Francesco lo ribadisce nella Nota di accompagnamento al testo votato il 26 ottobre dall’Assemblea del Sinodo sulla sinodalità e da lui approvato. Sottolinea che “non è strettamente normativo” e che “la sua applicazione avrà bisogno di diverse mediazioni”. Ma impegna “fin da ora le Chiese a fare scelte coerenti con quanto in esso è indicato”. Perché il cammino del Sinodo oggi “prosegue nelle Chiese locali”
Il Documento finale della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, approvato da Papa Francesco il 26 ottobre scorso, “partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro e come tale chiedo che venga accolto”. Il Papa, nella Nota di accompagnamento del Documento, firmata ieri, solennità di Cristo Re dell’Universo, e diffusa oggi, ribadisce, come detto in occasione dell’approvazione, che esso “non è strettamente normativo” e che “la sua applicazione avrà bisogno di diverse mediazioni”. Ma “questo non significa che non impegni fin da ora le Chiese a fare scelte coerenti con quanto in esso è indicato”. Infatti il documento stesso “rappresenta una forma di esercizio dell’insegnamento autentico del Vescovo di Roma che ha dei tratti di novità”, ma corrisponde a quanto affermato da Francesco nell’ottobre 2015 sulla sinodalità, che è “la cornice interpretativa adeguata per comprendere il ministero gerarchico”.
Leggi qui il testo integrale della Nota di Papa Francesco
Papa Francesco in chiusura del Sinodo dei Vescovi - XVII Congregazione Generale. Foto: Vatican Media
Il Pontefice conferma che il cammino del Sinodo da lui avviato nell’ottobre 2021, nel quale la Chiesa, in ascolto dello Spirito Santo, è stata chiamata “a leggere la propria esperienza e a identificare i passi da compiere per vivere la comunione, realizzare la partecipazione e promuovere la missione che Gesù Cristo le ha affidato”, prosegue nelle Chiese locali, facendo tesoro proprio del Documento finale. Un testo che è stato “votato e approvato dall’Assemblea in tutte le sue parti”, e che anche Papa Francesco ha approvato e, firmandolo, ne ha disposto la pubblicazione, “unendomi al ‘noi’ dell’Assemblea”.
Ricordando quanto dichiarato il 26 ottobre, il Papa ribadisce che “c’è bisogno di tempo per giungere a scelte che coinvolgono la Chiesa tutta”, e che “questo vale in particolare per i temi affidati ai dieci gruppi di studio, ai quali altri potranno aggiungersi, in vista delle necessarie decisioni”. E sottolinea nuovamente, citando quanto scritto nell’Esortazione postsinodale Amoris laetitia, che “non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero”. Come pure che “in ogni Paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali”.
Francesco aggiunge che il Documento finale contiene indicazioni che “già ora possono essere recepite nelle Chiese locali e nei raggruppamenti di Chiese, tenendo conto dei diversi contesti, di quello che già si è fatto e di quello che resta da fare per apprendere e sviluppare sempre meglio lo stile proprio della Chiesa sinodale missionaria”. D’ora in poi, scrive il Pontefice, “nella relazione prevista per la visita ad limina ciascun vescovo avrà cura di riferire quali scelte sono state fatte nella Chiesa locale a lui affidata in rapporto a ciò che è indicato nel Documento finale, quali difficoltà si sono incontrate, quali sono stati i frutti”.
Il compito di accompagnare questa “fase attuativa” del cammino sinodale, conclude Papa Francesco, è affidato alla Segreteria Generale del Sinodo insieme ai Dicasteri della Curia Romana. E ribadisce ancora, come detto il 26 ottobre, che il cammino sinodale della Chiesa Cattolica, “ha bisogno che le parole condivise siano accompagnate dai fatti”. Lo Spirito Santo, dono del Risorto, è la sua preghiera finale “sostenga e orienti la Chiesa tutta in questo cammino”.
* Alessandro Di Bussolo, Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
Il Documento finale della seconda sessione del Sinodo, approvato integralmente dall'assemblea, racconta e rilancia un’esperienza di Chiesa tra “comunione, partecipazione, missione”, con la proposta concreta di una visione nuova che capovolge prassi consolidate
Il Documento finale votato oggi, approvato in tutti i suoi 155 paragrafi, viene pubblicato e non diventerà oggetto di un’esortazione del Papa: Francesco ha infatti deciso che sia subito diffuso perché possa ispirare la vita della Chiesa. “Il processo sinodale non si conclude con il termine dell’assemblea ma comprende la fase attuativa (9). Coinvolgendo tutti nel “quotidiano cammino con una metodologia sinodale di consultazione e discernimento, individuando modalità concrete e percorsi formativi per realizzare una tangibile conversione sinodale nelle varie realtà ecclesiali” (9).
Nel Documento, in particolare, ai vescovi si chiede molto riguardo l’impegno sulla trasparenza e sul rendere conto mentre – come affermato anche dal cardinale Férnandez, prefetto del Dicastero per la dottrina della fede – ci sono lavori incorso per dare più spazio e più potere alle donne.
Due parole-chiave che emergono dal testo – attraversato dalla prospettiva e dalla proposta della conversione - sono “relazioni” – che è un modo di essere Chiesa - e “legami”, nel segno dello “scambio di doni” tra le Chiese vissuto dinamicamente e, quindi, per convertire i processi. Proprio le Chiese locali sono al centro nell’orizzonte missionario che è il fondamento stesso dell’esperienza di pluralità della sinodalità, con tutte le strutture a servizio, appunto, della missione con il laicato sempre più al centro e protagonista. E, in questa prospettiva, la concretezza dell’essere radicati in “luogo” emerge con forza dal Documento finale. Particolarmente significativa anche la proposta presentata nel Documento per far sì che i Dicasteri della Santa Sede possano avviare una consultazione “prima di pubblicare documenti normativi importanti” (135).
