Francesco lo ribadisce nella Nota di accompagnamento al testo votato il 26 ottobre dall’Assemblea del Sinodo sulla sinodalità e da lui approvato. Sottolinea che “non è strettamente normativo” e che “la sua applicazione avrà bisogno di diverse mediazioni”. Ma impegna “fin da ora le Chiese a fare scelte coerenti con quanto in esso è indicato”. Perché il cammino del Sinodo oggi “prosegue nelle Chiese locali”
Il Documento finale della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, approvato da Papa Francesco il 26 ottobre scorso, “partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro e come tale chiedo che venga accolto”. Il Papa, nella Nota di accompagnamento del Documento, firmata ieri, solennità di Cristo Re dell’Universo, e diffusa oggi, ribadisce, come detto in occasione dell’approvazione, che esso “non è strettamente normativo” e che “la sua applicazione avrà bisogno di diverse mediazioni”. Ma “questo non significa che non impegni fin da ora le Chiese a fare scelte coerenti con quanto in esso è indicato”. Infatti il documento stesso “rappresenta una forma di esercizio dell’insegnamento autentico del Vescovo di Roma che ha dei tratti di novità”, ma corrisponde a quanto affermato da Francesco nell’ottobre 2015 sulla sinodalità, che è “la cornice interpretativa adeguata per comprendere il ministero gerarchico”.
Leggi qui il testo integrale della Nota di Papa Francesco
Papa Francesco in chiusura del Sinodo dei Vescovi - XVII Congregazione Generale. Foto: Vatican Media
Il Pontefice conferma che il cammino del Sinodo da lui avviato nell’ottobre 2021, nel quale la Chiesa, in ascolto dello Spirito Santo, è stata chiamata “a leggere la propria esperienza e a identificare i passi da compiere per vivere la comunione, realizzare la partecipazione e promuovere la missione che Gesù Cristo le ha affidato”, prosegue nelle Chiese locali, facendo tesoro proprio del Documento finale. Un testo che è stato “votato e approvato dall’Assemblea in tutte le sue parti”, e che anche Papa Francesco ha approvato e, firmandolo, ne ha disposto la pubblicazione, “unendomi al ‘noi’ dell’Assemblea”.
Ricordando quanto dichiarato il 26 ottobre, il Papa ribadisce che “c’è bisogno di tempo per giungere a scelte che coinvolgono la Chiesa tutta”, e che “questo vale in particolare per i temi affidati ai dieci gruppi di studio, ai quali altri potranno aggiungersi, in vista delle necessarie decisioni”. E sottolinea nuovamente, citando quanto scritto nell’Esortazione postsinodale Amoris laetitia, che “non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero”. Come pure che “in ogni Paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali”.
Francesco aggiunge che il Documento finale contiene indicazioni che “già ora possono essere recepite nelle Chiese locali e nei raggruppamenti di Chiese, tenendo conto dei diversi contesti, di quello che già si è fatto e di quello che resta da fare per apprendere e sviluppare sempre meglio lo stile proprio della Chiesa sinodale missionaria”. D’ora in poi, scrive il Pontefice, “nella relazione prevista per la visita ad limina ciascun vescovo avrà cura di riferire quali scelte sono state fatte nella Chiesa locale a lui affidata in rapporto a ciò che è indicato nel Documento finale, quali difficoltà si sono incontrate, quali sono stati i frutti”.
Il compito di accompagnare questa “fase attuativa” del cammino sinodale, conclude Papa Francesco, è affidato alla Segreteria Generale del Sinodo insieme ai Dicasteri della Curia Romana. E ribadisce ancora, come detto il 26 ottobre, che il cammino sinodale della Chiesa Cattolica, “ha bisogno che le parole condivise siano accompagnate dai fatti”. Lo Spirito Santo, dono del Risorto, è la sua preghiera finale “sostenga e orienti la Chiesa tutta in questo cammino”.
* Alessandro Di Bussolo, Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
“Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio spirito (...), sono turbato e senza parole”. “Questa preghiera del Salmo 76 è il mio sentimento oggi per quello che sta accadendo in Mozambico dopo le elezioni del 9 ottobre”, ha dichiarato mons. Inácio Saure, IMC, arcivescovo di Nampula, durante la messa celebrata presso la Casa Generalizia IMC a Roma, questo mercoledì 30 ottobre.
Secondo mons. Inácio, presidente della Conferenza Episcopale Mozambicana (CEM), “tutti dicono che il candidato del partito di opposizione Podemos, Venâncio Mondlane, ha vinto le elezioni”. Tuttavia, la Commissione Elettorale nazionale (CNE), presieduta dal vescovo anglicano Carlos Matsinhe, ha annunciato la vittoria di Daniel Chapo, sostenuto dalla Frelimo, il partito al potere dall'indipendenza nel 1975, che, secondo l'organismo, ha ottenuto il 70% dei voti. Al secondo posto è il candidato di Podemos con il 20%, un risultato contestato dal partito che rivendica la vittoria di Venâncio Mondlane con il 53% dei voti. Anche il Movimento Democratico del Mozambico (MDM) e la Resistenza Nazionale Mozambicana (Renamo), ora terzo partito, hanno ritenuto che questi risultati fossero falsificati e li hanno contestati.
