“Muovemmo i primi passi nella missione in Mongolia con una certa emozione e anche commozione. Il 10 luglio del 1992 entrammo in punta di piedi in un Paese sconosciuto, forti solo della compagnia di Cristo Gesù, che invocavamo a ogni nostro passo del nostro cammino”. Il racconto di padre Gilbert Sales, oggi sessantenne sacerdote e missionario filippino della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) – anche definita dei “missionari di Scheut”, dal nome della località belga dove fu avviata – ritorna agli esordi della presenza cattolica che riprese agli inizi degli anni ’90, e che l’imminente visita apostolica di Papa Francesco nel vasto Paese dell’Asia centrale (1-4 settembre) vede, in trent’anni, cresciuta fino a 1.500 battezzati, e consolidata con parrocchie, scuole, opere educative e sociali.
Il missionario racconta all’Agenzia Fides il “nuovo inizio” della presenza cristiana in Mongolia: “Ci sentivamo come alieni, in una terra in cui non conoscevamo né la lingua, nè alcuna persona. Ma la fede non ci è mai mancata. Eravamo certi della presenza di Gesù tra noi e abbiamo sempre confidato che tutto sarebbe andato per il meglio: il Signore avrebbe aperto le porte cui bussavamo e ci avrebbe condotto per mano in quella steppa fredda e sterminata che vedevamo attorno a noi. Il Signore mi aveva condotto lì, come dice al Profeta, con due confratelli. Oggi posso testimoniare che davvero Dio ha aperto tutte le porte, ci ha donato la sua grazia e il suo amore che è stato fecondo in terra mongola e ha fatto rinascere la Chiesa”.
Il cristianesimo, nella sua versione nestoriana, giunse in Asia centrale, Mongolia e Cina già nel VII secolo ed ebbe una significativa influenza tra i mongoli nel corso del medioevo. Dopo scossoni e varie vicende storico-politiche, nell’epoca del comunismo di matrice sovietica, era sparita ogni esperienza di fede cristiana, e nel Paese non c’erano chiese né fedeli. “Arrivare lì e seminare nuovamente il Vangelo, con semplicità, pazienza e carità, è stato un momento straordinario, una esperienza che resterà nel mio cuore per sempre”, dice oggi il missionario filippino. Con padre Gilbert Sales, gli altri due pionieri erano i confratelli del Cicm Robert Goessens, belga, e l’altro missionario filippino Wenceslao Padilla, che diverrà poi il primo Prefetto apostolico della Mongolia, deceduto nel 2018.
La presenza dei tre missionari che nel 1992 giunsero in Mongolia era il primo passo di quelle che essi stessi chiamarono “una rinascita”. Il contesto politico internazionale era mutato, con la caduta del muro di Berlino, e il nuovo governo di Ulaanbaatar mostrò il desiderio di riallacciare i rapporti con la Santa Sede, che si disse disposta a instaurare relazioni diplomatiche, con l’accordo contestuale di poter inviare missionari nel Paese. “Quando la Santa Sede manifestò la volontà di avviare una missione in Mongolia, rispondemmo con entusiasmo: ci sembrò una nuova opportunità e una nuova chiamata di Dio: infatti già nei primi anni del ‘900 i missionari Cicm intendevano aprire una comunità in Mongolia”, progetto poi abbandonato a causa della guerra. “Allora trentenne, ero appena stato ordinato sacerdote e diedi la mia disponibilità non senza alcuni timori, ma confidando nel Signore Gesù. Lui mi chiamava a una missione speciale”, ricorda padre Gilbert.
Scelti i tre missionari per avviare la comunità, dopo un periodo di conoscenza reciproca e di formazione a Taiwan, i tre pionieri partirono per l’avventura missionaria alla volta di Ulaanbaatar tra speranze e incognite che segnano ogni nuova opera.
“Per farci coraggio, ogni giorno leggevamo il passo evangelico in cui Gesù dice ‘Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono con loro’. Ci aiutava a farci forza, a essere certi, in ogni momento, della sua Provvidenza”, riferisce. “Va detto che ricevemmo la massima assistenza e cortesia dal governo mongolo. Vennero perfino ad accoglierci all’aeroporto con tutti gli onori. Grazie all’aiuto e alla mediazione di un funzionario che parlava francese (comunicare era una sfida), riuscimmo ad affittare un piccolo appartamento dove ci stabilimmo”.
