È morto a Lima, sua città natale, lo scorso 22 ottobre, il padre della Teologia della liberazione

Padre Gustavo Gutiérrez Merino, sacerdote, filosofo e teologo peruviano, aveva 96 anni. In gioventù, parroco nel distretto del Rímac, nel 1971 divenne conosciuto a livello mondiale per la sua «Teología de la liberación: perspectivas», un lavoro di enorme portata, non soltanto per la teologia e la Chiesa cattolica. Nel 1974, fondò l’istituto Bartolomé de Las Casas, che in breve tempo si sarebbe affermata come una prestigiosa istituzione di ricerca su teologia e povertà. Nel 2001 entrò nell’ordine dei Domenicani.

Nel corso della sua vita, padre Gutiérrez si è dedicato all’analisi e alla denuncia della povertà e delle disuguaglianze nel continente latinoamericano. La sua proposta centrale è così riassumibile: di fronte all’ingiustizia strutturale creata dall’ordine sociale ed economico prevalente, i cristiani debbono non soltanto denunciare ma anche agire. E proprio da qui, da questo concetto rivoluzionario, sono scaturite tutte le polemiche e le accuse – da parte del potere e dei settori più conservatori della società – di aver trasformato la teologia in teoria politica e, per di più, di sinistra.

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23 ottobre 2024: un momento della cerimonia funebre per padre Gutiérrez nella Basilica di San Domenico, a Lima. Foto: Gianni Vaccaro

Abbiamo avuto modo di constatare di persona quanto le sue idee potessero suscitare reazioni di fastidio all’interno della stessa Chiesa cattolica. Una volta il cardinale Augusto Cipriani (all’epoca, primate del Perù), in risposta a una domanda su padre Gutiérrez, ci disse: «L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scrivere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».

Per due volte, nel 1998 e nel 2004, nella capitale peruviana abbiamo incontrato padre Gutiérrez. C’impressionò subito per la forza che sprigionava dalla sua figura minuta. Nel 2004, quando lui era professore alla facoltà di teologia della statunitense University of Notre Dame, nell’Indiana, gli chiedemmo come – a suo parere – stesse la Teologia della liberazione. «Sta bene – rispose -. In questi anni stiamo lavorando su nuove dimensioni e approfondendo un’intuizione originale, che nei nostri primi scritti avevamo chiamato “la complessità della libertà”. Questo significa, in sintesi, prestare attenzione non solo agli aspetti economici della realtà ma anche a quelli etnici, culturali, di genere, ecc. Un’altra dimensione che stiamo sottolineando è la critica al pensiero unico neoliberista. Il nostro punto di partenza è l’opzione preferenziale per i poveri (opción preferencial por los pobres) che, ancora oggi, costituisce il centro della Teologia della liberazione».

Sempre durante quell’intervista, padre Gutiérrez spiegò: «Una volta un giornalista mi chiese se fossi pronto a scrivere di Teologia della liberazione come avevo fatto vent’anni prima. Io gli chiesi se fosse sposato. Lui mi rispose di sì, allora gli chiesi di nuovo: scriveresti a tua moglie una lettera d’amore come hai fatto vent’anni fa? Per me è lo stesso. Per me scrivere teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa a cui appartengo, al mio popolo, e questo è il mio progetto».

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Papa Francesco e padre Gutiérrez, un rapporto di stima e amicizia.

Padre Gutiérrez era consapevole delle difficoltà: «C’è – ci disse nel 1998 – una povertà che persiste, che dura, che continua nel tempo. Credo che la distanza tra i più poveri e i più ricchi si faccia più grande». Nel 2010, in un’intervista per l’Università cattolica di Lima (Pucp), osservò: «Il continente più diseguale del mondo è l’America Latina, eppure la stragrande maggioranza della popolazione latinoamericana è cristiana, cattolica ed evangelica. Il cristiano sa che deve amare il prossimo e preferibilmente il più povero. La realtà non sembra rispondere a questa richiesta».

Cosa rimane oggi della Teologia della liberazione? Rimane l’«opzione preferenziale per i poveri» – la scelta di una società in cui i meno fortunati siano al centro – che ne è un principio fondante. L’espressione, che risale ai documenti ufficiali dei vescovi dell’America Latina (Conferenza di Medellìn del 1968, Conferenza di Puebla del 1979), è stata infatti fatta propria da papa Francesco già al momento del suo insediamento, nel marzo 2013.

Sei mesi dopo quella data, esattamente il 12 settembre, Francesco e padre Gutiérrez si ritrovarono in un incontro privato a Casa Santa Marta, in Vaticano. Un grande atto di stima e affetto del pontefice argentino nei confronti del teologo peruviano.

* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

I rappresentanti dei popoli nativi dell'Amazzonia peruviana, insieme ai missionari, si sono riuniti nella Prima Assemblea dei Popoli Nativi, che si propone rafforzare il dialogo interculturale  con il fine di camminare insieme verso la monifue (“la vita piena”) e costruire una Chiesa più vicina alla realtà dei popoli indigeni.