I quattro principali candidati alle elezioni mozambicane del 9 ottobre. Foto: CNE
La situazione di stallo ha scatenato un'ondata di manifestazione nelle principali città, con una violenta repressione che ha portato alla morte di almeno 11 persone negli ultimi giorni. Più di 450 persone sono state arrestate, la maggior parte a Maputo, tra cui, secondo il Centro per la democrazia e i diritti umani, minori e persone vulnerabili, alcune senza alcun legame con le manifestazioni.
A Roma, il vescovo Inácio Saure ha partecipato alla Seconda Assemblea del Sinodo sulla sinodalità e alla canonizzazione di San Giuseppe Allamano. In Mozambico “la situazione è grave - ha detto il vescovo - tra il 1° e il 7 novembre Vanâncio Mondlane ha proclamato uno sciopero generale nel paese e temiamo che questo porti ad altre violenze e morti. I politici dicono di voler fare del bene, ma quale bene?”, domandò il vescovo.
“Il nostro Santo Fondatore dice che ‘il bene deve essere fatto bene’. Quindi, chi vuole fare il bene deve farlo bene. Sembra che il partito al potere abbia perso il controllo della situazione. Per questo chiedo di pregare per la pace in Mozambico”. Per mons. Inácio, “l'esperienza del Sinodo è stata una grande grazia, non solo come momento di ascolto, ma anche di formazione alla pratica della sinodalità. Che il messaggio del Sinodo ci aiuti a camminare come Chiesa sinodale”, augura il vescovo prima di rientrare nel suo Paese.
Messa nella Casa Generalizia presieduta da mons. Inácio Saure
Preoccupata per la situazione di violenza, il 22 ottobre la Conferenza episcopale del Mozambico (CEM) ha rilasciato una dichiarazione, firmata da mons. Inácio Saure, in cui afferma: “Condanniamo il barbaro assassinio di due personalità politiche, che ricorda chiaramente altri omicidi di personalità politiche o della società civile, anche legate ai partiti di opposizione, avvenuti all'indomani di precedenti elezioni, con analoghe modalità”. Elvino Dias, avvocato di Venâncio Mondlane, e Paulo Guambe, due oppositori politici, sono stati uccisi la notte del 18 ottobre in un agguato nel centro della capitale, Maputo.
Nel contesto delle elezioni generali, i vescovi affermano che “la Chiesa cattolica, come istituzione, non sostiene candidati e non ha partiti. Ma questo non significa che rinunci al suo impegno politico e sociale, un percorso concreto verso la costruzione di una società più democratica, inclusiva, giusta e fraterna, in cui tutti possano vivere in pace, con dignità e un futuro. Per questo, come voce della Chiesa cattolica, noi Vescovi non possiamo non denunciare questa grave situazione che il paese sta vivendo e la violenza che genera, gettando tutti nel caos”.
Un altro punto evidenziato nel comunicato è l'affluenza alle urne, dove “più della metà dei Mozambicani registrati non si è presentata per esercitare il proprio diritto di voto”. Ciò indica “che la loro volontà, espressa alle urne, non viene rispettata, rendendo inutile l'esercizio di questo importante diritto civico”.
Mons. Inacio Saure durante conferenza stampa il 09 ottobre 2024, giorno delle elezioni in Mozambico, nella Sala Stampa della Santa Sede a Roma
La nota della CEM denuncia “frodi grossolane” come “il riempimento delle urne, la falsificazione di avvisi e tanti altri modi per coprire la verità”, che portano i funzionari eletti a perdere la loro legittimità. “Queste irregolarità praticate impunemente - denunciano i vescovi - hanno rafforzato la mancanza di fiducia negli organi elettorali, nei leader che abdicano la loro dignità e disprezzano la verità e il senso di servizio che dovrebbe guidare coloro ai quali il popolo affida il proprio voto”. “Certificare una menzogna è una frode”.
Il comunicato chiede “il rispetto del diritto a manifestare pacificamente, ma avvertiamo anche i giovani, (la più grande ricchezza nazionale), di non lasciarsi strumentalizzare e trascinare in azioni di vandalismo e destabilizzazione”, situazione che i vescovi avevano già rilevato nella nota pastorale del 16 aprile 2021.
Il messaggio è un forte appello a fermare “la violenza, i crimini politici e la mancanza di rispetto per la democrazia. Abbiano il coraggio di dialogare e di ristabilire la verità dei fatti”.