Il primo passo per inserirsi nel Paese, come avviene per ogni opera missionaria, fu studiare la lingua locale, “un idioma ostico fato di suoni non facili da pronunciare. Sorridevamo provando a emulare quei suoni, ma non ci arrendevamo”, ricorda. I missionari si tuffano nello studio della lingua mongola, frequentando l’Università nella capitale e intanto, gradualmente, tramite solo il passaparola, si sparge la voce della loro presenza e della possibilità di celebrare i Sacramenti propri della fede cattolica nel Paese.
“Celebravamo la messa in una stanza della casa, adibita a cappella. Iniziarono a frequentarla alcuni ambasciatori di fede cattolica e alcuni membri del personale delle ambasciate occidentali, che portarono con loro alcune persone locali, incuriosite. Fu quella la prima forma di evangelizzazione, una missione eucaristica: Gesù si dona all’umanità e offriva se stesso anche ai mongoli”, nota p. Sales. La missione procedeva grazie a contatti informali e a chi rispondeva all’invito “vieni e vedi”. “Accoglievamo tutti con il sorriso e con tanta gioia. La gente veniva a parlarci chiedendoci della ragione della nostra fede, e facendo più domande proprio su Gesù. Vedevamo i primi mongoli partecipare alla messa. Non ci è mai mancata la fiducia in Dio, che ogni giorno ci manifestava il suo amore e agiva toccando i cuori”, rimarca il missionario.
I tre missionari cominciano lentamente a inserirsi in un contesto del tutto nuovo, ad avere le prime relazioni umane e instaurare legami di amicizia con persone locali, ma anche a stabilire contatti con le istituzioni civili, sociali e culturali. Mettono a disposizione le loro competenze e risorse e padre Gilbert Sales ben presto, se da un lato è studente di lingua mongola, dall’altro tiene un corso di lingua inglese all’Università, insegnando a giovani mongoli.
In questa cornice nasceranno le prime opere sociali avviate dalla piccola comunità cattolica. Prosegue p. Gilbert: “Vedevo molti ragazzi per le strade, da soli. I colleghi di Università mi spiegarono che erano i ragazzi di strada di Ulaanbaatar, che vivevano di espedienti e, nella stagione fredda (con temperature di 40 gradi sotto zero), si rifugiavano nelle fogne, dove passano i condotti del riscaldamento”. Gilbert volle andare a scovarli proprio in quelle loro grigie e maleodoranti dimore di cemento, trovandovi annidati ragazzi tra gli 8 e i 15 anni, “alcolizzati, violenti, malati e vulnerabili, in situazione di promiscuità sessuale”. “Mi feci forza – racconta – il cuore mi scoppiava di compassione verso quei piccoli, dei rifiuti umani. Tornai a trovarli portando con me del cibo. Tornai ancora diverse volte e ogni volta era un momento più bello. Intravidi perfino qualche accenno di un sorriso”. Il missionario, con gesti gratuiti di tenerezza e gentilezza “del tutto sconosciuti a quei ragazzi, maltrattati e disprezzati dalla società”, guadagna pian piano la loro fiducia e cerca di strapparli a quella vita da scarti umani.
Così prende forma la prima iniziativa socio-caritativa dei nuovi missionari: un centro per bambini di strada che, governato da padre Sales, fu avviato nel pianterreno di un edificio della capitale. E’ il “Verbist Care Center”, che aprirà ufficialmente i battenti come struttura assistenziale nel 1995. “Quei bambini iniziarono ad accogliere la nostra proposta di cambiare vita. Donammo loro cure, attenzioni, amore. Venivano da situazioni familiari segnate da alcolismo e violenza. Con noi cominciavano a recuperare la dimensione di piccoli indifesi e bisognosi di affetto”. Il Centro si attrezzò per fornire vitto, alloggio, cure mediche e un percorso scolastico che li conduceva a reinserirsi nella società. “Molti di quei ragazzi ora hanno completato gli studi universitari, lavorano stabilmente, sono padri di famiglia. Sono ancora in contatto con alcuni. Sono eternamente grati per quell’aiuto che fu per loro una svolta nella vita. Dico loro sempre di rendere insieme lode a Dio”, racconta p. Sales.
