla terra per godere di ciò che vi esiste e condividerlo in comunione.

In tale contesto, tutti siamo chiamati ad un rinnovato e profondo senso di responsabilità, dando prova di solidarietà e di condivisione. È necessario quindi che la Chiesa, per essere realmente profetica, si adoperi con sollecitudine per porsi sulle rotte dei dimenticati, uscendo da sé stessa, lenendo con il balsamo della fraternità e della carità le piaghe sanguinanti di coloro che portano impresse nel proprio corpo le medesime ferite di Cristo. 

Vi esorto perciò a non restare imprigionati nella paura o nelle logiche di parte, ma siate cristiani capaci di fecondare con la ricchezza spirituale del Vangelo codesta Isola, posta nel cuore del Mare Nostrum, affinché ritorni a splendere nella sua originaria bellezza.   

Mentre ringrazio ciascuno di Voi, volto radioso e misericordioso del Padre, per l’impegno di assistenza a favore dei migranti, affido al Signore della vita i morti nelle traversate, e volentieri imparto la mia Benedizione, chiedendo per favore di pregare per me.  

Padre Luca, come è stai vivendo la guerra in Ucraina così vicina al luogoin cui ti trovi?

Vivo da 15 anni in Polonia, nel Paese confinante con l'Ucraina. Quando è scoppiata la guerra, ricordiamo tutti molto bene le migliaia, milioni di persone che dall'Ucraina sono improvvisamente entrate in Polonia, mamme e bambini. Ci siamo impegnati molto nell'accoglienza di queste persone nella prima fase

"Questa è stata la prima fase di accoglienza, poi la nostra attenzione si è spostata maggiormente sull'Ucraina,  dove purtroppo ancora il conflitto continua e quindi abbiamo iniziato a compiere viaggi in macchina. Solo nell'ultimo anno ci sono stato cinque volte. L'ultima volta un mese fa, a metà marzo, insieme a un altro sacerdote polacco, don Leszek Kryza, che è un profondo conoscitore dell'Ucraina. Lui ora lavora in Polonia, ma ha molti contatti in Ucraina. Insieme abbiamo iniziato a portare questi aiuti rispondendo alle necessità che sono davvero grandi in questo momento".

Cosa vuole che la gente in Italia sappia dell’Ucraina e degli ucraini che vivono questa guerra?

Ogni viaggio che ho fatto è stata un'occasione per incontrare le persone in tanti paesi, in tante città. Abbiamo visitato e portato aiuto, lo stiamo ancora portando in queste settimane in tutto il Paese: dalla zona più lontana dal fronte come, per esempio, la grande città Leopoli o altre città dove ci sono tantissimi profughi provenienti dalla zona est, ma siamo arrivati anche nelle zone del fronte: l'ultimo viaggio lo abbiamo fatto a Kherson, prima ancora a Kharkiv. Compiendo questi viaggi, incontriamo tantissime persone: sono persone stanche, stanche della guerra. Non dimentichiamo che dura da più di un anno, ma in alcune regioni del Paese da ben nove anni ininterrottamente. Non c'è giorno che da qualche parte in Ucraina non ci siano bombe, esplosioni. Questa da un senso costante di paura. 

Allo stesso tempo c'è la speranza che questa guerra possa concludersi prima o poi e speriamo il prima possibile. Ed è anche la nostra speranza. È chiaro che al momento realisticamente non è facile vedere una fine perché la situazione è molto complessa, però non dimentichiamo che l'obiettivo da raggiungere è la pace.

Secondo Lei, quale è il compito della Chiesa in questi momenti così drammatici?

Io ammiro grandemente le persone che ho incontrato – religiosi, sacerdoti, suore, vescovi – che per scelta sono rimasti tutti praticamente li dove già vivevano prima dello scoppio della guerra. Li ammiro perché non è facile. Hanno avuto e stanno dimostrando un grande coraggio e questa vicinanza alle persone è un qualcosa di impagabile, preziosa tanto quanto sono preziosi gli aiuti umanitari, forse ancora di più. Perché se le persone soffrono per mancanza di beni materiali, non dimentichiamo che la sofferenza più grande è la mancanza di umanità che queste persone vedono in pochi giorni, in pochi attimi, scomparire nella loro vita. La presenza della Chiesa, dei religiosi, delle persone che sono lì col popolo di Dio, è un segno anzitutto di presenza: “Ci sono, sono vicino a te nella sofferenza. Non scappo. Ti aiuto per quanto ti posso aiutare. Soffro con te, spero con te e condivido con te quello che ricevo”. Credo che sono un po’ gli atteggiamenti che in questo momento stanno distinguendo queste persone. Invito davvero tutti a continuare a pregare per loro perché sempre abbiano forza, abbiano coraggio e possano sempre indicare l'obiettivo che tutti speriamo, l'obiettivo della pace, che possa arrivare al più presto anche attraverso loro.