In conclusione, i vescovi chiedono a coloro che sono coinvolti in questo processo elettorale e nel conflitto che ha generato di “fare del riconoscimento delle colpe, del perdono e del coraggio della verità il cammino che permetterà il ritorno alla situazione normale”.
“Il Mozambico non deve tornare alla violenza! Il nostro Paese merita verità, pace, tranquillità e tolleranza!”
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Comunicazione Generale a Roma.
Il Documento finale della seconda sessione del Sinodo, approvato integralmente dall'assemblea, racconta e rilancia un’esperienza di Chiesa tra “comunione, partecipazione, missione”, con la proposta concreta di una visione nuova che capovolge prassi consolidate
Il Documento finale votato oggi, approvato in tutti i suoi 155 paragrafi, viene pubblicato e non diventerà oggetto di un’esortazione del Papa: Francesco ha infatti deciso che sia subito diffuso perché possa ispirare la vita della Chiesa. “Il processo sinodale non si conclude con il termine dell’assemblea ma comprende la fase attuativa (9). Coinvolgendo tutti nel “quotidiano cammino con una metodologia sinodale di consultazione e discernimento, individuando modalità concrete e percorsi formativi per realizzare una tangibile conversione sinodale nelle varie realtà ecclesiali” (9).
Nel Documento, in particolare, ai vescovi si chiede molto riguardo l’impegno sulla trasparenza e sul rendere conto mentre – come affermato anche dal cardinale Férnandez, prefetto del Dicastero per la dottrina della fede – ci sono lavori incorso per dare più spazio e più potere alle donne.
Due parole-chiave che emergono dal testo – attraversato dalla prospettiva e dalla proposta della conversione - sono “relazioni” – che è un modo di essere Chiesa - e “legami”, nel segno dello “scambio di doni” tra le Chiese vissuto dinamicamente e, quindi, per convertire i processi. Proprio le Chiese locali sono al centro nell’orizzonte missionario che è il fondamento stesso dell’esperienza di pluralità della sinodalità, con tutte le strutture a servizio, appunto, della missione con il laicato sempre più al centro e protagonista. E, in questa prospettiva, la concretezza dell’essere radicati in “luogo” emerge con forza dal Documento finale. Particolarmente significativa anche la proposta presentata nel Documento per far sì che i Dicasteri della Santa Sede possano avviare una consultazione “prima di pubblicare documenti normativi importanti” (135).
Papa Francesco in chiusura del Sinodo dei Vescovi - XVII Congregazione Generale
Il Documento finale è formato da cinque parti (11). Alla prima - intitolata Il cuore della sinodalità – segue la seconda parte - Insieme, sulla barca di Pietro - “dedicata alla conversione delle relazioni che edificano la comunità cristiana e danno forma alla missione nell’intreccio di vocazioni, carismi e ministeri”. La terza parte – Sulla tua Parola – “identifica tre pratiche tra loro intimamente connesse: discernimento ecclesiale, processi decisionali, cultura della trasparenza, del rendiconto e della valutazione”. La quarta parte - Una pesca abbondante – “delinea il modo in cui è possibile coltivare in forme nuove lo scambio dei doni e l’intreccio dei legami che ci uniscono nella Chiesa, in un tempo in cui l’esperienza del radicamento in un luogo sta cambiano profondamente”. Infine, la quinta parte – Anch’io mando voi – “permette di guardare al primo passo da compiere: curare la formazione di tutti alla sinodalità missionaria”. In particolare, si fa notare, lo sviluppo del Documento è guidato dai racconti evangelici della Risurrezione (12).
L’Introduzione del Documento (1-12) mette subito in chiaro l’essenza del Sinodo come “esperienza rinnovata di quell’incontro con il Risorto che i discepoli hanno vissuto nel Cenacolo la sera di Pasqua” (1). “Contemplando il Risorto” – afferma il Documento – “abbiamo scorto anche i segni delle Sue ferite (…) che continuano a sanguinare nel corpo di tanti fratelli e sorelle, anche a causa delle nostre colpe. Lo sguardo sul Signore non allontana dai drammi della storia, ma apre gli occhi per riconoscere la sofferenza che ci circonda e ci penetra: i volti dei bambini terrorizzati dalla guerra, il pianto delle madri, i sogni infranti di tanti giovani, i profughi che affrontano viaggi terribili, le vittime dei cambiamenti climatici e delle ingiustizie sociali” (2). Il Sinodo, ricordando le “troppe guerre” in corso, si è unito ai “ripetuti appelli di papa Francesco per la pace, condannando la logica della violenza, dell’odio, della vendetta” (2). Inoltre, il cammino sinodale è marcatamente ecumenico – “orienta verso una piena e visibile unità dei cristiani” (4) - e “costituisce un vero atto di ulteriore recezione” del Concilio Vaticano II, prolungandone “l’ispirazione” e rilanciandone “per il mondo di oggi la forza profetica” (5). Non tutto è stato facile, si riconosce nel Documento: “Non ci nascondiamo di aver sperimentato in noi fatiche, resistenze al cambiamento e la tentazione di far prevalere le nostre idee sull’ascolto della Parola di Dio e sulla pratica del discernimento” (6).