La testimonianza evangelica dei missionari attrae i cittadini mongoli: “Iniziammo a celebrare i primi battesimi. Ricordo ancora la commozione del primo battezzato, un ragazzo mongolo adottato da una coppia di cittadini inglesi cui venne dato il nome di Pietro. Cantammo insieme il magnificat: era un’opera di Dio che si compiva. Nei primi anni si formò così una comunità di una trentina di cattolici mongoli. Era davvero una piccola comunità di discepoli, con un tratto che ci distingueva: la gioia, la gioia di essere amati, salvati da Cristo e di portare il suo amore al prossimo”, ricorda.
Pian piano, grazie al sostegno della Santa Sede e di benefattori da tutto il mondo, la piccola Chiesa in Mongolia si arricchisce di opere ed esperienze pastorali e sociali, con la presenza di nuove comunità di religiosi e suore. “Wenceslao Padilla, che era il responsabile della missione, ebbe sin da subito uno sguardo universale e volle chiamare congregazioni da tutto il mondo, ognuna con il suo carisma, per contribuire alla missione nello sconfinato paese dell’Asia centrale. Molti ordini religiosi risposero positivamente e cominciarono così a giungere nuovi missionari, religiosi e suore dall’Asia, dall’Africa, dall’Europa e dall’America Latina che aiutarono a creare parrocchie, scuole tecniche, orfanotrofi, case per anziani, cliniche, rifugi per la violenza domestica e asili nido, spesso costituiti in periferie in cui mancavano i servizi di base, beneficiando soprattutto persone povere e famiglie indigenti”.
La missione compie passi avanti. “In una decina d’anni venne creato un Centro pastorale cattolico e poi fu costruita la prima chiesa, che è oggi la cattedrale di Ulaanbaatar, consacrata nel 2002. Il nostro vescovo Padilla (dal 2002 Prefetto apostolico) diceva che era necessario avere una struttura e una chiesa per dare al Paese, alle autorità civili e alla popolazione, l’idea di una presenza stabile e per dire: siamo qui in Mongolia e vogliamo restare, non siamo precari o passeggeri, vogliamo stare accanto a voi per sempre, come l’amore di Dio che non abbandona mai”, prosegue.
Fiorirà, poi, la prima vocazione al sacerdozio di un giovane mongolo e, nel frattempo, si organizza e si consolida l’opera di catechisti e volontari, si aprono parrocchie. Padre Gilbert Sales lascia la Mongolia nel 2005 – chiamato dalla sua congregazione un altro servizio, nelle Filippine – quando la comunità dei cattolici mongoli conta oltre 300 persone e la missione si va espandendo anche oltre la capitale Ulaanbaatar. Ora, in occasione della visita di Papa Francesco, torna nel Paese, con viva gratitudine. Potrà incontrare e riabbracciare tanti dei fedeli mongoli che lo ricordano con affetto. Alla comunità dove ha lasciato un pezzo del suo cuore dirà: “Andate avanti con pazienza. Lo Spirito soffia quando e dove e vuole e porta frutto. Lasciate spazio alla grazia di Dio perché possa guidare i vostri passi. Il Signore ha fatto e farà grandi cose: cantiamo insieme il magnificat”.
«Guardate a Lui e sarete raggianti». Il versetto del Salmo 34 è stato scelto come motto episcopale dal Vescovo Giorgio Marengo, missionario della Consolata e Prefetto apostolico di Ulaanbaatar, creato Cardinale da Papa Francesco nel Concistoro del 27 agosto agosto 2022. Guardando le immagini e ascoltando le parole del secondo video-reportage prodotto per l’Agenzia Fides da Teresa Tseng Kuang yi in vista del viaggio di Papa Francesco in Mongolia (1-4 settembre), il versetto-motto sembra cogliere la cifra intima della vita e dell’avventura missionaria di padre Marengo in Mongolia. Un’avventura in cui le gioie prevalgono in sovrabbondanza sulle fatiche, sulle difficoltà e sullo spettacolo delle proprie povertà. «Io –confessa il Prefetto di Ulaanbaatar fin dai primi passaggi del video– sono grato che il Signore abbia voluto mandarmi qui».
La «gioia più bella» è l’aver contemplato l’operare della grazia nel tempo, l’aver visto come «al di là di tutte le nostre difficoltà e le nostre povertà, il Signore si apriva la strada nel cuore di queste persone, che poi hanno deciso di affidarsi a lui». Il contemplare come poi «il Signore guidava la vita di queste persone, in maniera misteriosa e molto personalizzata. Questa è sicuramente la gioia più bella, accompagnare le persone nel loro cammino di fede».
