Oggi la questione ecologica è al centro degli interessi di Papa Francesco e della Chiesa che desidera impegnarsi nella cura della Casa Comune, insieme a molte organizzazioni e persone che condividono le stesse preoccupazioni e speranze.
A conferma di questa preoccupazione, nel mese di ottobre 2019 si è tenuta in Vaticano l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la Pan-Amazzonia per discutere di “Nuovi percorsi per la Chiesa e per un’ecologia integrale”. Uno dei macro temi di questo Sinodo è stata la questione dell’ecologia. La preoccupazione per il presente e il futuro del pianeta, per il cambiamento climatico, per la crisi socio-ambientale, era comune a tutti i partecipanti nel Sinodo. Questa preoccupazione è stata alimentata durante il lungo processo di ascolto degli appelli degli abitanti dell’Amazzonia e riguarda l’intera umanità: è stato ripetuto in vari contesti che il grido della Terra è lo stesso grido dei popoli, degli impoveriti e degli sfruttati.
Papa Francesco, di fronte ai rappresentanti di vari popoli indigeni riuniti a Puerto Maldonado (Perù) nel gennaio 2018, aveva detto “Mai come oggi i popoli indigeni e i loro territori sono stati minacciati”.
Questa espressione nasce dalla consapevolezza che l’Amazzonia - così come altri biomi - è minacciata da un’ideologia che considera il territorio come un magazzino di risorse da sfruttare ad ogni costo, ignorando la vita degli esseri che lo abitano. Sulla base di questa ideologia - che preoccupa la Chiesa e molti agenti della società civile - l’estrazione di risorse forestali, minerarie ed energetiche viene illusoriamente presentata come una ricetta per risolvere “problemi economici”, “rimediare alla disoccupazione” o accelerare la “crescita economica” e il Prodotto Interno Lordo di una nazione.
Il modello di sfruttamento selvaggio che vediamo nel territorio amazzonico prende la forma di deforestazione a favore di un inefficiente allevamento del bestiame, l’irrazionale esplorazione mineraria e petrolifera, i megaprogetti per la produzione di energia insostenibile e molto altro ancora. Questi progetti, spesso faraonici e finalizzati ad aumentare le esportazioni di materie prime, ignorano la devastazione dei territori e gli impatti sociali, come lo spostamento forzato della popolazione e l’aumento della violenza e della criminalità.
In alternativa a questa prospettiva di saccheggio delle risorse, riconosciamo che l’Amazzonia è un territorio abitato e garantisce l’esistenza di molte forme di vita: è parte della creazione di Dio. Fa parte della “nostra casa comune [che] può essere paragonata a volte ad una sorella, con cui condividiamo l’esistenza, a volte ad una madre bella, che ci accoglie tra le sue braccia” (LS, n.1). Seguendo un’intuizione di Papa Francesco, la foresta amazzonica è stata definita come il “cuore biologico di una Terra sempre più minacciata” (DF, n.2) e definirla come “cuore biologico” esprime l’influenza di questo bioma sul ciclo dell’acqua del continente americano e sui movimenti del vento, il suo contributo essenziale alla regolazione del clima planetario, la ricchezza di biodiversità (1/3 del patrimonio genetico del pianeta) e la grande diversità sociale (285 popoli indigeni che parlano 240 lingue diverse) che conserva.
La Chiesa non può rimanere indifferente a tutto ciò che riguarda la vita. Siamo quindi chiamati a una “conversione ecologica”, ispirata alla proposta dell’ecologia integrale. In questo cammino di conversione è fruttuoso instaurare un dialogo di conoscenza e saggezza con altri popoli e con i poveri, cercando nuove risposte per affrontare le sfide più urgenti e per promuovere un modello di sviluppo giusto e solidale.
