Veglia Pasquale nella Notte Santa
Tutte le letture si concludono con il Vangelo della Resurrezione Luca 24, 1-12
Nel silenzio di questa notte, nel silenzio che avvolge il Sabato Santo, toccati dall’amore senza limiti di Dio, viviamo nella speranza dell’alba del terzo giorno, l’alba della vittoria dell’amore di Dio, l’alba luminosa che permette agli occhi del nostro cuore di vedere in una luce nuova la nostra vita, le sue difficoltà e le sue sofferenze. Se i nostri fallimenti e le nostre amarezze sembravano segnare la fine di tutto, oggi invece sono illuminati dalla speranza. Il gesto d’amore sulla Croce è confermato dal Padre e la luce abbagliante della risurrezione avvolge e trasforma ogni cosa: dal tradimento può nascere l’amicizia, dal rinnegamento il perdono, dall’odio l’amore.
Se la nostra lunga Liturgia della Parola di stasera è iniziata con il racconto della Genesi, si conclude con la proclamazione della risurrezione, tratta dal racconto della Buona Novella di Luca. In questo testo finale ritroviamo alcuni elementi presenti nel racconto della Genesi con cui abbiamo iniziato: c'è il vuoto e l'oscurità della tomba; c'è un forte elemento di confusione che vediamo in coloro che arrivarono alla tomba e la trovarono vuota; c’è anche quel senso di meraviglia e stupore, che vediamo nella figura di Pietro di ritorno dalla tomba, che si nota chiaramente nel primo racconto della creazione.
Vale la pena che anche noi, in questa notte di Pasqua, ci poniamo qualche domanda: Come ci sentiamo nel profondo, mentre ascoltiamo la Parola di Dio e contempliamo il grande evento pasquale? Quale è il nostro luogo questa sera? Forse alcuni possano star vivendo nella loro vita un momento di vuoto e oscurità; forse altri si sentiranno un po' persi e confusi, e magari troveranno difficile comprendere il significato della vita e persino le vie di Dio. E poi che dire degli elementi di meraviglia e stupore che si trovano nel racconto della Genesi e nel racconto della Resurrezione di Luca? Fanno parte anche della nostra esperienza?
La celebrazione della Liturgia di questa Notte Santa dovrebbe suscitare nei nostri cuori un senso di meraviglia mentre contempliamo il grande dono della bontà di Dio rivelato nel Suo amore creatore e redentore. L'Exsultet, che ha aperto la liturgia di questa sera, così come esprime bene il senso di meraviglia e stupore della Chiesa nell'evocazione delle tante opere meravigliose che Dio ha compiuto a favore del Suo popolo, allo stesso tempo dovrebbe dire le meraviglie che il Signore opera ancora a nostro favore grazie a un amore così sorprendente e così divino.
Il grande mistero della Pasqua si rivela a tutti noi nel dono della vita sperimentato anche quando affrontiamo le perdite causate dalla morte o viviamo la speranza nei momenti e nei luoghi della disperazione.
Se la resurrezione può sembrare difficile da comprendere, il suo potere si riconosce in quelle situazioni senza uscita che svelano percorsi di salvezza prima inimmaginabili o nella cruda aridità della nostra esistenza quando la risurrezione sgorga come una fresca ondata d'acqua di sorgente.
La risurrezione di Cristo è la risposta creativa di Dio alla morte. La vediamo quando –in un momento storico come l’odierno dominato da guerre, povertà e instabilità politica– scopriamo coloro che hanno il valore di amare dove l’odio regna incontrastato. Nel cuore delle prove più grandi e nell'oscurità più profonda il potere della risurrezione sono a nostra disposizione se solo osiamo aprire i nostri cuori per accogliere il dono; se, come Pietro sbalordito davanti a quella tomba vuota, sappiamo dire “non è qui!” e siamo disposti a cercare Gesù dove invece ci aspetta: nelle nostre case e in tutti quei luoghi dove ogni singolo giorno ci risvegliamo alla vita.