La prima parte del Documento (13-48) si apre con le riflessioni condivise sulla “Chiesa Popolo di Dio, sacramento di unità” (15-20) e sulle “radici sacramentali del Popolo di Dio” (21-27). È un fatto che, proprio “grazie all’esperienza degli ultimi anni”, il significato dei termini “sinodalità” e “sinodale” sia “stato maggiormente compreso e più ancora vissuto” (28). E “sempre più essi sono stati associati al desiderio di una Chiesa più vicina alle persone e più relazionale, che sia casa e famiglia di Dio” (28). “In termini semplici e sintetici, si può dire che la sinodalità è un cammino di rinnovamento spirituale e di riforma strutturale per rendere la Chiesa più partecipativa e missionaria, per renderla cioè più capace di camminare con ogni uomo e ogni donna irradiando la luce di Cristo” (28). Nella consapevolezza che l’unità della Chiesa non è uniformità, “la valorizzazione dei contesti, delle culture e delle diversità, e delle relazioni tra di loro, è una chiave per crescere come Chiesa sinodale missionaria” (40). Con il rilancio delle relazioni anche con le altre tradizioni religiose in particolare “per costruire un mondo migliore” e in pace (41).
Un momento della meditazione
“La richiesta di una Chiesa più capace di nutrire le relazioni: con il Signore, tra uomini e donne, nelle famiglie, nelle comunità, tra tutti i cristiani, tra gruppi sociali, tra le religioni, con la creazione” (50) è la constatazione che apre la seconda parte del Documento (49-77). E “non è mancato anche chi ha condiviso la sofferenza di sentirsi escluso o giudicato” (50). “Per essere una Chiesa sinodale è dunque necessaria una vera conversione relazionale. Dobbiamo di nuovo imparare dal Vangelo che la cura delle relazioni e dei legami non è una strategia o lo strumento per una maggiore efficacia organizzativa, ma è il modo in cui Dio Padre si è rivelato in Gesù e nello Spirito” (50). Proprio “le ricorrenti espressioni di dolore e sofferenza da parte di donne di ogni regione e continente, sia laiche sia consacrate, durante il processo sinodale, rivelano quanto spesso non riusciamo a farlo” (52). In particolare, “la chiamata al rinnovamento delle relazioni nel Signore Gesù risuona nella pluralità dei contesti” legati “al pluralismo delle culture” con, a volte, anche “i segni di logiche relazionali distorte e talvolta opposte a quelle del Vangelo” (53). L’affondo è diretto: “Trovano radice in questa dinamica i mali che affliggono il nostro mondo” (54) ma “la chiusura più radicale e drammatica è quella nei confronti della stessa vita umana, che conduce allo scarto dei bambini, fin dal grembo materno, e degli anziani” (54).
“Carismi, vocazione e ministeri per la missione” (57-67) sono nel cuore del Documento che punta sulla più ampia partecipazione di laiche e laici. Il ministero ordinato è “a servizio dell’armonia” (68) e in particolare “il ministero del vescovo” è “comporre in unità i doni dello Spirito (69-71). Tra le diverse questioni si è rilevato che “la costituiva relazione del Vescovo con la Chiesa locale non appare oggi con sufficiente chiarezza nel caso dei Vescovi titolari, ad esempio i Rappresentanti pontifici e coloro che prestano servizio nella Curia Romana”. Con il vescovo vi ci sono “presbiteri e diaconi” (72-73), per una “collaborazione fra i ministri ordinati all’interno della Chiesa sinodale” (74). Significativa, poi, l’esperienza della “spiritualità sinodale” (43-48) con la certezza che “se manca la profondità spirituale personale e comunitaria, la sinodalità si riduce a espediente organizzativo” (44). Per questo, si rileva, “praticato con umiltà, lo stile sinodale può rendere la Chiesa una voce profetica nel mondo di oggi” (47).