Quando parliamo di ecologia integrale -un concetto a cui Papa Francesco fa spesso riferimento e che spiega nell’Enciclica Laudato Si’- intendiamo il modo corretto di stabilire relazioni e di prenderci cura della Casa comune con tutti i suoi abitanti. È l’unica strada possibile per la vita. Il concetto di “ecologia integrale” ci mette nella condizione di creature che contemplano la ricchezza e la fragilità della creazione, come fece il poverello di Assisi (cfr. LS, n. 76, 85, 214). Nel considerare l’“ecologia integrale” abbiamo come principio fondamentale la ricerca del bene comune nel presente, ma anche per il futuro, perché il mondo in cui viviamo ospiterà anche le generazioni future.
La promozione del bene comune non contrappone la difesa dell’ambiente alla promozione dell’umanità, ma considera tutte le dimensioni della vita, riconoscendo che, a partire da una sana spiritualità, è necessario stabilire relazioni armoniose con il creato, coltivare stili di vita di felice sobrietà (LS, n.224), promuovere gesti quotidiani che evitino il consumismo, ma che valorizzino una serena attenzione a tutte le forme di vita. .
Per sottolineare la conversione ecologica, come cristiani possiamo accogliere l’invito contenuto nel Documento finale del Sinodo per l’Amazzonia: prendersi cura della nostra Casa comune e dei diritti dei suoi abitanti è un’esigenza di fede (DF, n.70); siamo custodi dell’opera di Dio, riconosciamo il “peccato ecologico” come un’azione contro Dio, il nostro prossimo, la comunità e l’ambiente (DF, n.82).
Il Sinodo è stato - ma continua ad essere nella sua implementazione - un “camminare insieme” e un ascoltare: sentiamo le grida che vengono dal territorio. L’Amazzonia deve essere considerata un argomento che merita di essere ascoltato. Poi, ascoltiamo altri modelli e concetti di vita buona, altri progetti che rispettano tutto il creato. Il Documento finale ci invita a “disimparare”, “imparare” e “reimparare” (DF, n.81) per mettere in discussione modelli consolidati ma problematici. Dobbiamo interrogarci sull’impatto di ogni nostra azione sui nostri fratelli, sui poveri, sugli altri, sulle generazioni future, sull’ambiente e sulle varie forme di vita. Dobbiamo chiederci se ciò che facciamo ci rende schiavi o se ci rende davvero liberi di vivere in serena sobrietà.
Per Papa Francesco, la crisi ecologica è una chiamata a una profonda conversione interiore che scuote i pii cristiani, i quali “con il pretesto di un realismo pragmatico spesso rifuggono dalla preoccupazione per l’ambiente” (LS, n. 217). La “conversione ecologica” a cui ci invita l’Enciclica Laudado Si’ implica “lasciare che tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù emergano nel nostro rapporto con il mondo circostante”, poiché “vivere la nostra vocazione di amministratori dell’opera di Dio non è qualcosa di opzionale o un aspetto secondario dell’esperienza cristiana, ma una parte essenziale di un’esistenza virtuosa” (LS, n. 217).
L’appello alla conversione ecologica diventa, nell’esortazione apostolica Querida Amazónia, la descrizione di un sogno ecologico.
Lungi dall’essere un sogno ad occhi aperti, la visione onirica di Papa Francesco immagina una Chiesa che ha a cuore la stretta relazione degli esseri umani con la natura e valorizza la “saggezza dei popoli nativi dell’Amazzonia [che] ‘ispira la cura e il rispetto per la creazione, con una chiara consapevolezza dei suoi limiti, vietandone l’abuso. Abusare della natura significa abusare dei nostri antenati, dei nostri fratelli e sorelle, della creazione e del Creatore, ipotecando il futuro’” (QA, n.42). La cura della nostra Casa Comune richiede la combinazione di saggezza ancestrale e conoscenze tecniche (QA, n.51).