Papa Francesco in chiusura del Sinodo dei Vescovi - XVII Congregazione Generale
Il Documento finale è formato da cinque parti (11). Alla prima - intitolata Il cuore della sinodalità – segue la seconda parte - Insieme, sulla barca di Pietro - “dedicata alla conversione delle relazioni che edificano la comunità cristiana e danno forma alla missione nell’intreccio di vocazioni, carismi e ministeri”. La terza parte – Sulla tua Parola – “identifica tre pratiche tra loro intimamente connesse: discernimento ecclesiale, processi decisionali, cultura della trasparenza, del rendiconto e della valutazione”. La quarta parte - Una pesca abbondante – “delinea il modo in cui è possibile coltivare in forme nuove lo scambio dei doni e l’intreccio dei legami che ci uniscono nella Chiesa, in un tempo in cui l’esperienza del radicamento in un luogo sta cambiano profondamente”. Infine, la quinta parte – Anch’io mando voi – “permette di guardare al primo passo da compiere: curare la formazione di tutti alla sinodalità missionaria”. In particolare, si fa notare, lo sviluppo del Documento è guidato dai racconti evangelici della Risurrezione (12).
L’Introduzione del Documento (1-12) mette subito in chiaro l’essenza del Sinodo come “esperienza rinnovata di quell’incontro con il Risorto che i discepoli hanno vissuto nel Cenacolo la sera di Pasqua” (1). “Contemplando il Risorto” – afferma il Documento – “abbiamo scorto anche i segni delle Sue ferite (…) che continuano a sanguinare nel corpo di tanti fratelli e sorelle, anche a causa delle nostre colpe. Lo sguardo sul Signore non allontana dai drammi della storia, ma apre gli occhi per riconoscere la sofferenza che ci circonda e ci penetra: i volti dei bambini terrorizzati dalla guerra, il pianto delle madri, i sogni infranti di tanti giovani, i profughi che affrontano viaggi terribili, le vittime dei cambiamenti climatici e delle ingiustizie sociali” (2). Il Sinodo, ricordando le “troppe guerre” in corso, si è unito ai “ripetuti appelli di papa Francesco per la pace, condannando la logica della violenza, dell’odio, della vendetta” (2). Inoltre, il cammino sinodale è marcatamente ecumenico – “orienta verso una piena e visibile unità dei cristiani” (4) - e “costituisce un vero atto di ulteriore recezione” del Concilio Vaticano II, prolungandone “l’ispirazione” e rilanciandone “per il mondo di oggi la forza profetica” (5). Non tutto è stato facile, si riconosce nel Documento: “Non ci nascondiamo di aver sperimentato in noi fatiche, resistenze al cambiamento e la tentazione di far prevalere le nostre idee sull’ascolto della Parola di Dio e sulla pratica del discernimento” (6).
La prima parte del Documento (13-48) si apre con le riflessioni condivise sulla “Chiesa Popolo di Dio, sacramento di unità” (15-20) e sulle “radici sacramentali del Popolo di Dio” (21-27). È un fatto che, proprio “grazie all’esperienza degli ultimi anni”, il significato dei termini “sinodalità” e “sinodale” sia “stato maggiormente compreso e più ancora vissuto” (28). E “sempre più essi sono stati associati al desiderio di una Chiesa più vicina alle persone e più relazionale, che sia casa e famiglia di Dio” (28). “In termini semplici e sintetici, si può dire che la sinodalità è un cammino di rinnovamento spirituale e di riforma strutturale per rendere la Chiesa più partecipativa e missionaria, per renderla cioè più capace di camminare con ogni uomo e ogni donna irradiando la luce di Cristo” (28). Nella consapevolezza che l’unità della Chiesa non è uniformità, “la valorizzazione dei contesti, delle culture e delle diversità, e delle relazioni tra di loro, è una chiave per crescere come Chiesa sinodale missionaria” (40). Con il rilancio delle relazioni anche con le altre tradizioni religiose in particolare “per costruire un mondo migliore” e in pace (41).
Un momento della meditazione
“La richiesta di una Chiesa più capace di nutrire le relazioni: con il Signore, tra uomini e donne, nelle famiglie, nelle comunità, tra tutti i cristiani, tra gruppi sociali, tra le religioni, con la creazione” (50) è la constatazione che apre la seconda parte del Documento (49-77). E “non è mancato anche chi ha condiviso la sofferenza di sentirsi escluso o giudicato” (50). “Per essere una Chiesa sinodale è dunque necessaria una vera conversione relazionale. Dobbiamo di nuovo imparare dal Vangelo che la cura delle relazioni e dei legami non è una strategia o lo strumento per una maggiore efficacia organizzativa, ma è il modo in cui Dio Padre si è rivelato in Gesù e nello Spirito” (50). Proprio “le ricorrenti espressioni di dolore e sofferenza da parte di donne di ogni regione e continente, sia laiche sia consacrate, durante il processo sinodale, rivelano quanto spesso non riusciamo a farlo” (52). In particolare, “la chiamata al rinnovamento delle relazioni nel Signore Gesù risuona nella pluralità dei contesti” legati “al pluralismo delle culture” con, a volte, anche “i segni di logiche relazionali distorte e talvolta opposte a quelle del Vangelo” (53). L’affondo è diretto: “Trovano radice in questa dinamica i mali che affliggono il nostro mondo” (54) ma “la chiusura più radicale e drammatica è quella nei confronti della stessa vita umana, che conduce allo scarto dei bambini, fin dal grembo materno, e degli anziani” (54).