Nel video-reportage scorrono ricordi e immagini degli inizi: il primo volo preso a 27 anni da Seul per raggiungere Ulaanbaatar («Sentimmo parlare le hostess in mongolo. Dicevo: chissà se un giorno riusciremo anche noi a imparare questa lingua»), la prima messa “pubblica” celebrata in una Ger, la tradizionale tenda mongola («Quello, me lo ricordo come un momento molto, molto bello»).
Il Cardinale Marengo accenna anche alle difficoltà e alle fatiche fatte per entrare nella lingua e nella cultura mongola, con la sua «matrice nomadica» così diversa dalle culture europee «sedentarie», e che si riflette anche nel modo di concepire le abitazioni e nella concezione del tempo: per una cultura nomadica «tutto dev'essere trasportabile, leggero e provvisorio», mentre nelle culture sedentarie c’è sempre la tendenza a «costruire cose che rimangono nel tempo».
Con la chiamata a far parte del Collegio dei Cardinali, padre Marengo fa notare che la sua esperienza di pastore di una piccola comunità ecclesiale locale «si allarga anche un po’ all'universalità della Chiesa, per offrire alla Chiesa universale quello che l'esperienza di una Chiesa missionaria così piccola e così nuova può avere». Il Cardinale missionario parla di un «doppio movimento», con il quale «la particolarità di questa Chiesa» viene vissuta «dentro l'universalità della Chiesa cattolica tutta». Il Cardinale coglie anche la convenienza di favorire uno «scambio» propizio tra «la freschezza della fede in un contesto come quello mongolo»e «la ricchezza della tradizione ecclesiale che ci arriva da Chiese con più lunga esperienza».
Questa è l’occasione propizia che si affaccia sull’orizzonte del prossimo viaggio di Papa Francesco in Mongolia: suggerire a tutti che ogni Chiesa è sempre Chiesa nascente, dipendente in ogni suo passo dalla grazia di Cristo, e non si “costruisce” per forza propria, anche nei posti in cui si sono alzate cattedrali grandiose e sono sorti Imperi cristiani; ogni Chiesa è “pellegrina” sulla scena di questo mondo, «la cui figura passa» (Paolo VI); ogni Chiesa è nomade, come le genti della Mongolia con le loro tende, sempre in cammino verso il compimento dei tempi.
* Gianni Valente. Agenzia Fides 25 luglio 2023
Con bandiere in mano, canti e balli, migliaia di pellegrini si sono riuniti nel parco Eduardo VII di Lisbona per accogliere il Santo Padre. Il Papa è arrivato alle 16.15 e ha presieduto la cerimonia di benvenuto della Giornata Mondiale della Gioventù (GMG). I giovani si muovevano su e giù per ottenere un posto strategico che permettesse loro di vedere bene il Papa.
"Non siete qui per errore –ha detto ai pellegrini– voi laggiù, tutti noi, siamo stati chiamati per nome". E poi ha insistito: "Tutti sono benvenuti nella Chiesa; se necessario dobbiamo fare spazio, anche per coloro che sbagliano, che cadono o che fanno fatica".
Emma Bruno, una giovane proveniente dalla casa del Missionari della Consolata di Bevera (Lc) e che abbiamo intervistato ci ha detto che “questa GMG è stata buona, piena di nutrimento spirituale e di incoraggiamento dal Santo Padre per tutti i giovani del mondo. Ha anche ricordato che ha potuto partecipare nella GMG grazie ai Missionari della Consolata e ringraziato per il buon lavoro che stanno svolgendo accompagnando i giovani delle diverse aree in cui sono presenti. "I giovani devono essere pronti a dedicare la loro vita a Dio, servendo e dedicandosi al servizio di Dio".
In questo Giorno, sempre nel parco Eduardo VII, il Papa Francesco ha presieduto la Via Crucis con i giovani pellegrini. Durante la Via Crucis ha ricordato che Gesù intraprende questo cammino per noi, per dare la sua vita a noi. “ E nessuno ha un amore più grande di colui che dà la sua vita per gli altri: non dimentichiamoci questo, e questo ce lo ha insegnato Gesù. Per questo, quando guardiamo il Crocifisso, una cosa così dura e piena di dolore, vediamo la bellezza che Gesù dà alla vita di ciascuno di noi”.