Nella costruzione di questi ponti tra le conoscenze, forse i missionari che sono vicini a molti fratelli e sorelle di culture diverse possono contribuire in modo speciale. Per esempio, imparando insieme a queste persone a non considerare la natura “come qualcosa di separato da noi o come una semplice cornice per la nostra vita”. Siamo inclusi in essa, ne facciamo parte e ci compenetriamo in essa” (LS, n. 139).
Nel pensiero del Fondatore e dei primi missionari - come emerge dall’abbondante materiale relativo ai primi anni delle missioni - era chiaro che l’evangelizzazione non poteva essere dissociata dalla “formazione dell’ambiente”. Dopo alcuni anni di lavoro apostolico in Kenya, il decreto di lode della Sacra Congregazione per i Religiosi (28/12/1909) sottolineava come i missionari dell’Istituto si fossero distinti per il loro impegno nella vita del popolo (Lettere V, p. 304s). Quel decreto diede molta gioia e soddisfazione al Fondatore, che vi lesse l’approvazione del metodo missionario studiato e attuato insieme ai suoi figli. Oggi, a distanza di più di un secolo, i termini in cui viene espressa e le idee alla base di quel testo sembrano naturalmente superati, possono urtare la sensibilità e suscitare critiche legittime.
L’azione missionaria, nella sua dimensione “umanitaria” - in mezzo a critiche, crisi e maturazioni - ha adottato nuove teorie e assunto pratiche diverse. I missionari, oltre a essere “portatori” del Vangelo, sono stati considerati anche come fautori di cambiamenti nella vita dei popoli. Questa attività può essere espressa con alcune parole chiave, emblematiche della sensibilità dei diversi tempi: “civiltà”, che ha lasciato il posto alla “promozione umana”, modernizzata nell’idea di “sviluppo”, oggi troppo segnata da un’ideologia che cerca di imporre lo stesso modello globale a tutte le società.
Per assumere una posizione positiva, facendo nostre le parole di Papa Francesco, possiamo dire che, all’interno della Chiesa, anche noi diventiamo promotori di una “ecologia integrale”. Poiché non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò che riguarda la vita, siamo chiamati a una “conversione ecologica”, ispirata alla proposta dell’“ecologia integrale”.
In questo cammino di conversione, è utile instaurare un dialogo con la saggezza di altri popoli e con i poveri, cercando nuove risposte per affrontare le sfide più urgenti e promuovere un modello di vita giusto, solidale e sostenibile. Il contributo dei popoli indigeni alla cura del creato è ampiamente riconosciuto nei documenti ecclesiali redatti nel processo del Sinodo sull’Amazzonia, in cui si osserva che “la ricerca della vita in abbondanza da parte dei popoli amazzonici si concretizza in quello che essi chiamano ‘vivere bene’, che si realizza pienamente nelle Beatitudini. Si tratta di vivere in armonia con se stessi, con la natura, con gli esseri umani e con l’Essere Supremo, perché esiste un’intercomunicazione in tutto il cosmo” (DF, n.9. Cfr. LS, n.149; IL, n.49s; QA, n.42).
Benedetto colui che viene nel nome del Signore! (Gv 12,12-16)
È indescrivibile la gioia con cui è stato accolto il Sommo Pontefice papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo. Erano già passati diversi decenni dall’ultima volta che un papa aveva messo piede in questa nazione e l'ultimo era stato papa Giovanni Paolo II che questo paese l’aveva visitato nel 1985, quando si chiamava ancora Zaire. Per questo è più che comprensibile l’entusiasmo e l’aspettativa che ha circondato questa visita apostolica di papa Francesco della quale mi sembra opportuno sottolineare un prima, un durante e un poi.