“Carismi, vocazione e ministeri per la missione” (57-67) sono nel cuore del Documento che punta sulla più ampia partecipazione di laiche e laici. Il ministero ordinato è “a servizio dell’armonia” (68) e in particolare “il ministero del vescovo” è “comporre in unità i doni dello Spirito (69-71). Tra le diverse questioni si è rilevato che “la costituiva relazione del Vescovo con la Chiesa locale non appare oggi con sufficiente chiarezza nel caso dei Vescovi titolari, ad esempio i Rappresentanti pontifici e coloro che prestano servizio nella Curia Romana”. Con il vescovo vi ci sono “presbiteri e diaconi” (72-73), per una “collaborazione fra i ministri ordinati all’interno della Chiesa sinodale” (74). Significativa, poi, l’esperienza della “spiritualità sinodale” (43-48) con la certezza che “se manca la profondità spirituale personale e comunitaria, la sinodalità si riduce a espediente organizzativo” (44). Per questo, si rileva, “praticato con umiltà, lo stile sinodale può rendere la Chiesa una voce profetica nel mondo di oggi” (47).
Nella terza parte del Documento (79-108) si fa subito presente che “nella preghiera e nel dialogo fraterno, abbiamo riconosciuto che il discernimento ecclesiale, la cura dei processi decisionali e l’impegno a rendere conto del proprio operato e a valutare l’esito delle decisioni assunte sono pratiche con le quali rispondiamo alla Parola che ci indica le vie della missione” (79). In particolare “queste tre pratiche sono strettamente intrecciate. I processi decisionali hanno bisogno del discernimento ecclesiale, che richiede l’ascolto in un clima di fiducia, che trasparenza e rendiconto sostengono. La fiducia deve essere reciproca: coloro che prendono le decisioni hanno bisogno di potersi fidare e ascoltare il Popolo di Dio, che a sua volta ha bisogno di potersi fidare di chi esercita l’autorità” (80). “Il discernimento ecclesiale per la missione” (81-86), in realtà, “non è una tecnica organizzativa, ma una pratica spirituale da vivere nella fede” e “non è mai l’affermazione di un punto di vista personale o di gruppo, né si risolve nella semplice somma di pareri individuali” (82). “L’articolazione dei processioni decisionali” (87-94), “trasparenza, rendiconto, valutazione” (95-102), “sinodalità e organismi di partecipazione” (103-108) sono punti centrali delle proposte contenute nel Documento, scaturite dall’esperienza del Sinodo.
Partecipanti al Sinodo durante la chiusura dei lavori
“In un tempo in cui cambia l’esperienza dei luoghi in cui la Chiesa è radicata e pellegrina, occorre coltivare in forme nuove lo scambio dei doni e l’intreccio dei legami che ci uniscono, sostenuti dal ministero dei Vescovi in comunione tra loro e con il Vescovo di Roma”: è l’essenza della quarta parte del Documento (109-139). L’espressione “radicati e pellegrini” (110-119) ricorda che “la Chiesa non può essere compresa senza il radicamento in un territorio concreto, in uno spazio e in un tempo dove si forma un’esperienza condivisa di incontro con Dio che salva” (110). Anche con un’attenzione ai fenomeni della “mobilità umana” (112) e della cultura digitale” (113). In questa prospettiva, “camminare insieme nei diversi luoghi come discepoli di Gesù nella diversità dei carismi e dei ministeri, così come nello scambio di doni tra le Chiese, è segno efficace della presenza dell’amore e della misericordia di Dio in Cristo” (120). “L’orizzonte della comunione nello scambio dei doni è il criterio ispiratore delle relazioni tra le Chiese” (124). Da qui i “legami per l’unità: Conferenze episcopali e Assemblee ecclesiali” (124-129). Particolarmente significativa la riflessione sinodale sul “servizio del vescovo di Roma” (130-139). Proprio nello stile della collaborazione e dell’ascolto, “prima di pubblicare documenti normativi importanti, i Dicasteri sono esortati ad avviare una consultazione delle Conferenze episcopali e degli organismi corrispondenti delle Chiese Orientali Cattoliche” (135).
“Perché il santo Popolo di Dio possa testimoniare a tutti la gioia del Vangelo, crescendo nella pratica della sinodalità, ha bisogno di un’adeguata formazione: anzitutto alla libertà di figli e figlie di Dio nella sequela di Gesù Cristo, contemplato nella preghiera e riconosciuto nei poveri” afferma il Documento nella sua quinta parte (140-151). “Una delle richieste emerse con maggiore forza e da ogni parte lungo il processo sinodale è che la formazione sia integrale, continua e condivisa” (143). Anche in questo campo torna l’urgenza dello “scambio dei doni tra vocazioni diverse (comunione), nell’ottica di un servizio da svolgere (missione) e in uno stile di coinvolgimento e di educazione alla corresponsabilità differenziata (partecipazione)” (147). E “un altro ambito di grande rilievo è la promozione in tutti gli ambienti ecclesiali di una cultura della tutela (safeguarding), per rendere le comunità luoghi sempre più sicuri per i minori e le persone vulnerabili” (150). Infine, “anche i temi della dottrina sociale della Chiesa, dell’impegno per la pace e la giustizia, della cura della casa comune e del dialogo interculturale e interreligioso devono conoscere maggiore diffusione nel Popolo di Dio” (151).