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In Ucraina le persone dicono che questa guerra le ha cambiate. Che effetto ha avuto su di lei il fatto di avere un contatto così ravvicinato con questa terra?

Credo che abbia cambiato anche me, nel senso che io mai, mai avrei immaginato di trovarmi in una situazione come questa, pur non vivendo in Ucraina, ma essendo a stretto contatto, tornandoci spesso e comunque vivendo quelle relazioni che si sono messe in moto a causa della guerra. La guerra è brutta, la guerra è tremenda, la guerra ti distrugge, porta morte, però vorrei anche essere portavoce non soltanto di questa tragedia, ma anche provare a far vedere che c'è un lato positivo: c'è una grande umanità che si sta muovendo nel corso della guerra, persone che comunque vogliono fare qualcosa, vogliono aiutare, vogliono essere vicino a queste persone. Ne ho conosciute tante. E questo per dire che di fronte a una tragedia come quella che si sta consumando in Ucraina in questo momento, la risposta del bene è forte, anche se è una risposta più silenziosa e molto meno appariscente del male. E io sono un po’ testimone anche di questo.

Il mio coinvolgimento è dovuto anche al fatto che tante persone mi hanno contattato in maniera del tutto spontanea dicendo: “Padre Luca, noi abbiamo questi beni, aiutaci a farli arrivare in sicurezza. Tanti aiuti li trovo in Italia, e anche, chiaramente, in Polonia: la mia Congregazione manda gli aiuti dalla Spagna, dal Canada, dal Sudafrica; da tutto il mondo sono venuti gli aiuti in diversi modi: chi si è fermato un mese, che si è fermato due, chi ha spedito dei container, chi una somma di denaro. Questo è un segno di come di fronte a una realtà così grande e tragica c'è, comunque, una risposta positiva che guai se venisse a mancare. Questa è una risposta positiva che occorre costruire, credere, sottolineare, ricordare perché a noi la guerra fa paura, fa impressione, giustamente, però il bene deve essere più forte, deve vincere questa guerra e crediamo fortemente in questo.

Quale, secondo Lei, dovrebbe essere la risposta dei cristiani che non vivono direttamente nei paesi colpiti, alla tragedia di guerra non solo in Ucraina, ma anche in tanti altri Paesi del mondo? 

Io credo che il compito di ognuno di noi è porsi la domanda: “Cosa posso fare io?” Io non avrò mai la possibilità di cambiare i destini della guerra perché non ho questa responsabilità, però nel mio piccolo posso fare qualcosa. Ed è una domanda che se tutti quanti ci facciamo e alla quale cerchiamo di rispondere, troveremo davvero la forza e capiremo cosa concretamente possiamo fare. E qui dai bambini, agli adulti, agli anziani – tutti possiamo fare qualcosa di concreto.

Vi racconto questo piccolo episodio. Durante l’ultimo viaggio siamo stati a Kherson che è una città a sud dell’Ucraina. La regione di Kherson è divisa dal fiume Dnipro che in questo momento è proprio il confine della linea frontale. Ero accompagnato dal parroco locale. La zona è insicura, pericolosa e come sacerdoti non soltanto abbiamo portato gli aiuti in quel contesto, ma abbiamo pregato in quel momento lì, proprio sulla riva del fiume. Spontaneamente ha voluto benedire proprio quello che stava succedendo lì, dicendo: “Signore, aiutaci, perché siamo veramente deboli di fronte a questo”. Questo è un piccolo esempio, ma senza andare in queste situazioni così esposte, credo che ognuno di noi davvero può fare e dovrebbe fare qualcosa positivamente. San Paolo dice: “Vinci il male con il bene”. E quando il male è grande, non ti devi spaventare, non riuscirai a vincerlo completamente, però per lo meno quella piccola goccia di bene che puoi fare portala e tuvedrai che tante piccole gocce potranno veramente dare un grande effetto, contribuiranno ad un grande sollievo per tante persone.

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Fonte: VATICAN NEWS

La città di Kherson si trova nel sud del paese. È costruita interamente sulla sponda occidentale del fiume Dnieper che lì vicino sfocia nel mar Nero. La città e stata occupata all’inizio della guerra alla fine di febbraio del 2022 e liberata l’11 novembre. La liberazione della città purtroppo non ha coinciso con la ritrovata pace. I soldati russi hanno arretrato sulla sponda orientale del fiume e da li costantemente colpiscono la città a poche centinaia di metri, separati soltanto dal fiume.