PRIMA. Va ricordato che questo viaggio era inizialmente previsto per il 2-5 luglio 2022 ma poi, come conseguenza dei vari problemi di salute del Vescovo di Roma, non è stato possibile realizzarlo. L’annuncio del rinvio si è abbattuto sul paese dove tutti stavano aspettando il Santo padre come la prima pioggia dopo la siccità: questo momento si stava aspettando come un dono del cielo; per l’occasione erano anche state composte canzoni come “Congo mobimba toyambi yo” (Tutto il Congo ti dà il benvenuto); erano state create diverse commissioni per dare un'accoglienza senza precedenti al successore di Pietro. Quando finalmente il papa è arrivato la mobilitazione è stata totale, nessuno è rimasto inattivo, il paese era in fermento come il giorno dell'ingresso di Cristo a Gerusalemme.
DURANTE. Quando il Papa dei poveri è arrivato è venuto a consolare i cuori di chi per anni non ha smesso di piangere i morti, con la speranza di vedere un giorno la presenza di un buon samaritano disposto a curare le ferite di questa popolazione impoverita. Il suo messaggio, che suona come uno slogan, dice "siamo tutti riconciliati per mezzo di Gesù Cristo".
Francesco viene come Cristo con una parola di consolazione per tutti i congolesi senza fare nessuna distinzione. Anche il logo utilizzato in occasione della visita raccoglieva vari simboli: una mappa della Repubblica Democratica del Congo con i colori della bandiera nazionale il giallo, il rosso e il blu; il colore giallo indica le molteplici ricchezze che abbondano nel Paese e la natura esuberante; il rosso simboleggia il sangue versato dai suoi figli e dalle sue figlie e il blu il desiderio di pace. All'interno erano rappresentati elementi della biodiversità del Paese, una croce come segno di speranza, una palma e la presenza di esseri umani che simboleggiano la fratellanza.
Con questa insegna tutta la popolazione si è alzata come un solo uomo per accompagnare il successore di Pietro dall'aeroporto al palazzo della nazione e in quel luogo il papa Francesco ha tenuto il primo discorso alla presenza del Presidente della Repubblica, i membri del governo, il corpo diplomatico, le autorità politiche e militari e la società civile. In sostanza, il Santo Padre ha invitato tutti i congolesi a risollevarsi con coraggio e coloro che li sfruttano a smettere di farlo, perché la vera ricchezza del paese, i veri diamanti, sono le sue persone così ingiustamente castigate.
L’evento più affollato è stata la celebrazione eucaristica del primo febbraio nella quale hanno partecipato più di un milione di persone tra cattolici, protestanti e musulmani. Nell’omelia il Papa ha insistito sul perdono che deve essere il criterio per una vera riconciliazione, una riconciliazione che è poi stata invocata anche nell’incontro con le vittime delle atrocità che si sono registrate soprattutto nella parte orientale del paese.
Il 2 febbraio, Giornata mondiale della vita consacrata, il papa argentino ha voluto incontrare sacerdoti, religiosi e seminaristi: tutti sono stati invitati a non cedere alla mediocrità o alla superficialità; a cercare l’essenziale della consacrazione religiosa e quindi mettere Cristo al centro della vita per trasformarsi a sua immagine. In una cattedrale piena all’inverosimile i consacrati del Congo hanno rinnovato il loro impegno con la preghiera e la liturgia delle candele propria della festa della presentazione di Gesù al tempio.
L’incontro nello stadio dei Martiri, dedicato a giovani e catechisti, ha visto la partecipazione di più di ottanta mila persone. In questa occasione il Papa che ha esortato i giovani ad abbandonare la strada della corruzione. Per concludere l'ultimo incontro è stato dedicato ai vescovi della Conferenza Episcopale del Congo nel quale il vescovo di Roma ha invitato i pastori del Congo a imitare Cristo, il Buon Pastore che dà la vita, e a essere perseveranti nella testimonianza in ogni momento, anche quando le condizioni non possono essere più complicate.