“Vivendo il processo sinodale – è la conclusione del Documento (154) - abbiamo preso nuova coscienza che la salvezza da ricevere e da annunciare passa attraverso le relazioni. La si vive e la si testimonia insieme. La storia ci appare segnata tragicamente dalla guerra, dalla rivalità per il potere, da mille ingiustizie e sopraffazioni. Sappiamo però che lo Spirito ha posto nel cuore di ogni essere umano un desiderio profondo e silenzioso di rapporti autentici e di legami veri. La stessa creazione parla di unità e di condivisione, di varietà e intreccio tra diverse forme di vita”. Il testo si conclude con la preghiera alla Vergine Maria per l’affidamento “dei risultati di questo Sinodo: “Ci insegni ad essere un Popolo di discepoli missionari che camminano insieme: una Chiesa sinodale” (155).
* Giampaolo Mattei - Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
La seconda sessione dell'Assemblea sinodale sulla sinodalità, in corso dal 2 al 27 ottobre 2024 nell'Aula Paolo VI in Vaticano, continua a confrontarsi su temi importanti per una Chiesa dal volto sinodale che riscopre gli principi di “comunione, partecipazione e missione”.
Quasi ogni giorno si tengono conferenze stampa nella Sala Stampa della Santa Sede, dove i giornalisti di tutto il mondo vengono informati sui lavori. Mercoledì 9 ottobre, gli ospiti invitati a discutere i temi legati al cammino sinodale sono stati l'arcivescovo di Nampula e presidente della Conferenza Episcopale del Mozambico, mons. Inácio Saúre, missionario della Consolata; l'arcivescovo di Puerto Montt del Cile, mons. Luis Fernando Ramos e il diacono permanente della diocesi di Gand (Belgio), Geert De Cubber.
Riportiamo gli interventi di Mons. Inacio Saúre in risposta alle domande dei giornalisti.
Cristiane Murray: Questo Sinodo sulla sinodalità porta una grande novità per la vostra Congregazione (i Missionari della Consolata) con il nuovo santo?
Il Sinodo porta anche una grande novità per la famiglia della Consolata, perché il 20 ottobre si celebrerà la canonizzazione di Giuseppe Alamano, il nostro Fondatore che ho imparato a conoscere come seminarista dagli anni ottanta. Nel contesto del Sinodo, il tema stesso di “come essere una Chiesa sinodale missionaria” mi sta molto a cuore come missionario della Consolata, perché il Beato Giuseppe Allamano ha creato due Istituti per la missione ad gentes.
Conferenza stampa mercoledi 9 ottobre 2024 nella Sala Stampa della Santa Sede
Tra i temi discussi dal Sinodo, vorrei sottolineare l'importanza dell'iniziazione cristiana per realizzare un incontro personale con Cristo in un contesto in cui molti giovani lasciano la Chiesa dopo il sacramento della Cresima (confermazione). Ovviamente, questo ci fa capire che la iniziazione cristiana manca di profondità.
Un altro tema affrontato è la condivisione dei doni tra le Chiese. Uno dei temi dell'Instrumentum laboris (del Sinodo) parlava della condivisione dei doni materiali nel contesto di chiese più ricche e altre che sono effettivamente indigenti. Come possiamo raggiungere una condivisione dei doni materiali in una Chiesa sinodale senza trascurare altri aspetti come la condivisione spirituale, teologica e pastorale?
Importante è anche la questione della conoscenza reciproca tra la Chiesa cattolica latina e la Chiesa cattolica orientale, che spesso noi cattolici conosciamo poco e forse gli orientali conoscono poco noi. Nel contesto di una Chiesa sinodale, è stato sottolineato che questo è molto importante per il nostro arricchimento reciproco e la Chiesa orientale ha molto da offrirci in questa condivisione di doni.
Jaime C. Patias: Parlando dello scambio di doni, come il Sinodo potrebbe aiutare a trovare soluzioni in situazioni di conflitti, violenze e guerre in cui intere popolazioni soffrono, come accade oggi a Cabo Delgado (Mozambico) e in altre regioni del mondo?
Penso che la prima cosa che il Sinodo ha l'opportunità di indicare è la conoscenza della realtà. Questa guerra è iniziata nell'ottobre 2017 con pesanti attacchi a villaggi importanti. Ora sembra essere in una fase di stallo perché non abbiamo forti attacchi ai villaggi, ma i piccoli attacchi nei villaggi ci sono ancora e difficilmente vengono riportati. Purtroppo, la sofferenza che questa guerra ha creato è molto presente. La guerra ha causato circa 5.000 morti e 1 milione di sfollati all'interno della Provincia di Cabo Delgado e nelle province vicine come Niassa e Nampula, dove sono arcivescovo.
Mons. Inacio Saure durante conferenza stampa mercoledì 09 ottobre 2024 nella Sala Stampa della Santa Sede
All'inizio ci sono stati molti interventi con la partecipazione di organizzazioni umanitarie per aiutare, ma oggi queste popolazioni sono state praticamente abbandonate alla loro sorte, perché sono viste come persone che sono arrivate e si sono stabilite nelle zone adiacenti, e non sono più viste come sfollati in una situazione di emergenza. Quindi, penso che il Sinodo, conoscendo la realtà, potrebbe dire cosa si potrebbe fare concretamente. La mancanza di informazioni non aiuta le altre Chiese sorelle a raggiungere queste popolazioni sofferenti e bisognose. Finora è stato fatto molto, ma oggi la gente ha bisogno di più.