Qui vive don Massimo, parroco dell’unica parrocchia cattolica della città dedicata al Sacro Cuore, insieme al suo vicario anche lui don Massimo. Lì, con don Leszek Krzyza, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la conferenza episcopale polacca, li abbiamo incontrati nell’ultimo nostro viaggio avvenuto tra il 17 e il 21 marzo. Don Massimo è giovane, ha solo 36 anni ed è nativo proprio di Kherson, guida la parrocchia nella quale e cresciuto da bambino. Abbiamo deciso di venirlo a trovare perché sappiamo che sono poche le persone che qui vengono, cosa da lui molto apprezzata. Ci diamo appuntamento in macchina fuori dalla città per essere da lui accompagnati. Occorre infatti passare diversi check point per entrare. Nell’ultimo controllo dopo aver mostrato i documenti e l’aiuto umanitario che trasportiamo: generatori di corrente e una stufa a legna, il soldato, indicandoci con un cenno che potevamo proseguire, ci dice in inglese «good luck», buona fortuna. 

La città di Kherson prima della guerra aveva 300 mila abitanti, oggi ce ne sono circa 20 mila. Il coprifuoco inizia alle 17.00 col divieto di uscire per le strade ma in realtà –ci spiega don Massimo– già dalle 14.00 nessuno si vede più in giro. C’è un silenzio strano, profondo e triste, interrotto soltanto dai colpi sparati a pochi chilometri che risuonano nell’aria.

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A distanza di un anno chi vive qui riesce a capire dal rumore chi e stato a sparare. Più volte siamo tranquillizzati, non vi preoccupate questi sono i nostri.

Non potendo uscire, trascorriamo il pomeriggio e la serata nella casa parrocchiale. Facciamo lunghe chiacchierate alternando temi allegri che ci fanno sorridere a racconti più seri su quanto accade qui. Ci accorgiamo quanto sia importante l’esserci, l’ascoltarci e il guardarci, molto più prezioso di tanti aiuti materiali che comunque, ringraziando il cielo, non mancano e che sono vitali per le persone che qui cercano di sopravvivere. 

In questo luogo anche la distribuzione degli aiuti e problematica e il problema non è la mancanza di aiuti ma il fatto che le persone si radunano insieme durante la distribuzione e diventando un possibile ed invitante bersaglio. Per questo motivo il giorno e l’ora vengono sempre cambiati. Nonostante la pericolosità e i divieti, alcuni, per essere tra i primi a riceverli, trascorrono la notte all’aperto aspettando.

Don Massimo ci accompagna nel solaio e ci mostra il buco lasciato dal razzo inesploso che è entrato nella soffitta a dicembre e oggi custodito come ricordo dopo essere stato messo in sicurezza lì vicino. Era il 23 dicembre. Le donne stavano preparando la chiesa per il Natale quando improvvisamente il rumore dal tetto. La notizia del “miracolo” aveva fatto velocemente il giro, amplificata dal web. E veramente inspiegabile quello che era accaduto. Tuttavia, la pubblicità fattasi attorno a questo ha preoccupato non poco chi abita qui perché il web è visto anche da coloro che si trovano dalla parte opposta del fiume.

La notte riusciamo a riposare e al mattino di buon’ora ci mettiamo in macchina per visitare la città. Qualche persona cammina per le strade principali per fare un po’ di spesa. Con sorpresa notiamo che funzionano gli autobus anche se non quelli elettrici perché i cavi sono stati tagliati. Tuttavia, l’impressione è quella di una città vuota e triste. Andiamo sulla piazza centrale luogo prima di proteste e poi dei festeggiamenti. Il grande edifico del governatore ha sulla sinistra una parte completamente distrutta, centrata da un razzo, le finestre dell’ultimo piano che si affaccia sulla piazza sono tutte saltate e alcune penzolano nel vuoto. La parete laterale e stata centrata e distrutta.

Nel parco della città camminando con attenzione solo sui vialetti cementati colpiti dalle schegge dell’esplosioni ma evitiamo di calpestare l’erba dei giardini nascondiglio insidioso delle mine sparse dappertutto, ci avvinciamo alla grande torre televisiva che giace sul prato. Sarà lunga oltre 60 metri. Si avvicina a noi una macchina della polizia attirata forse del fatto che stiamo facendo fotografie, ma dopo pochi secondi prosegue oltre. Dai vialetti raccogliamo alcune schegge lasciate dai razzi, sono molto affilate e toccandole si può immaginare il danno che provocano lanciate all’impazzata dalla forza dell’esplosione.