DOPO. Le parole di Papa Francesco sono state come la pioggia che non ritorna in cielo senza avere fecondato la terra così come dice il profeta Isaia (cfr. Is 55,10). Nella sua visita apostolica ha gettato un seme nel cuore di tutti e, grazie al dono dello Spirito, osiamo credere che i frutti seguiranno. Molti hanno notato con gioia che la sua presenza è stata di conforto nelle situazioni difficili che il Paese sta attraversando; tutta l’umanità ha forse avuto occasione di capire ciò che non voleva capire e vedere ciò che non voleva vedere. Facciamo tutti, con un cuore solo, tesoro dei frutti di questa visita per un nuovo Congo.... tutti finalmente riconciliati in Cristo Gesù.
Il Cardinale Leonardo Steiner, vescovo di Manaus, è arrivato a Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima, per esprimere, a nome di Papa Francesco e della Presidenza della Conferenza Episcopale Nazionale del Brasile (CNBB), la solidarietà con il popolo Yanomami gravemente aggredito.
Il cardinale di Manaus, che era accompagnato da padre Lucio Nicoletto, amministratore diocesano di Roraima e da padre Corrado Dalmonego IMC, uno dei grandi esperti del mondo Yanomami, ha detto di essere venuto a Boa Vista "per incontrare i leader indigeni con l’intenzione di dialogare, ascoltare, essere ancora più presenti come Chiesa".
Dopo aver visitato i pazienti del Centro di Salute Indigeno Yanomami di Boa Vista, l'arcivescovo di Manaus ha ricordato che la Chiesa cattolica è sempre stata molto presente con i popoli indigeni, e “in questo momento di difficoltà vogliamo marcare questa presenza. Ho potuto costatare che davvero la situazione di malnutrizione è grande e preoccupante”.
Secondo il cardinale Steiner, "tutti conosciamo le ragioni della malnutrizione, ma nel dialogo con alcuni leader abbiamo visto che ci sono diversi elementi in cui possiamo dare il nostro contributo, il nostro aiuto. Come chiesa cattolica vogliamo mostrare la nostra solidarietà alla comunità Yanomami che è stata trascurata dal governo; loro sono figli e figlie di Dio, sono persone che vivono in regioni lontane, e sappiamo anche che questa situazione drammatica che stiamo vedendo non è nuova. Vogliamo vedere con i governi cosa possiamo fare perché questi popoli possano continuare a vivere, ma soprattutto possano vivere bene”.
Mons. Leonardo Steiner ha sottolineato il lavoro di denuncia svolto dalla Chiesa negli ultimi anni, soprattutto attraverso il Consiglio Missionario Indigeno (Cimi), che "da molto tempo denuncia, parla e pubblica rapporti” e ha informato del sostegno della Presidenza della Conferenza episcopale nazionale del Brasile e di Papa Francesco, al quale invierà un resoconto della sua visita.
Il cardinale Leonardo con padre Lucio, amministratore diocesano di Roraima.
La visita del cardinale Steiner a Boa Vista è proseguita con un incontro con i leader indigeni presso la sede del Consiglio indigeno di Roraima dove gli è stato ufficialmente consegnato il rapporto "Yanomami sotto attacco", documento ricevuto dalle autorità Brasiliane nel mese di Aprile de 2022, nel quale sono raccolte testimonianze e dati che mostrano gli effetti devastanti dell'estrazione mineraria illegale nella terra indigena Yanomami.
Le autorità indigene hanno riassunto la attuale situazione come conseguenza di tre emergenze ancora attuali: l’estrazione mineraria illegale; la malnutrizione e l’inefficienza del sistema sanitario nel territorio indigena dove imperversa una epidemia di malaria.
Secondo le organizzazioni indigene, gran parte del popolo Yanomami è spiritualmente morto a causa della distruzione della foresta che è la loro casa comune. L’estrazione mineraria illegale, ha portato 120 comunità Yanomami a una situazione di grave calamità con aggressioni di ogni genere: stupri, furti di bambini, omicidi e suicidi. Questa attività economica illegale è bagnata dal sangue di innocenti tanto nel territorio indigeno come nella città; e tutto questo sta accadendo sotto gli occhi di tutti.