Anna Tulli (Lanza): Considerando la sua esperienza di missionaria della Consolata, vede un cambio di paradigma nella missione, quando gli europei evangelizzavano il mondo e presto vedremo gli africani evangelizzare un'Europa sempre meno cristiana?
Penso che questa possibilità sia aperta, ma allo stesso tempo la Chiesa in Africa, in particolare in Mozambico, deve affrontare anche il problema dei mezzi finanziari per formare i missionari. Quindi, in questa condivisione di doni, se l'Africa può avere questo sostegno, penso che ci sarà questa possibilità. Recentemente, durante la visita ad limina dei vescovi del Mozambico, abbiamo presentato i progetti per la formazione nei seminari e le difficoltà economiche per realizzarli. Nella mia arcidiocesi, oltre al seminario diocesano propedeutico, abbiamo un seminario interdiocesano di filosofia che non siamo riusciti a completare per mancanza di risorse. Il Santo Padre ci ha promesso un aiuto e questo ci ha messo un po' a nostro agio. Quindi credo in questo cambiamento di paradigma nella missione.
La praticipazione del Papa Francesco nei lavori del Sinodo
Danúbia (Canção Nova): Lei ha parlato di iniziazione cristiana, ha qualche insegnamento del Beato Allamano che possa contribuire a questo processo?
Ho lavorato nella Repubblica Democratica del Congo e ho conosciuto una bella esperienza di iniziazione cristiana da parte del movimento giovanile "Bilenge ya mwinda" (Giovani della luce) che cerca di incorporare elementi della cultura nella vita cristiana, una bella iniziativa. In Mozambico non abbiamo molte iniziative di questo tipo. Per sei anni sono stato responsabile della pastorale giovanile e abbiamo lavorato per creare una pastorale giovanile con i giovani, dai giovani e per i giovani. Penso che questo possa aiutare.
Per quanto riguarda il Beato Giuseppe Allamano, che sarà canonizzato a giorni, lui aveva un motto che mi ha colpito molto: “prima santi e poi missionari”. Direi anche: prima santi e poi cristiani. Ero maestro dei novizi e quando citavo questo motto del Fondatore, i giovani mi prendevano in giro dicendo: “Allora padre, tu sei già santo?”. Io rispondevo: devo avere la propensione alla santità. Questa felice coincidenza della canonizzazione di Giuseppe Allamano nel bel mezzo del Sinodo sulla sinodalità può essere anche un contributo alla Chiesa missionaria.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Segretariato per la Comunicazione.
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti (Libano), durante il briefing di oggi per i giornalisti, nella Sala stampa della Santa Sede. Il suo invito, espresso anche nell’aula del Sinodo: “Liberiamoci tutti della paura dell’altro”
Vengo da un Paese a fuoco e sangue da cinquant’anni ormai. Nel 1975 è cominciata la guerra in Libano sotto il pretesto di una guerra religiosa e confessionale, soprattutto tra musulmani e cristiani. Cinquant’anni dopo, non sono riusciti a far capire che non è per tutto una guerra di confessione o di religione. È una guerra che ci è stata imposta, al Libano, un “Paese messaggio”, come diceva sempre Papa san Giovanni Paolo ii; un Paese messaggio, di convivialità, di libertà, di democrazia, di vita nel rispetto delle diversità. Anche il Santo Padre, Papa Francesco, porta questo.
Il Libano è un messaggio di pace e dovrebbe restare un messaggio di pace. È l’unico Paese nel Medio Oriente dove possono vivere insieme cristiani, musulmani, ebrei, nel rispetto delle loro diversità, in una nazione che è una “nazione modello”, come diceva Papa Benedetto xvi. Venire qui, in questa situazione, per parlare del Sinodo, sarebbe complesso; anche per parlare di perdono, che Papa Francesco ha preso come segno per questa Seconda sessione, sarebbe ancora più complesso. Sì, vengo qui per parlare di perdono e riconciliazione, mentre il mio Paese, il mio popolo, soffre, subisce le conseguenze delle guerre, dei conflitti, della violenza, della vendetta, dell’odio.
Noi libanesi vogliamo sempre condannare l’odio, la vendetta, la violenza. Vogliamo costruire la pace. Siamo capaci di farlo. Se Papa Francesco ha scelto il perdono, per noi e per me, è un grande messaggio da dare. Parlare di perdono quando i bombardamenti colpiscono tutto il Libano, sarebbe impossibile? No. In tutto questo, la popolazione del Libano rifiuta, come sempre, il linguaggio dell’odio e della vendetta. Il perdono l’ho vissuto personalmente. Quando avevo cinque anni è venuto qualcuno a casa nostra e ha assassinato selvaggiamente i miei genitori. Ho una zia monaca nell’ordine libanese maronita. È venuta a casa nostra a prendere noi, quattro bambini — il più grande aveva sei anni, il più piccolo due —; ci ha preso nel suo monastero e in chiesa ci ha invitato a metterci in ginocchio e a pregare; pregare Dio di misericordia, di amore. Ci disse: “Non preghiamo tanto per i vostri genitori, sono martiri presso Dio; preghiamo piuttosto per quello che li ha assassinati e cercate di perdonare nel corso della vostra vita. Così sarete i figli del vostro Padre che è nei cieli”.