Facciamo ancora un salto davvero breve fino alla sponda del fiume in una delle tante piazze della città che vi si affacciano. A poche centinaia di metri si vede la sponda opposta coperta prima dai canneti e poi la terra ferma. Qui inizia la zona occupata. Rimaniamo solo qualche istante, è pericoloso sostare qua; qualche foto e un breve video e poi ritorniamo in parrocchia.

È domenica mattina e quindi si celebra la Messa coi fedeli che sono circa 20 tra i quali anche tre bambini molto allegri e sorridenti e quasi incuranti del luogo e delle condizioni in cui vivono: apprezzano tanto la cioccolata che regaliamo loro. Era la quarta domenica di quaresima, chiamate laetare (gioire), che qui risuona come un invito da accogliere nella fede e nella speranza.

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Mikolajów

A poche decine di chilometri in direzione ovest quasi sulla sponda del mar Nero si trova la città di Mikolajów che raggiungiamo la domenica stessa. Qui si trova il Santuario di S. Giuseppe che oggi celebra la festa patronale. La città a differenza di Kherson non è stata occupata anche se porta i segni e le ferite dei tentativi di occupazione.

Dopo la celebrazione solenne, presieduta dal vescovo locale della diocesi di Odessa, a cui hanno partecipato decine di fedeli, ci troviamo coi sacerdoti. Tra loro siedono non solo i cattolici ma anche i greco cattolici e un prete ortodosso della chiesa ucraina. Il clima e piacevole e interessanti sono gli argomenti che scambiamo. È presente anche il sindaco della città anche lui cattolico.

Nella piazza principale della città si affacciano due grandi palazzi, uno del sindaco e l’atro opposto del governatore della regione. Il palazzo della regione si presenta con un gigantesco buco causato dallo scoppio di un razzo che lo ha centrato.

Erano le 8.30 di mattina quando avvenne lo scoppio e in quel giorno era convocata una riunione di ufficio. Il governatore fece ritardo e si scusò mandando un messaggio e nel frattempo avvenne l’attacco che causò la morte di oltre 40 persone. Quel ritardo gli salvò la vita. Nel pomeriggio passeggiamo in centro recandoci in quel luogo. Il clima, a differenza di Kherson, è diverso. Sono molte le persone che passeggiano, giovani e bambini corrono con le biciclette in una domenica con le temperature già primaverili. Se non fosse per gli allarmi che di tanto in tanto risuonano, sembrerebbe quasi un ritorno alla normalità.

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Fastow

Il giorno successivo sulla strada per Kiev ci fermiamo a Fastow, una cittadina a circa 100 km di distanza. Qui vive una comunità di Domenicani. Sono molto attivi. Lavorano con un gran numero di laici, giovani soprattutto. Ci accoglie padre Marco, ucraino. Dopo aver mangiato nel locale gestito dai giovani della comunità, visitiamo l’asilo e la scuola elementare. Quasi cento bambini provenienti dalle zone del fronte dove si combatte a Est, hanno trovato qui alloggio e l’accesso alla scuola. Le classi sono ben attrezzate e le insegnati garantiscono un ottimo lavoro. Nel seminterrato sono allestiti tre piccoli locali rifugio. La procedura impone che ad ogni suono di allarme i bambini devo essere qui condotti fino al termine del cessato allarme. Questo purtroppo spesso accade, come nella giornata odierna e alcuni di essi manifestano disagio e sofferenza ogni qualvolta devono qui scendere.

Nel giardino è allestita una tenda da campo sotto la quale ognuno, gratuitamente e in ogni momento, può qui venire e ricevere qualcosa di caldo, scaldato dalla cucina di campo posta all’esterno. Sul fondo della tenda si trova un gran presepio che dà il nome alla tenda.

Questa comunità e impegnata non solo qui, ma anche organizza viaggi al fronte per raggiungere i villaggi e portare aiuti alle famiglie che vivono ancora là. La sfida, ci racconta padre Marco, e quella di poter continuare a ricevere aiuti da distribuire: mensilmente sono circa 200 tonnellate. Anche noi ci impegniamo a organizzare un nuovo invio che possa arrivare qui.

Quasi alla fine di questo viaggio ci raggiunge la notizia dell’arrivo del tir che abbiamo spedito alla città di Zaporoze costantemente sotto attacco: riceviamo un video di ringraziamento del Vescovo locale. Ringrazia anche la comunità dei frati cappuccini a Dnieper ai quali abbiamo mandato un altro trasporto con aiuti e sistemi fotovoltaici che dovrebbero lenire gli effetti della mancanza di energia elettrica.

*Luca Bovio, missionario della Consolata, lavora in Polonia

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