La richiesta è quella di ritirare urgentemente i minatori illegali, la protezione del territorio e la tutela delle autorità indigene. Si tratta di una sfida a lungo termine che può causare molto dolore e che deve iniziare con l'identificazione e la punizione dei veri colpevoli, compresi i membri dei vari poteri e delle reti criminali che sostengono e finanziano l'attività estrattiva.
Chi parla viene minacciato e sono sempre di più i giovani Yanomami che sono coinvolti in queste attività illecite e criminali. È evidente il tentativo dei media nazionali di nascondere la realtà ma loro continueranno a difendere la vita del loro popolo.
I leader indigeni hanno ringraziato il cardinale Steiner per la sua presenza nella regione in un momento molto difficile per tutte le popolazioni indigene dello stato del Roraima; riconoscono il sostegno storico della Chiesa di Roraima e chiedono alla chiesa di continuare a camminare al fianco dei popoli indigeni della regione.
Visita al DSEI Yanomami, del Segretariato speciale per la salute indigena.
Oggi abbiamo l’occasione di ringraziare insieme il Signore per il Sermig, che è una specie di grande albero cresciuto a partire da un piccolo seme. Così sono le realtà del Regno di Dio. Il piccolo seme il Signore l’ha gettato a Torino all’inizio degli anni Sessanta. Un tempo molto fecondo, basta pensare al Pontificato di San Giovanni XXIII e al Concilio Vaticano II. In quegli anni sono germogliate nella Chiesa diverse esperienze di servizio e di vita comunitaria, a partire dal Vangelo. E là dove c’è stata una continuità, grazie ad alcune vocazioni che hanno ricevuto risposte generose e fedeli, queste esperienze si sono strutturate e sono cresciute cercando di corrispondere ai segni dei tempi.
Il Sermig, Servizio Missionario Giovani, è una di queste. È nato a Torino da un gruppo di giovani; ma sarebbe meglio dire: da un gruppo di giovani insieme al Signore Gesù. Del resto, Lui lo disse chiaramente ai suoi discepoli: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). Dai frutti si vede chiaramente che al Sermig non si è fatto mero attivismo, ma si è lasciato spazio a Lui: a Lui pregato, a Lui adorato, a Lui riconosciuto nei piccoli e nei poveri, a Lui accolto negli emarginati. Sempre Lui, guardando Lui.
Nella storia del Sermig ci sono tanti avvenimenti, tanti gesti che si possono leggere come piccoli e grandi segni di Vangelo vivo. Ma tra tutti questi ce n’è uno che, in questo momento storico, risalta con una forza straordinaria. Mi riferisco alla trasformazione dell’Arsenale Militare di Torino nell’Arsenale della Pace. Questo è un fatto che parla da solo. È un messaggio, purtroppo drammaticamente attuale, che si deve ripetere continuamente.
Anche qui, dobbiamo stare attenti a non “uscire di strada”. L’Arsenale della Pace –come le altre realizzazioni del Sermig, e in generale tutte le opere delle comunità cristiane– è un segno del Vangelo non tanto per i numeri che quantificano l’operazione. Non bisogna fermarsi a questo. L’Arsenale della Pace è frutto del sogno di Dio, potremmo dire della potenza della Parola di Dio. Quella potenza che sentiamo quando ascoltiamo la profezia di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, / delle loro lance faranno falci; / una nazione non alzerà più la spada / contro un’altra nazione, / non impareranno più l’arte della guerra» (2,4). Ecco il sogno di Dio che lo Spirito Santo porta avanti nella storia attraverso il suo popolo fedele. Così è stato anche per voi: attraverso la fede e la buona volontà di Ernesto, di sua moglie e del primo gruppo del Sermig è diventato il sogno di tanti giovani. Un sogno che ha mosso braccia e gambe, ha animato i progetti, le azioni e si è concretizzato nella conversione di un arsenale di armi in un arsenale di pace.