Auguri di buona Pasqua a tutti!
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.
Es 12,1-8.11-14; Sal 115; ICor 11,23-26; Gv 13,1-15
Il Giovedì Santo è un giorno di gratitudine e di gioia per il grande dono di amore estremo che il Signore ci ha fatto. Nella lettura dal Libro dell’Esodo (12,1-8.11-14), che abbiamo appena ascoltato, viene descritta la celebrazione della Pasqua di Israele così come nella Legge mosaica aveva trovato la sua forma vincolante.
Al centro della cena pasquale, ordinata secondo determinate regole liturgiche, stava l’agnello come simbolo della liberazione dalla schiavitù in Egitto. Israele non doveva dimenticare che Dio aveva personalmente preso in mano la storia del suo popolo e che questa storia era continuamente basata sulla comunione con Dio. Israele non doveva dimenticarsi di Dio. Questa era una festa di commemorazione, di ringraziamento e, allo stesso tempo, di speranza.
Allo stesso modo, nella seconda lettura (1 Cor 11,23-26), Paolo inizia il discorso sulla Cena del Signore identificando la sua autorità nell'insegnare su questo argomento: la fonte della sua sapienza è il Cristo risorto. Poi ne delinea il processo rituale. Lui non era presente all'Ultima Cena quando Gesù istituì l'Eucaristia; la sua conoscenza non proveniva da un'esperienza diretta ma dalla condivisione della Cena del Signore con i suoi fratelli cristiani. Quindi, le parole dell'istituzione che Paolo utilizza sono probabilmente le parole concrete che i primi cristiani usavano nella loro pratica liturgica.
La Cena del Signore è un ringraziamento per la morte salvifica di Cristo e allo stesso tempo un ricordo di Gesù e della sua morte. Questo ricordare non significa solo riflettere su personaggi o eventi storici, ma renderli presenti riportandoli all’oggi. Evidentemente chi viene ricordato è il Cristo risorto e non un eroe morto da tempo.
Il riferimento alla "nuova alleanza" chiarisce che un rapporto di reciproco privilegio e responsabilità tra Dio e i credenti è fondamentale per questa esperienza sacramentale. Coloro che mangiano e bevono la Cena del Signore incarnano l'azione salvifica di Cristo: rendono presente e annunciano la buona novella. Questo accesso a un rapporto intimo con Dio, attraverso Gesù, è sia un privilegio che una responsabilità.
Paolo chiarisce che la chiave dell'esperienza eucaristica è la partecipazione. Attraverso la condivisione del pasto sacro, i credenti instaurano una relazione reciproca con Dio e tra di loro: ricordano e ringraziano per il sacrificio che Dio ha compiuto per l'umanità in Gesù, e ricambiano il favore rivolgendosi agli altri con la buona notizia che l'opera salvifica e la sollecitudine amorevole di Dio sono ancora attive nel mondo fino alla fine dei tempi.
Fu alla vigilia della sua Passione che Gesù, insieme ai suoi discepoli, celebrò questa cena dai molteplici significati. È in questo contesto che dobbiamo comprendere la nuova Pasqua che Egli ci ha donato nella Santissima Eucaristia.
L’evangelista Giovanni inizia il suo racconto sul come Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli con un linguaggio particolarmente solenne, quasi liturgico. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1). È arrivata l’“ora” di Gesù, verso la quale il suo operare era diretto fin dall’inizio. Ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio ed agape–amore. Le due parole si spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre.
Nella lavanda dei piedi, Gesù evidenzia con un gesto concreto proprio ciò che il grande inno cristologico della Lettera ai Filippesi descrive come il contenuto del mistero di Cristo. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge col “panno” dell’umanità e si fa schiavo. Lava i piedi sporchi dei discepoli e li rende così capaci di accedere al convito divino al quale Egli li invita. Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s’inginocchia davanti ai nostri piedi e ci purifica. PreghiamoLo, affinché dal bagno sacro del suo amore veniamo sempre più profondamente penetrati e così veramente purificati!