“Se amate quelli che vi amano — dice Gesù — che merito avete? Amate i vostri nemici. Pregate per quelli che vi perseguitano. Sarete allora discepoli di Cristo e figli del Padre vostro”. Abbiamo portato questo nel nostro cuore, noi, quattro bambini. E il Signore non ci ha mai abbandonato; ci ha preso, ci ha accompagnato, per poter vivere questo perdono.
Dopo miei studi, qui a Roma, da seminarista, sono tornato per l’ordinazione. A 24 anni ho scelto l’anniversario dell’assassinio dei miei genitori che era la vigilia della festa dell’Esaltazione della Santa Croce — una grande festa per noi Chiese orientali — solo per dire che “il chicco di grano se cade in terra e non muore non dà frutto” e siamo noi — ho detto — il frutto di questo chicco di grano voluto da Dio. Sì, è la volontà di Dio che i nostri genitori hanno accettato e che noi abbiamo vissuto. E io ho detto: rinnovo la mia promessa di perdono, perdonare tutti quelli che ci fanno del male.
Briefing per i giornalisti nella Sala stampa della Santa Sede, sabato 5 ottobre 2024
Poi qualche mese dopo parlavo in un ritiro ai giovani nostri lì, in Libano, che eravamo ai primi anni di guerra nel 1977-’78. Venivo a parlare del sacramento della riconciliazione e del perdono. Ho sentito che non mi capivano: erano tutti armati per fare la guerra contro i nostri nemici. Dopo 4 ore del nostro discorso ho sentito che il messaggio non passava. Allora ho detto: vi do la mia testimonianza personale; e ho raccontato ai miei giovani libanesi quello che ho vissuto e che ho rinnovato con il perdono e la riconciliazione. Dopo un tempo di silenzio un giovane si è messo in piedi e ha osato chiedermi: “Padre suppongo che hai perdonato, però immagina che adesso tu prete sei nel confessionale e questo tipo ti viene, si mette davanti a te, si confessa e ti chiede perdono, cosa farai?” — la risposta non era facile. Poi ho detto: grazie della domanda, perché adesso ho capito cosa vuol dire perdonare. Perché è vero che io ho perdonato, ma adesso io vedo che ho perdonato da lontano, non l’avevo mai visto questo tipo. Oggi si viene a mettere lì, davanti a me... Sono anche uomo, ho i miei sentimenti, però finalmente sì, gli do l’assoluzione e il perdono; ma dico a voi giovani libanesi che ho capito perché il perdono è tanto difficile, ma non è impossibile. Vi capisco, ma è possibile viverlo se vogliamo essere discepoli di Cristo, sulla terra di Cristo. Sulla Croce Gesù ha perdonato, noi siamo capaci di perdonare, e vi dico di più: tutti questi che ci fanno la guerra, che consideriamo nemici — israeliani, palestinesi, siriani, di tutte le nazionalità — questi non sono nemici, perché? Perché quelli che fomentano la guerra non hanno identità, non hanno confessione, non hanno religione; ma gli altri, i popoli, vogliono la pace, vogliono vivere in pace sulla terra della pace di Gesù Cristo, re della pace.
Perciò, anche oggi, nonostante tutto quello che succede — 50 anni di guerra cieca, selvaggia —, nonostante tutto, noi come popoli di tutte le culture di tutte le confessioni, vogliamo la pace, siamo capaci di costruire la pace. Lasciamo da parte i nostri politici, i nostri e quelli del mondo, le grandi potenze: loro fanno i loro interessi al conto nostro. Però noi come popoli non vogliamo tutto questo: lo rifiutiamo. Verrà il giorno che avremo l’occasione di far passare il nostro messaggio, dire la nostra parola al mondo intero: Basta! Basta con questa vendetta, con questo odio, con queste guerre, basta! Lasciateci costruire la pace almeno per i nostri bambini, per le generazioni future che hanno diritto di vivere in pace. Ecco questo che ho capito dal messaggio di Papa Francesco quando ha chiamato a fare, a vivere insieme la sinodalità — che è tuttora una pratica nelle nostre Chiese orientali —: ha chiesto a tutta la Chiesa di cominciare a vivere il perdono, la riconciliazione, la conversione personale e comunitaria per poter camminare insieme verso la costruzione del regno di Dio. Sì, vogliamo farlo, possiamo farlo!
L'assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi nell'Aula Paolo VI a Roma
Penso che la più grande decisione da prendere sia che la Chiesa, attraverso questo Sinodo, sia messaggera di un vivere insieme, cioè nell’ascoltare l’altro, rispettare l’altro, dialogare con l’altro, rispettarlo e poi liberarci dalla paura dell’altro. Liberarci da questa paura, perché ci abita. Penso questo sarebbe un primo passo come grande raccomandazione di questo Sinodo all’umanità.
* Monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti (Libano). Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
Yesica Patiachi: "Nell’Amazzonia noi non eravamo considerati umani, ma selvaggi, non avevamo anima. Ma adesso chi è che non ha un'anima?”
Nell'immenso territorio dell'Amazzonia, i fiumi, i laghi e gli "igarapés" sono canali di comunicazione e di connessione tra i popoli, siano essi nella giungla, nelle aree fluviali o nelle città, che a loro volta si connettono con l'intera umanità. Con l'obiettivo di estendere e intensificare questa rete di persone, comunità e istituzioni impegnate nella cura della Casa Comune, la Pontificia Università Gregoriana di Roma ha ospitato il 7 giugno un convegno sul cammino sinodale della Chiesa in Amazzonia.