Nella terza parte del Documento (79-108) si fa subito presente che “nella preghiera e nel dialogo fraterno, abbiamo riconosciuto che il discernimento ecclesiale, la cura dei processi decisionali e l’impegno a rendere conto del proprio operato e a valutare l’esito delle decisioni assunte sono pratiche con le quali rispondiamo alla Parola che ci indica le vie della missione” (79). In particolare “queste tre pratiche sono strettamente intrecciate. I processi decisionali hanno bisogno del discernimento ecclesiale, che richiede l’ascolto in un clima di fiducia, che trasparenza e rendiconto sostengono. La fiducia deve essere reciproca: coloro che prendono le decisioni hanno bisogno di potersi fidare e ascoltare il Popolo di Dio, che a sua volta ha bisogno di potersi fidare di chi esercita l’autorità” (80). “Il discernimento ecclesiale per la missione” (81-86), in realtà, “non è una tecnica organizzativa, ma una pratica spirituale da vivere nella fede” e “non è mai l’affermazione di un punto di vista personale o di gruppo, né si risolve nella semplice somma di pareri individuali” (82). “L’articolazione dei processioni decisionali” (87-94), “trasparenza, rendiconto, valutazione” (95-102), “sinodalità e organismi di partecipazione” (103-108) sono punti centrali delle proposte contenute nel Documento, scaturite dall’esperienza del Sinodo.
Partecipanti al Sinodo durante la chiusura dei lavori
“In un tempo in cui cambia l’esperienza dei luoghi in cui la Chiesa è radicata e pellegrina, occorre coltivare in forme nuove lo scambio dei doni e l’intreccio dei legami che ci uniscono, sostenuti dal ministero dei Vescovi in comunione tra loro e con il Vescovo di Roma”: è l’essenza della quarta parte del Documento (109-139). L’espressione “radicati e pellegrini” (110-119) ricorda che “la Chiesa non può essere compresa senza il radicamento in un territorio concreto, in uno spazio e in un tempo dove si forma un’esperienza condivisa di incontro con Dio che salva” (110). Anche con un’attenzione ai fenomeni della “mobilità umana” (112) e della cultura digitale” (113). In questa prospettiva, “camminare insieme nei diversi luoghi come discepoli di Gesù nella diversità dei carismi e dei ministeri, così come nello scambio di doni tra le Chiese, è segno efficace della presenza dell’amore e della misericordia di Dio in Cristo” (120). “L’orizzonte della comunione nello scambio dei doni è il criterio ispiratore delle relazioni tra le Chiese” (124). Da qui i “legami per l’unità: Conferenze episcopali e Assemblee ecclesiali” (124-129). Particolarmente significativa la riflessione sinodale sul “servizio del vescovo di Roma” (130-139). Proprio nello stile della collaborazione e dell’ascolto, “prima di pubblicare documenti normativi importanti, i Dicasteri sono esortati ad avviare una consultazione delle Conferenze episcopali e degli organismi corrispondenti delle Chiese Orientali Cattoliche” (135).
“Perché il santo Popolo di Dio possa testimoniare a tutti la gioia del Vangelo, crescendo nella pratica della sinodalità, ha bisogno di un’adeguata formazione: anzitutto alla libertà di figli e figlie di Dio nella sequela di Gesù Cristo, contemplato nella preghiera e riconosciuto nei poveri” afferma il Documento nella sua quinta parte (140-151). “Una delle richieste emerse con maggiore forza e da ogni parte lungo il processo sinodale è che la formazione sia integrale, continua e condivisa” (143). Anche in questo campo torna l’urgenza dello “scambio dei doni tra vocazioni diverse (comunione), nell’ottica di un servizio da svolgere (missione) e in uno stile di coinvolgimento e di educazione alla corresponsabilità differenziata (partecipazione)” (147). E “un altro ambito di grande rilievo è la promozione in tutti gli ambienti ecclesiali di una cultura della tutela (safeguarding), per rendere le comunità luoghi sempre più sicuri per i minori e le persone vulnerabili” (150). Infine, “anche i temi della dottrina sociale della Chiesa, dell’impegno per la pace e la giustizia, della cura della casa comune e del dialogo interculturale e interreligioso devono conoscere maggiore diffusione nel Popolo di Dio” (151).
“Vivendo il processo sinodale – è la conclusione del Documento (154) - abbiamo preso nuova coscienza che la salvezza da ricevere e da annunciare passa attraverso le relazioni. La si vive e la si testimonia insieme. La storia ci appare segnata tragicamente dalla guerra, dalla rivalità per il potere, da mille ingiustizie e sopraffazioni. Sappiamo però che lo Spirito ha posto nel cuore di ogni essere umano un desiderio profondo e silenzioso di rapporti autentici e di legami veri. La stessa creazione parla di unità e di condivisione, di varietà e intreccio tra diverse forme di vita”. Il testo si conclude con la preghiera alla Vergine Maria per l’affidamento “dei risultati di questo Sinodo: “Ci insegni ad essere un Popolo di discepoli missionari che camminano insieme: una Chiesa sinodale” (155).
* Giampaolo Mattei - Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
La seconda sessione dell'Assemblea sinodale sulla sinodalità, in corso dal 2 al 27 ottobre 2024 nell'Aula Paolo VI in Vaticano, continua a confrontarsi su temi importanti per una Chiesa dal volto sinodale che riscopre gli principi di “comunione, partecipazione e missione”.