E che cosa si “fabbrica” nell’Arsenale della Pace? Che cosa si costruisce? Si fabbricano artigianalmente le armi della pace, che sono l’incontro, il dialogo, l’accoglienza. E in che modo si fabbricano? Attraverso l’esperienza: nell’Arsenale i giovani possono imparare concretamente a incontrare, a dialogare, ad accogliere. Questa è la strada, perché il mondo cambia nella misura in cui noi cambiamo. Mentre i signori della guerra costringono tanti giovani a combattere i loro fratelli e sorelle, ci vogliono luoghi in cui si possa sperimentare la fraternità. Ecco la parola: fraternità. Infatti il Sermig si chiama “fraternità della speranza”. Ma si può dire anche l’inverso, cioè “la speranza della fraternità”. Il sogno che anima i cuori degli amici del Sermig è la speranza di un mondo fraterno. È il “sogno” che ho voluto rilanciare nella Chiesa e nel mondo attraverso l’Enciclica Fratelli tutti (cfr n. 8). Voi condividete già questo sogno, anzi, ne fate parte, contribuite a dargli carne, a dargli mani, occhi, gambe, a dargli vita. Di questo voglio rendere grazie a Dio con voi, perché questa è un’opera che non si può fare senza Dio. Perché la guerra si può fare senza Dio, ma la pace si fa solo con Lui.
Cari amici del Sermig, non stancatevi mai di costruire l’Arsenale della Pace! Anche se l’opera può sembrare conclusa, in realtà si tratta di un cantiere sempre aperto. Questo voi lo sapete bene, e infatti in questi anni avete dato vita all’Arsenale della Speranza a San Paolo del Brasile, all’Arsenale dell’Incontro a Madaba in Giordania, all’Arsenale dell’Armonia a Pecetto Torinese. Ma tutte queste realtà: la pace, la speranza, l’incontro, l’armonia, si costruiscono solo con lo Spirito Santo, lo Spirito di Dio. È Lui che crea la pace, la speranza, l’incontro, l’armonia. E i cantieri vanno avanti se chi ci lavora si lascia lavorare dentro dallo Spirito. Voi mi direte: e chi non crede?, e chi non è cristiano? Questo a noi può sembrare un problema, ma certo non lo è per Dio. Lui, il suo Spirito, parla al cuore di chiunque sappia ascoltare. Ogni uomo e donna di buona volontà può lavorare negli Arsenali della pace, della speranza, dell’incontro e dell’armonia.
Tuttavia, ci vuole qualcuno che abbia il cuore ben radicato nel Vangelo. Ci vuole una comunità di fede e di preghiera che tiene acceso il fuoco per tutti. Quel fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra e che ormai arde per sempre (cfr Lc 12,49). E qui si vede anche il senso di una comunità di persone che abbracciano integralmente la vocazione e la missione della fraternità e la portano avanti in maniera stabile.
Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio tanto per questo incontro, e soprattutto per la vostra testimonianza e il vostro impegno. Andate avanti! La Madonna vi custodisca e vi accompagni. Vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.
Discorso di papa Francesco ai membri del Servizio Missionario Giovani (Sermig), 7 gennaio 2023
Cari fratelli e sorelle!
Il senso ultimo del nostro “viaggio” in questo mondo è la ricerca della vera patria, il Regno di Dio inaugurato da Gesù Cristo, che troverà la sua piena realizzazione quando Lui tornerà nella gloria. Il suo Regno non è ancora compiuto, ma è già presente in coloro che hanno accolto la salvezza. La città futura è una «città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,10). Il suo progetto prevede un’intensa opera di costruzione nella quale tutti dobbiamo sentirci coinvolti in prima persona. Si tratta di un meticoloso lavoro di conversione personale e di trasformazione della realtà, per corrispondere sempre di più al piano divino. I drammi della storia ci ricordano quanto sia ancora lontano il raggiungimento della nostra meta, la Nuova Gerusalemme, «dimora di Dio con gli uomini» (Ap 21,3).
«Noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pt 3,13). La giustizia è uno degli elementi costitutivi del Regno di Dio. Nella ricerca quotidiana della sua volontà, essa va edificata con pazienza, sacrificio e determinazione, affinché tutti coloro che ne hanno fame e sete siano saziati (cfr Mt 5,6). La giustizia del Regno va compresa come la realizzazione dell’ordine divino, del suo armonioso disegno, dove, in Cristo morto e risorto, tutto il creato torna ad essere “cosa buona” e l’umanità “cosa molto buona” (cfr Gen 1,1-31). Ma perché regni questa meravigliosa armonia, bisogna accogliere la salvezza di Cristo, il suo Vangelo d’amore, perché siano eliminate le disuguaglianze e le discriminazioni del mondo presente.
Nessuno dev’essere escluso. Il suo progetto è essenzialmente inclusivo e mette al centro gli abitanti delle periferie esistenziali. Tra questi ci sono molti migranti e rifugiati, sfollati e vittime della tratta. La costruzione del Regno di Dio è con loro, perché senza di loro non sarebbe il Regno che Dio vuole. L’inclusione delle persone più vulnerabili è condizione necessaria per ottenervi piena cittadinanza.
Costruire il futuro con i migranti e i rifugiati significa anche riconoscere e valorizzare quanto ciascuno di loro può apportare al processo di costruzione. Mi piace cogliere questo approccio al fenomeno migratorio in una visione profetica di Isaia, nella quale gli stranieri non figurano come invasori e distruttori, ma come lavoratori volenterosi che ricostruiscono le mura della nuova Gerusalemme, la Gerusalemme aperta a tutte le genti (cfr Is 60,10-11).
La storia ci insegna che il contributo dei migranti e dei rifugiati è stato fondamentale per la crescita sociale ed economica delle nostre società. E lo è anche oggi. Il loro lavoro, la loro capacità di sacrificio, la loro giovinezza e il loro entusiasmo arricchiscono le comunità che li accolgono Ma questo contributo potrebbe essere assai più grande se valorizzato e sostenuto attraverso programmi mirati. Si tratta di un potenziale enorme, pronto ad esprimersi, se solo gliene viene offerta la possibilità.
La presenza di migranti e rifugiati rappresenta una grande sfida ma anche un’opportunità di crescita culturale e spirituale per tutti. Grazie a loro abbiamo la possibilità di conoscere meglio il mondo e la bellezza della sua diversità. Possiamo maturare in umanità e costruire insieme un “noi” più grande. Nella disponibilità reciproca si generano spazi di fecondo confronto tra visioni e tradizioni diverse, che aprono la mente a prospettive nuove. Scopriamo anche la ricchezza contenuta in religioni e spiritualità a noi sconosciute, e questo ci stimola ad approfondire le nostre proprie convinzioni.
In questa prospettiva, l’arrivo di migranti e rifugiati cattolici offre energia nuova alla vita ecclesiale delle comunità che li accolgono. Essi sono spesso portatori di dinamiche rivitalizzanti e animatori di celebrazioni vibranti. La condivisione di espressioni di fede e devozioni diverse rappresenta un’occasione privilegiata per vivere più pienamente la cattolicità del Popolo di Dio.
Cari fratelli e sorelle, e specialmente voi, giovani! Se vogliamo cooperare con il nostro Padre celeste nel costruire il futuro, facciamolo insieme con i nostri fratelli e le nostre sorelle migranti e rifugiati. Costruiamolo oggi! Perché il futuro comincia oggi e comincia da ciascuno di noi. Non possiamo lasciare alle prossime generazioni la responsabilità di decisioni che è necessario prendere adesso, perché il progetto di Dio sul mondo possa realizzarsi e venga il suo Regno di giustizia, di fraternità e di pace.