Il Santo Padre ha poi posto una domanda ai giovani della GMG: “Io piango qualche volta? Ci sono cose nella vita che mi fanno piangere?” e rispondendo ha detto: “Tutti nella vita abbiamo pianto e ancora piangiamo, e Gesù piange con noi, perché lui ci accompagna nell’oscurità che c'è con il pianto. Ma non dimentichiamo che con la sua tenerezza asciuga le nostre lacrime nascoste; colma la solitudine con la sua vicinanza e anche le nostre paure”.
“Amare è un rischio, e vale la pena correrlo, e lui ci accompagna sempre, è sempre vicino a noi in ogni tappa della vita”. Quindi, l’invito a riflettere sulle proprie sofferenze, ansie e miserie che incutono paura: “vincerla in modo che l’anima torni a sorridere”.
Continuiamo a pregare per voi come voi pregate per noi.
La Chiesa celebra oggi, 29 giugno, la Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. In Italia la festa di San Pietro è stata celebrata fin dai primi secoli della formazione dell'Europa cristiana. Nella città di Roma è giorno festivo e festa patronale e Papa Francesco presiede la Messa nella Basilica Vaticana e nella preghiera dell’Angelus ha ricordato le figure così umane e così credenti di questi due apostoli: “in loro appare che è Dio a renderci forti con la sua grazia, a unirci con la sua carità e a perdonarci con la sua misericordia. Ed è con questa umanità vera che lo Spirito forma la Chiesa. Pietro e Paolo sono state persone vere, e noi, oggi più che mai, abbiamo bisogno di persone vere. C’è in noi l’ardore, lo zelo, la passione per il Signore e per il Vangelo, o è qualcosa che si sgretola facilmente? E poi, siamo pietre, non d’inciampo ma di costruzione per la Chiesa? Lavoriamo per l’unità, ci interessiamo degli altri, specialmente dei più deboli?”
Durante la messa, 32 nuovi arcivescovi del mondo hanno ricevuto dal Papa il Palio, una stola bianca ornata da sei croci e tre chiodi, simbolo della Passione. Realizzato dalle monache benedettine del Monastero di Santa Cecilia, a Roma, con lana di pecora, il Palio è simbolo di comunione e fedeltà con il successore di Pietro. L'Arcivescovo è il Buon Pastore che porta sulle sue spalle le pecore a lui affidate, specialmente le più bisognose.
Con questa solennità la Chiesa ritorna alle radici della sua fede. Le spoglie mortali di Pietro e Paolo, due martiri, riposano nelle due Basiliche, San Paolo fuori le Mura e San Pietro, che racchiude un vasto cimitero sotterraneo, posto sotto l'altare della Basilica a lui dedicata a Roma.
Ciascuno con il proprio contributo, i due Apostoli formarono le prime Comunità di Seguaci di Gesù. Paolo è passato da persecutore ad ardente difensore di Gesù. Un appassionato della missione. Sono sue le espressioni “guai a me se non evangelizzassi!” (1 Cor 9,16) o "non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me" (Gal 2,20). A causa del Vangelo, morì decapitato.
Pietro, da uomo pauroso che era, con la grazia di Gesù è diventato la prima pietra della comunità cristiana. Lui che aveva rinnegato Gesù, dopo averlo incontrato risorto, annuncia senza timore, il nome e la causa di Gesù, chi lo ha ucciso e perché. Come il Maestro, anche Pietro ha concluso la sua vita crocifisso. Lui si chiamava Simone e non era nessuna "roccia". Fu Gesù a dargli il soprannome di Cefa o Pietra, che in seguito divenne Pietro. Questo Pietro, così debole e così umano, come noi, si è trasformato in roccia perché Gesù ha pregato per lui e ha detto: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). È così che Pietro è diventato il nostro primo Papa.
Oggi, a capo della Chiesa abbiamo la guida di Francesco, (il 266° Papa dopo Pietro) un “fratello argentino” che, quando inaugurò il suo pontificato nel 2013, disse di sognare una Chiesa povera per i poveri, una Chiesa in cammino missionario verso le periferie geografiche ed esistenziali, una Chiesa che non ha paura di toccare le ferite, come in un ospedale da campo, per poter andare incontro a tutti e offrire la misericordia di Dio.