Quasi ogni giorno si tengono conferenze stampa nella Sala Stampa della Santa Sede, dove i giornalisti di tutto il mondo vengono informati sui lavori. Mercoledì 9 ottobre, gli ospiti invitati a discutere i temi legati al cammino sinodale sono stati l'arcivescovo di Nampula e presidente della Conferenza Episcopale del Mozambico, mons. Inácio Saúre, missionario della Consolata; l'arcivescovo di Puerto Montt del Cile, mons. Luis Fernando Ramos e il diacono permanente della diocesi di Gand (Belgio), Geert De Cubber.
Riportiamo gli interventi di Mons. Inacio Saúre in risposta alle domande dei giornalisti.
Cristiane Murray: Questo Sinodo sulla sinodalità porta una grande novità per la vostra Congregazione (i Missionari della Consolata) con il nuovo santo?
Il Sinodo porta anche una grande novità per la famiglia della Consolata, perché il 20 ottobre si celebrerà la canonizzazione di Giuseppe Alamano, il nostro Fondatore che ho imparato a conoscere come seminarista dagli anni ottanta. Nel contesto del Sinodo, il tema stesso di “come essere una Chiesa sinodale missionaria” mi sta molto a cuore come missionario della Consolata, perché il Beato Giuseppe Allamano ha creato due Istituti per la missione ad gentes.
Conferenza stampa mercoledi 9 ottobre 2024 nella Sala Stampa della Santa Sede
Tra i temi discussi dal Sinodo, vorrei sottolineare l'importanza dell'iniziazione cristiana per realizzare un incontro personale con Cristo in un contesto in cui molti giovani lasciano la Chiesa dopo il sacramento della Cresima (confermazione). Ovviamente, questo ci fa capire che la iniziazione cristiana manca di profondità.
Un altro tema affrontato è la condivisione dei doni tra le Chiese. Uno dei temi dell'Instrumentum laboris (del Sinodo) parlava della condivisione dei doni materiali nel contesto di chiese più ricche e altre che sono effettivamente indigenti. Come possiamo raggiungere una condivisione dei doni materiali in una Chiesa sinodale senza trascurare altri aspetti come la condivisione spirituale, teologica e pastorale?
Importante è anche la questione della conoscenza reciproca tra la Chiesa cattolica latina e la Chiesa cattolica orientale, che spesso noi cattolici conosciamo poco e forse gli orientali conoscono poco noi. Nel contesto di una Chiesa sinodale, è stato sottolineato che questo è molto importante per il nostro arricchimento reciproco e la Chiesa orientale ha molto da offrirci in questa condivisione di doni.
Jaime C. Patias: Parlando dello scambio di doni, come il Sinodo potrebbe aiutare a trovare soluzioni in situazioni di conflitti, violenze e guerre in cui intere popolazioni soffrono, come accade oggi a Cabo Delgado (Mozambico) e in altre regioni del mondo?
Penso che la prima cosa che il Sinodo ha l'opportunità di indicare è la conoscenza della realtà. Questa guerra è iniziata nell'ottobre 2017 con pesanti attacchi a villaggi importanti. Ora sembra essere in una fase di stallo perché non abbiamo forti attacchi ai villaggi, ma i piccoli attacchi nei villaggi ci sono ancora e difficilmente vengono riportati. Purtroppo, la sofferenza che questa guerra ha creato è molto presente. La guerra ha causato circa 5.000 morti e 1 milione di sfollati all'interno della Provincia di Cabo Delgado e nelle province vicine come Niassa e Nampula, dove sono arcivescovo.
Mons. Inacio Saure durante conferenza stampa mercoledì 09 ottobre 2024 nella Sala Stampa della Santa Sede
All'inizio ci sono stati molti interventi con la partecipazione di organizzazioni umanitarie per aiutare, ma oggi queste popolazioni sono state praticamente abbandonate alla loro sorte, perché sono viste come persone che sono arrivate e si sono stabilite nelle zone adiacenti, e non sono più viste come sfollati in una situazione di emergenza. Quindi, penso che il Sinodo, conoscendo la realtà, potrebbe dire cosa si potrebbe fare concretamente. La mancanza di informazioni non aiuta le altre Chiese sorelle a raggiungere queste popolazioni sofferenti e bisognose. Finora è stato fatto molto, ma oggi la gente ha bisogno di più.
Anna Tulli (Lanza): Considerando la sua esperienza di missionaria della Consolata, vede un cambio di paradigma nella missione, quando gli europei evangelizzavano il mondo e presto vedremo gli africani evangelizzare un'Europa sempre meno cristiana?