Una rete, due remi, canoe, setacci, alcune zucche e volti di martiri, collocati nell'atrio dell'Università, hanno ricordato il Sinodo per l'Amazzonia del 2019, collegando le comunità del territorio con la città eterna di Roma. L'allestimento ha creato l'atmosfera per la suggestiva apertura del dialogo promosso dalla Rete Ecclesiale Panamazzonica (REPAM) e dalla Conferenza Ecclesiale dell'Amazzonia (CEAMA), guidate dalle rispettive presidenze.
Hanno partecipato circa 50 persone, tra cui rappresentanti di agenzie di cooperazione internazionale, organizzazioni pastorali ed ecclesiali, vita consacrata e giornalisti di vari mezzi di comunicazione.
Mistica all'apertura del convegno nella Pontificia Università Gregoriana di Roma
“I popoli originari dell'Amazzonia probabilmente non sono mai stati così minacciati nei loro territori come ora”, aveva detto Papa Francesco a Puerto Maldonado (Perù) nel 2018. La dichiarazione è stata ricordata da mons. David Martínez de Aguirre, vicepresidente della REPAM, che nel 2019 è stato segretario del Sinodo per l'Amazzonia. “Le immagini parlano più delle parole”, ha detto il vescovo di Puerto Maldonado, riferendosi a uno dei video proiettati durante l'evento per denunciare gli impatti dello sfruttamento petrolifero e di altri minerali nella regione.
“Il Sinodo e l'Esortazione Querida Amazonía hanno messo in evidenza le bellezze e i drammi dell'Amazzonia” Nel documento, “il Papa parla di ingiustizie e crimini. Cinque anni dopo dobbiamo dire, con tristezza, che la situazione non solo continua, ma è peggiorata", ha osservato. “I vescovi del Perù hanno recentemente denunciato l'allentamento delle leggi ambientali che lasciano l'Amazzonia e il pianeta ancora più vulnerabili”. Inoltre, “gli Stati rivendicano la loro sovranità e i Paesi vengono cooptati dalla criminalità organizzata, riflettendo una severa crisi democratica”. Secondo il vescovo, esiste una connessione tra “coltivazione di coca, traffico di droga, estrazione mineraria illegale, sfruttamento del legname, traffico di terre, traffico di esseri umani e collusione in attività illegali”.
Yesica Patiachi e mons. David Martínez de Aguirre, vicepresidenti della REPAM
Un portavoce delle comunità, Yesica Patiachi, nativa del popolo Harakbut in Perù e vicepresidente della REPAM, ha sollevato una questione storica. “I popoli indigeni sono stati minacciati dall'arrivo dei ‘bianchi’. Noi che eravamo nell’Amazzonia non eravamo considerati umani, ma selvaggi, non avevamo anima. Ma adesso chi è che non ha un'anima? Chi sono i selvaggi, come si diceva una volta?”, si chiede Yesica, difendendo l'importanza dell'educazione per trovare vie d'uscita. “Negli ultimi cinque anni almeno 30 ambientalisti hanno perso la vita. E noi cosa facciamo? L'indifferenza uccide perché contribuisce alla violazione dei diritti umani. Non vogliamo dimenticare la nostra saggezza ancestrale. Un popolo che non ha accesso all'istruzione diventa più vulnerabile. La richiesta più grande dei popoli indigeni non è quella di celebrare la messa, ma di aiutarci a educare i nostri figli. Voglio che studino in un'università”, ha detto Yesica, scrittrice, ricercatrice, pittrice ed educatrice, che ha conosciuto la Chiesa attraverso l'educazione delle religiose che arrivano dove lo Stato non arriva.
Yesica Patiachi, nativa del popolo Harakbut in Perù
Alla Gregoriana di Roma ha ricordato una domanda posta all'Università Cattolica del Perù: “Quanti studenti indigeni avete qui? È un processo lungo e abbiamo istituzioni che, come REPAM e CEAMA, investono nell'istruzione, strumento indispensabile per l'autodeterminazione delle comunità. Non possiamo tornare indietro, dobbiamo andare avanti tessendo reti, remando insieme”, ha concluso.
L'incontro è stato moderato da padre Adelson Araújo Santos, SJ, insegnante alla Gregoriana e da suor Laura Vicuña, della comunità delle francescane catechiste e vicepresidente della CEAMA. È stato coordinato da fra João Gutemberg, marista e segretario esecutivo della REPAM, e da Rodrigo Fadul, segretario aggiunto, che hanno sottolineato l'importanza di unire le forze e lavorare in rete.
Salutando gli ospiti il presidente del Collegium Maximum, padre Pino Di Luccio, SJ, ha ricordato che l'incontro si svolge nell'ambito delle celebrazioni del 10° anniversario della creazione della REPAM, organizzazione fondata nel 2014, che, insieme a CEAMA, istituita nel percorso sinodale del 2020, ha generato diversi processi e varie reti ecclesiali impegnate nella difesa e nella promozione dell'ecologia integrale in tutto il mondo.
“Il territorio amazzonico è un tesoro inestimabile per il nostro Pianeta, un dono di Dio per tutti. Preservare, proteggere e gestire in modo sostenibile questa terra è essenziale per la nostra sopravvivenza e per quella delle generazioni future”, ha dichiarato padre Di Luccio. “Il Programma Universitario Amazzonico e il Diploma in Ecologia Integrale promosso dalle Università Pontificie di Roma sono alcuni dei contributi accademici alla sfida della cura del Pianeta”.