Seguendo gli Apostoli della prima ora, Papa Francesco comunica la gioia del Vangelo che ci riempie di speranza e ci incoraggia a lottare per i nostri diritti; prendendoci cura responsabilmente della nostra Casa Comune e di ciascuno di noi stessi.
Nei momenti più difficili che l'umanità ha dovuto affrontare, come la pandemia di Covid-19 e la “terza guerra mondiale a pezzi” degli ultimi anni, le parole, i gesti e le preghiere di Francesco sono sempre stati fondamentali per ricordare l'essenziale del Crocifisso davanti al messaggio evangelico per tutta l'umanità.
Francesco sa che solo Cristo edifica la Chiesa. Per questo propone l'incontro con Gesù, che può rinnovare la nostra vita. Cristo può anche rompere gli schemi che ci vincolano, che sono ostacoli alle riforme della Chiesa di Pietro e per cambiare nel mondo ciò che va cambiato: razzismo, esclusione, discriminazione, xenofobia (avversione per stranieri e migranti), omofobia, fondamentalismo, degrado del Pianeta, disprezzo per i poveri, odio per i popoli indigeni, neri e i poveri delle periferie...
La nostra fede cristiana oggi è la stessa di Pietro e Paolo: seguire Gesù Cristo. Per questo celebrare questi Apostoli è anche fare memoria della nostra storia di fede, valorizzare le nostre radici e le origini della nostra comunità. Nonostante le difficoltà, questo ci riempie di coraggio e di fiducia per rimanere, con Pietro e Paolo, saldi nell'opera che Gesù ci ha affidato nella sua Chiesa.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, missionario della Consolata residente a Roma.
Non è mancato, nel corso dedicato ai missionari con 50 anni di ordinazione, una vista breve ma intensa alla città di Assisi. Molti di noi ci erano già stati, alcuni in anni davvero remoti, ma avvicinarci alla spiritualità di San Francesco, nei tempi di Papa Francesco, è comunque una esperienza che vale la pena. Poi per noi missionari Assisi quest’anno ha anche un altro attrattivo: la figura del giovane Carlo Acutis, beatificato dal papa in ottobre del 2020, stroncato da una leucemia poco più che adolescente ma innamorato di mezzi di comunicazione e dell’eucaristia… la sua personle “autostrada al cielo”.
Quest’anno è lui il nostro protettore ufficiale ed è sepolto nella chiesa della spogliazione, situata nei pressi della casa di Pietro da Bernardone, il papà di San Francesco al quale, in presenza del vescovo, Francesco restituì i suoi vestiti come segno della perfetta povertà che voleva vestire da quel momento in poi.
La visita ad Assisi ci ha permesso di vedere alcuni dei luoghi di culto francescani importanti: la Porziuncola dove Francesco comprese la sua vocazione, fondò la sua prima comunità francescana e a soli 36 anni lascio questa terra; la splendida basilica di San Francesco, ai margini del contro storico di Assisi, dove si conserva il suo luogo di sepoltura e dove la sua persona e la sua prodigiosa storia ha ispirato uno dei luoghi d’arte più belli di Italia… ma che non si poteva fotografare… peccato!
Poi alla fine del nostro cammino di formazione abbiamo avuto la fortuna di poter scambiare due parole con papa Francesco. Da Francesco a Francesco. L’occasione è stata in occasione di una delle tradizionali udienze del mercoledì, celebrata sul sagrato di Piazza San Pietro, in una splendida giornata di sole seppur ancora freddina.
Ci siamo dovuti alzare presto perché tutti devono passare attraverso i controlli di sicurezza ma avevamo un biglietto speciale che ci ha portato dietro l’altare, al centro del sagrato antistante il portico di accesso alla basilica, dal quale è stata fatta l’udienza del papa. Alla fine, quando si ritirava da quel luogo verso la casa di santa Marta, sua residenza, è passato davanti a noi e con noi si è lasciato fotografare. Ci ha raccomandato di pregare per lui, come fa sempre… e quando noi abbiamo detto che lo facciamo tutti i giorni… con una simpatica battuta ha aggiunto “pero fatelo a mio favore e non in contro”. Effettivamente non mancano, e sono visibili e vociferanti, tante voci di opposizione al suo pontificato. Non sarà forse un segno eloquente della sua profezia?