Penso che questa possibilità sia aperta, ma allo stesso tempo la Chiesa in Africa, in particolare in Mozambico, deve affrontare anche il problema dei mezzi finanziari per formare i missionari. Quindi, in questa condivisione di doni, se l'Africa può avere questo sostegno, penso che ci sarà questa possibilità. Recentemente, durante la visita ad limina dei vescovi del Mozambico, abbiamo presentato i progetti per la formazione nei seminari e le difficoltà economiche per realizzarli. Nella mia arcidiocesi, oltre al seminario diocesano propedeutico, abbiamo un seminario interdiocesano di filosofia che non siamo riusciti a completare per mancanza di risorse. Il Santo Padre ci ha promesso un aiuto e questo ci ha messo un po' a nostro agio. Quindi credo in questo cambiamento di paradigma nella missione.
La praticipazione del Papa Francesco nei lavori del Sinodo
Danúbia (Canção Nova): Lei ha parlato di iniziazione cristiana, ha qualche insegnamento del Beato Allamano che possa contribuire a questo processo?
Ho lavorato nella Repubblica Democratica del Congo e ho conosciuto una bella esperienza di iniziazione cristiana da parte del movimento giovanile "Bilenge ya mwinda" (Giovani della luce) che cerca di incorporare elementi della cultura nella vita cristiana, una bella iniziativa. In Mozambico non abbiamo molte iniziative di questo tipo. Per sei anni sono stato responsabile della pastorale giovanile e abbiamo lavorato per creare una pastorale giovanile con i giovani, dai giovani e per i giovani. Penso che questo possa aiutare.
Per quanto riguarda il Beato Giuseppe Allamano, che sarà canonizzato a giorni, lui aveva un motto che mi ha colpito molto: “prima santi e poi missionari”. Direi anche: prima santi e poi cristiani. Ero maestro dei novizi e quando citavo questo motto del Fondatore, i giovani mi prendevano in giro dicendo: “Allora padre, tu sei già santo?”. Io rispondevo: devo avere la propensione alla santità. Questa felice coincidenza della canonizzazione di Giuseppe Allamano nel bel mezzo del Sinodo sulla sinodalità può essere anche un contributo alla Chiesa missionaria.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Segretariato per la Comunicazione.
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti (Libano), durante il briefing di oggi per i giornalisti, nella Sala stampa della Santa Sede. Il suo invito, espresso anche nell’aula del Sinodo: “Liberiamoci tutti della paura dell’altro”
Vengo da un Paese a fuoco e sangue da cinquant’anni ormai. Nel 1975 è cominciata la guerra in Libano sotto il pretesto di una guerra religiosa e confessionale, soprattutto tra musulmani e cristiani. Cinquant’anni dopo, non sono riusciti a far capire che non è per tutto una guerra di confessione o di religione. È una guerra che ci è stata imposta, al Libano, un “Paese messaggio”, come diceva sempre Papa san Giovanni Paolo ii; un Paese messaggio, di convivialità, di libertà, di democrazia, di vita nel rispetto delle diversità. Anche il Santo Padre, Papa Francesco, porta questo.
Il Libano è un messaggio di pace e dovrebbe restare un messaggio di pace. È l’unico Paese nel Medio Oriente dove possono vivere insieme cristiani, musulmani, ebrei, nel rispetto delle loro diversità, in una nazione che è una “nazione modello”, come diceva Papa Benedetto xvi. Venire qui, in questa situazione, per parlare del Sinodo, sarebbe complesso; anche per parlare di perdono, che Papa Francesco ha preso come segno per questa Seconda sessione, sarebbe ancora più complesso. Sì, vengo qui per parlare di perdono e riconciliazione, mentre il mio Paese, il mio popolo, soffre, subisce le conseguenze delle guerre, dei conflitti, della violenza, della vendetta, dell’odio.
Noi libanesi vogliamo sempre condannare l’odio, la vendetta, la violenza. Vogliamo costruire la pace. Siamo capaci di farlo. Se Papa Francesco ha scelto il perdono, per noi e per me, è un grande messaggio da dare. Parlare di perdono quando i bombardamenti colpiscono tutto il Libano, sarebbe impossibile? No. In tutto questo, la popolazione del Libano rifiuta, come sempre, il linguaggio dell’odio e della vendetta. Il perdono l’ho vissuto personalmente. Quando avevo cinque anni è venuto qualcuno a casa nostra e ha assassinato selvaggiamente i miei genitori. Ho una zia monaca nell’ordine libanese maronita. È venuta a casa nostra a prendere noi, quattro bambini — il più grande aveva sei anni, il più piccolo due —; ci ha preso nel suo monastero e in chiesa ci ha invitato a metterci in ginocchio e a pregare; pregare Dio di misericordia, di amore. Ci disse: “Non preghiamo tanto per i vostri genitori, sono martiri presso Dio; preghiamo piuttosto per quello che li ha assassinati e cercate di perdonare nel corso della vostra vita. Così sarete i figli del vostro Padre che è nei cieli”.