Padre Pino Di Luccio, SJ, presidente del Collegium Maximum (PUG)
L'Amazzonia è al centro dell'attenzione di Papa Francesco che, nel 2015, l'ha messa in evidenza nell'Enciclica Laudato si e nel 2019 ha indetto il Sinodo. Nell'Esortazione apostolica Querida Amazonía (2020), Francesco afferma: “l'amata Amazzonia si presenta agli occhi del mondo con tutto il suo splendore, il suo dramma e il suo mistero, incoraggiando una conversione ecologica e invitandoci a prenderci cura del Creato e a promuovere una Chiesa dal volto amazzonico” (AQ 1).
Nella situazione attuale e di fronte alle sfide della missione della Chiesa, i presidenti di CEAMA e REPAM, il cardinale Pedro Ricardo Barreto e monsignor Rafael Cob García, hanno ringraziato le istituzioni per il loro sostegno nei vari progetti a favore delle comunità e hanno sottolineato la necessità di remare insieme con i due remi in modo coordinato e complementare. Quello della REPAM con le sue attività ambientali, culturali e sociali, e quello della CEAMA con la sua specificità canonica e giuridica. Entrambe promuovono una Chiesa dal volto amazzonico e sinodale nella ricerca di nuovi percorsi e di un'ecologia integrale.
Mons. Eugenio Coter, il card. Pedro Barreto, mons. Rafael Cob Garcia e Suor Carmelita Conceição.
Il cardinale peruviano Pedro Barreto, arcivescovo emerito di Huancayo, ha anche spiegato che, come CEAMA, “in questi giorni abbiamo avuto una sorta di visita ad limina per informare Papa Francesco e i dicasteri sull'andamento (della Conferenza ecclesiale), esattamente come fanno le Conferenze episcopali. E abbiamo sentito da parte del Papa e dei dicasteri a Roma, entusiasmo, gioia e soprattutto speranza, una speranza che non delude”. Per questo, “continuiamo a camminare insieme”, ha detto il cardinale.
Nel celebrare i 10 anni, la REPAM vuole tornare alle sue origini in periferia, alle sue fondamenta dove è stata concepita nel Vicariato di Puyo (Ecuador), nell'aprile 2013, per poi nascere a Brasilia nel settembre 2014. Il suo presidente, mons. Rafael Cob García, ha ricordato che “la REPAM è una fonte di vita nella Pan-Amazzonia in almeno quattro aspetti: in quello di saper ascoltare il territorio e il grido dei popoli e della terra; nel dialogo interculturale e nel pieno rispetto della diversità; nella cura della Casa Comune di cui l'Amazzonia è parte essenziale; nel costruire alleanze con coloro il cui ideale è difendere l'Amazzonia”.
Tra i vari nuclei, Mons. Rafael Cob ha messo in evidenza quello dei diritti umani. “I popoli che vivono nell’Amazzonia vedono vulnerati i loro diritti fondamentali. Per questo la REPAM produce rapporti che presenta in vari ambiti (come ONU, OEA). In questo impegno è importante lavorare insieme e in rete", ha sottolineato il vescovo del Vicariato di Puyo.
La vicepresidente della REPAM, suor Carmelita Conceição, suora salesiana, ha sottolineato “la complementarietà tra la REPAM e la CEAMA nel portare avanti l'impegno del Sinodo, che è quello di cercare nuovi modi per far sì che alle popolazioni amazzoniche siano riconosciuto spazi e attenzione ai loro bisogni. il loro spazio che risponda ai loro bisogni”. Tra le aree di lavoro specifiche ci sono i “popoli Amazzonici e la Chiesa nelle frontiere, la chiesa che si fa presente nei luoghi più isolati per promuovere i diritti umani”. Questo lavoro è importante perché i popoli amazzonici soffrono, sono perseguitati, violati e non hanno la forza di affrontare tali situazioni da soli. “Un altro nucleo importante è quello dei giovani –ha detto suor Carmelita–. Le iniziative di REPAM e CEAMA sono un faro di speranza”.
Padre Patricio Flores (DHI), Ana Cristina Morales (Caritas), padre Martin Meyer (ADVENIAT) e Diana Trimino (CAFOD)
“Nella crisi globale in cui viviamo abbiamo bisogno di alleanze, di costruire ponti e non muri”, ha detto il rappresentante di ADVENIAT, padre Martin Meyer, un'istituzione ecclesiastica tedesca che ha sostenuto progetti in Amazzonia. Hanno preso la parola anche i rappresentanti di Caritas Spagna, Ana Cristina Morales, di CAFOD in Inghilterra, la signora Diana Trimino, e padre Patricio Sarlat, del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale. Le organizzazioni internazionali sono alleate nel cammino sinodale e nella cura e difesa del territorio. Tra le principali preoccupazioni vi sono la formazione di liders, l'educazione, i diritti umani, la visibilità internazionale e la partecipazione delle donne e dei giovani ai processi.
A Roma, la delegazione CEAMA e REPAM ha partecipato a una serie di attività che hanno incluso un'udienza con Papa Francesco il 3 giugno, incontri nei dicasteri che compongono la Curia romana, un evento presso l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), interviste con mass media e incontri con gli enti ecclesiastici sulla missione della Chiesa in Amazzonia.
Il territorio pan-amazzonico comprende Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Guyana Francese, Perù, Suriname e Venezuela. Il presente e il futuro del pianeta dipendono dalla sopravvivenza dell'Amazzonia nella sua biodiversità e dalla protezione dei suoi popoli minacciati da progetti predatori.
La missione della Chiesa comporta anche la cura del creato.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Direttore SGC.
Le presidenze della REPAM e della CEAMA con i rappresentanti delle agenzie di cooperazione internazionale