Nell’Amazzonia peruviana vivono 51 popoli nativi, di cui nove si trovano nel Vicariato di San José del Amazonas; una Chiesa particolare che nel corso dei suoi anni ha camminato e navigato a fianco delle popolazioni indigene, come nel caso di Juan Marcos Coquinche Mercier, che da anni vive inserito nella cultura “Naporuna” (indigena Kichwa della regione prossima al fiume Napo).

Il Sinodo per l'Amazzonia, che è stato celebrato nell’ottobre del 2019, proponeva nuove modalità nelle relazioni fra Chiesa cattolica e territorio, culture e vita ancestrale. Si tratta di camminare con i criteri di Papa Francesco che, a Puerto Maldonado, aveva detto alle popolazioni indigene “aiutate i vostri missionari a diventare una cosa sola con voi”.

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Tutto è una sfida rivolta alle Chiese locali che dovranno riflettere quotidianamente e concretamente su come camminare insieme a questi popoli nel qui e ora.

Con la consapevolezza che il piano pastorale del Vicariato Apostolico di San José del Amazonas non è all'altezza dell'opzione indigena, i rappresentanti di sei missioni che convivono direttamente con i popoli indigeni, assieme ad alcuni membri del personale amministrativo, si sono incontrati per condividere le comuni preoccupazioni ed esperienze su come dare passi concreti verso una opzione preferenziale per i popoli indigeni. Con rispetto a questo tutti siamo consapevoli che ciò richiede una conversione nelle forme, metodi, tempi, ritmi, lingua e spiritualità.

Si è quindi consolidata la proposta di tenere una prima Assemblea dei Popoli Indigeni con i missionari che liberamente desideravano far parte di questo processo: sentire, imparare, camminare con loro, insieme nella costruzione della monifue, quella pienezza di vita che nel nostro caso si basa sulla gratuità e l'interculturalità.

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Padre Fernando Flórez è accolto dalla comunità indigena Murui di Puerto Refugio sulle rive del fiume Putumayo, Perù

A questo processo si è unito anche il Vicariato come istituzione - si unisce, consigliato dai nonni e dalle nonne del territorio. Così, nel villaggio di Angoteros, dal 27 di giugno al primo di luglio 2024, si sono incontrati i rappresentanti dei popoli Tikuna, Arabela, Murui-Uitoto, Yagua, Secoya, Bora, Maijuna, Okaina, Kichwa, nonché missionari, missionarie e alcune istituzioni che desiderano tenere pronti i propri remi per meglio navigare con questi popoli. 

L'obiettivo non era altro che quello di offrire uno spazio di dialogo tra culture che permettesse conoscersi, valorizzarsi e camminare insieme e seminare la parola di vita dalla loro saggezza.

Per i popoli indigeni il termine monifue significa abbondanza e questa prima assemblea rappresenta proprio questo: il raccolto di questa grande chagra (campo) seminata nella diversità che non ha mai rappresentato una minaccia ma una promessa. Il monifue si può vedere riflesso, tra le altre cose, in questi quattro aspetti che possiamo mettere in evidenza.

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  1. Non è necessario aspettare che i processi vengano dall'alto verso il basso. I processi nascono dai bisogni quotidiani che sono sentiti più acutamente da chi li vive. Dal basso si avviano processi validi che integrano gli orientamenti istituzionali senza perdere l'unità e senza cadere nell'uniformità.
  1. L'opzione indigena va di pari passo con l'opzione dell'abbattimento delle frontiere... frontiere geografiche, frontiere territoriali, frontiere esistenziali. Da soli e divisi non andremo lontano. È stato significativo vedere i Kichwa dell’Ecuador assieme a quelli del Perù; i Murui della Colombia con i Murui–Uitoto del Perù. Gli Stati nazionali volevano dividere, ma non potevano spezzare la spiritualità dello stesso popolo. E questo rappresenta anche un appello alle Chiese chiamate a camminare insieme, incontrarsi e riconoscersi.
  1. L'Opzione Indigena non si realizza sulla base del protagonismo: fare così porta a nuovi colonialismi in cui si usa l'altro per far crescere sé stessi. No! Qui dovremmo piuttosto accettare la spiritualità di Giovanni Battista che diventava più piccolo nella misura in cui Gesù, il maestro, cresceva (cf Gv 3,30). I missionari dovrebbero sentirsi come Giovanni, in modo da vedere le persone come maestri di saggezza.
  1. Nell’Amazzonia non si tratta di starci ma di saperci stare. È stato detto in molti modi che il territorio ha bisogno di missionari gioiosi, aperti all'ascolto, alla parola, al mistero, perché conoscendosi possano insieme –sempre insieme– proteggere, difendere e generare la vita, non una vita qualsiasi ma una vita che sia monifue.

* Padre José Fernando Flórez Arias, IMC, missionario nel Vicariato di San José del Amazonas, Perù.

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Missionari e missionarie della Consolata in visita alla Missione Putumayo a Suplin Vargas, Perù, nel febbraio 2022. Foto: Jaime C. Patias

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