“Se amate quelli che vi amano — dice Gesù — che merito avete? Amate i vostri nemici. Pregate per quelli che vi perseguitano. Sarete allora discepoli di Cristo e figli del Padre vostro”. Abbiamo portato questo nel nostro cuore, noi, quattro bambini. E il Signore non ci ha mai abbandonato; ci ha preso, ci ha accompagnato, per poter vivere questo perdono.
Dopo miei studi, qui a Roma, da seminarista, sono tornato per l’ordinazione. A 24 anni ho scelto l’anniversario dell’assassinio dei miei genitori che era la vigilia della festa dell’Esaltazione della Santa Croce — una grande festa per noi Chiese orientali — solo per dire che “il chicco di grano se cade in terra e non muore non dà frutto” e siamo noi — ho detto — il frutto di questo chicco di grano voluto da Dio. Sì, è la volontà di Dio che i nostri genitori hanno accettato e che noi abbiamo vissuto. E io ho detto: rinnovo la mia promessa di perdono, perdonare tutti quelli che ci fanno del male.
Briefing per i giornalisti nella Sala stampa della Santa Sede, sabato 5 ottobre 2024
Poi qualche mese dopo parlavo in un ritiro ai giovani nostri lì, in Libano, che eravamo ai primi anni di guerra nel 1977-’78. Venivo a parlare del sacramento della riconciliazione e del perdono. Ho sentito che non mi capivano: erano tutti armati per fare la guerra contro i nostri nemici. Dopo 4 ore del nostro discorso ho sentito che il messaggio non passava. Allora ho detto: vi do la mia testimonianza personale; e ho raccontato ai miei giovani libanesi quello che ho vissuto e che ho rinnovato con il perdono e la riconciliazione. Dopo un tempo di silenzio un giovane si è messo in piedi e ha osato chiedermi: “Padre suppongo che hai perdonato, però immagina che adesso tu prete sei nel confessionale e questo tipo ti viene, si mette davanti a te, si confessa e ti chiede perdono, cosa farai?” — la risposta non era facile. Poi ho detto: grazie della domanda, perché adesso ho capito cosa vuol dire perdonare. Perché è vero che io ho perdonato, ma adesso io vedo che ho perdonato da lontano, non l’avevo mai visto questo tipo. Oggi si viene a mettere lì, davanti a me... Sono anche uomo, ho i miei sentimenti, però finalmente sì, gli do l’assoluzione e il perdono; ma dico a voi giovani libanesi che ho capito perché il perdono è tanto difficile, ma non è impossibile. Vi capisco, ma è possibile viverlo se vogliamo essere discepoli di Cristo, sulla terra di Cristo. Sulla Croce Gesù ha perdonato, noi siamo capaci di perdonare, e vi dico di più: tutti questi che ci fanno la guerra, che consideriamo nemici — israeliani, palestinesi, siriani, di tutte le nazionalità — questi non sono nemici, perché? Perché quelli che fomentano la guerra non hanno identità, non hanno confessione, non hanno religione; ma gli altri, i popoli, vogliono la pace, vogliono vivere in pace sulla terra della pace di Gesù Cristo, re della pace.
Perciò, anche oggi, nonostante tutto quello che succede — 50 anni di guerra cieca, selvaggia —, nonostante tutto, noi come popoli di tutte le culture di tutte le confessioni, vogliamo la pace, siamo capaci di costruire la pace. Lasciamo da parte i nostri politici, i nostri e quelli del mondo, le grandi potenze: loro fanno i loro interessi al conto nostro. Però noi come popoli non vogliamo tutto questo: lo rifiutiamo. Verrà il giorno che avremo l’occasione di far passare il nostro messaggio, dire la nostra parola al mondo intero: Basta! Basta con questa vendetta, con questo odio, con queste guerre, basta! Lasciateci costruire la pace almeno per i nostri bambini, per le generazioni future che hanno diritto di vivere in pace. Ecco questo che ho capito dal messaggio di Papa Francesco quando ha chiamato a fare, a vivere insieme la sinodalità — che è tuttora una pratica nelle nostre Chiese orientali —: ha chiesto a tutta la Chiesa di cominciare a vivere il perdono, la riconciliazione, la conversione personale e comunitaria per poter camminare insieme verso la costruzione del regno di Dio. Sì, vogliamo farlo, possiamo farlo!
L'assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi nell'Aula Paolo VI a Roma
Penso che la più grande decisione da prendere sia che la Chiesa, attraverso questo Sinodo, sia messaggera di un vivere insieme, cioè nell’ascoltare l’altro, rispettare l’altro, dialogare con l’altro, rispettarlo e poi liberarci dalla paura dell’altro. Liberarci da questa paura, perché ci abita. Penso questo sarebbe un primo passo come grande raccomandazione di questo Sinodo all’umanità.
* Monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti (Libano). Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va