La lavanda che Gesù dona ai suoi discepoli è anzitutto semplicemente azione sua – il dono della purezza, della “capacità per Dio” offerto a loro. Ma il dono diventa poi un modello, il compito di fare la stessa cosa gli uni per gli altri. L’insieme di dono ed esempio, che troviamo nella narrazione della lavanda dei piedi, è per sua natura caratteristico del cristianesimo in generale. Cristianesimo è anzitutto dono: Dio si dona a noi – non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’Eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli ci dà.
Al termine del racconto della lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Il “comandamento nuovo” non consiste in una norma nuova e difficile, che fino ad allora non esisteva. Il comandamento nuovo consiste nell’amare insieme con Colui che ci ha amati per primo. La novità in questo è il dono che ci introduce nella mentalità di Cristo.
Pregiamo il Signore di renderci, mediante la sua purificazione, maturi per il nuovo comandamento. Il Giovedì Santo ci esorta a purificare continuamente la nostra memoria, perdonandoci a vicenda di cuore, lavando i piedi gli uni degli altri, per poterci così recare insieme al convito di Dio.
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.
Is 52,13- 53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42
Il Venerdì Santo è il giorno più grande della speranza, maturata sulla Croce, mentre Gesù muore, mentre esala l’ultimo respiro, gridando a gran voce: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Affidando la sua esistenza «donata» alle mani del Padre, Egli sa che la sua morte diventa sorgente di vita, come il seme nella terra deve essere distrutto perché nasca una nuova pianta: «Se il chicco di grano caduto in terra e muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Gesù è il chicco di grano che cade in terra, si spezza, si distrugge e muore, e proprio per questo può portare frutto. Dal giorno in cui Cristo vi è stato innalzato, la Croce, che sembrava segno di desolazione, di abbandono, di fallimento, è diventata un nuovo inizio: dalle profondità della morte si eleva la promessa della vita eterna. Lo splendore vittorioso del giorno nascente della Pasqua risplende già sulla Croce.
Il Cantico del Servo Sofferente viene letto nella sua interezza durante la liturgia del Venerdì Santo, che è il momento della Chiesa specificamente dedicato alla contemplazione e al ricordo della Passione e morte di Gesù Cristo.
Il Salmo 30 è strettamente associato alla Passione di Cristo, soprattutto perché Cristo lo cita sulla croce quando dice: "Nelle tue mani affido il mio spirito" (Sal 30,5). Il Salmo 30 presenta anche temi simili a quelli di Isaia 53. Entrambi parlano di un uomo considerato "spaventoso" dal popolo (Salmo 30,11) e che soffre profondamente: "Sono come un piatto rotto" (Sal 30,12). Isaia 53 racconta come il Servo viene salvato dal Signore, e nel Salmo 30 si trova la supplica fedele: «Liberami dalla mano dei miei nemici e dei miei persecutori» (Sal 30,15).
La seconda lettura di questo Venerdì Santo (Eb 4,14-16; 5,7-9) presenta Gesù come il grande sommo sacerdote. Questo è importante per l'analisi di Isaia 53, in cui il Servo sofferente è descritto come un sacrificio, oggetto di espiazione vicaria. La Lettera agli Ebrei mostra che Cristo era sia il sacrificio che il sommo sacerdote, un tema che è effettivamente presente in Isaia 53 dove si dice che il Servo "offre se stesso come sacrificio per il peccato" (Isaia 53,10). Normalmente, un sacrificio non si fa da sé, è il sacerdote a compiere il sacrificio, ma Isaia 53 è chiaro che il sacrificio è il Servo sofferente. All'interno della tradizione ebraica, è difficile conciliare i due concetti. La Lettera agli Ebrei fornisce la risposta: Gesù è sia sacerdote che sacrificio perfetto.
«Abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, il Figlio di Dio» (Ebrei 4,14). Questo illumina le affermazioni di Isaia 53: «il Signore ha voluto percuoterlo» e «egli offre se stesso in sacrificio per il peccato» (Isaia 53,10). Gesù è Dio, il Signore, e quindi ciò che il Signore vuole è la volontà di Gesù e viceversa. Pertanto, il fatto che il Servo soffra per volontà di Dio non annulla la libera offerta del Servo di se stesso come sacrificio per il peccato. Le due cose sono in realtà un unico movimento del cuore di Dio. Ma combinando Ebrei con Isaia si mostra anche l'opera della Trinità. Ebrei dice: «Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei 5,8). Quindi, sebbene Gesù, il Servo sofferente, sia Dio, è anche Figlio. Obbedisce perfettamente alla volontà del Padre, perché quella volontà è una con la sua. Ma nel suo stato incarnato, «nei giorni della sua carne», Egli ha anche sottomesso la sua volontà umana al Padre (Ebrei 5,7).
La Lettera agli Ebrei prosegue dicendo: "Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre debolezze, ma uno che è stato tentato come noi, senza peccare" (Ebrei 4,15). Gesù era umano e ha sperimentato dolore e tentazione, eppure era senza peccato, proprio come il Servo di Isaia 53, che ha sperimentato ogni tipo di dolore e maltrattamento, ma era senza peccato e non ha risposto con inganno o violenza. Grazie al suo sacrificio senza peccato, il Servo di Isaia 53 diventa fonte di giustizia per gli altri: "Il giusto, il mio servo, giustificherà molti con la sua conoscenza" (Isaia 53,11). La Lettera agli Ebrei descrive Gesù allo stesso modo: "Reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Ebrei 5,9).
Tutti questi temi culminano nella lettura del Vangelo del Venerdì Santo, il racconto della Passione secondo Giovanni (Giovanni 18,1-19,42), che descrive con splendidi dettagli la sofferenza e la morte di Gesù, profetizzate da Isaia e narrate nella Lettera agli Ebrei.
Il racconto giovanneo dell'arresto, del processo e della crocifissione di Gesù conduce i lettori al cuore del Vangelo. L'identità di Gesù è un tema ricorrente in tutto il racconto della Passione. Viene definito una minaccia per Dio e per la società (19,7.12) e descritto come un uomo innocente (18,38; 19,4.6). Ma dal punto di vista dell'evangelista, il luogo in cui l'identità di Gesù viene giustamente proclamata è il cartello sopra la croce: "Gesù il Nazareno, il re dei Giudei" (19,19). Questo cartello è scritto in ebraico, latino e greco (19,20). Proclama al mondo ciò che Dio sta facendo per il mondo inviando Gesù. La croce è il luogo in cui regna Gesù perché è qui che regna l'amore di Dio. Nel Vangelo di Giovanni, la potenza di Dio si rivela come l'amore di Dio che cerca di riscattare il mondo che si è allontanato da Lui. Dio manda Gesù come Re proveniente dal popolo ebraico per regnare sul mondo. Il regno di Dio si edifica attraverso l'amore di donazione di Dio. In Gesù crocifisso, il mondo giunge a conoscere fino a che punto Dio è disposto a spingersi per riscattare il mondo nell'amore.
Concedici, Signore, di portare la nostra croce con amore e di portare le nostre croci quotidiane nella certezza che sono state illuminate dalla luce abbagliante della Pasqua. Amen.
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56
Le letture di quest'ultima domenica di Quaresima, la Domenica delle Palme, ci invitano a contemplare questo Dio che, per amore, è venuto incontro a noi, ha condiviso la nostra umanità, si è fatto servo degli uomini, si è lasciato uccidere affinché l'egoismo, il male e il peccato fossero superati. Attraverso Gesù, Dio ci ha offerto la possibilità di una Nuova Vita.
La prima lettura (Is 50,4-7) ci propone le parole e il dramma di un profeta anonimo, chiamato da Dio a testimoniare la Parola di salvezza tra le nazioni. Nonostante le sofferenze e le persecuzioni, il profeta confidò in Dio e realizzò, con caparbia fedeltà, i progetti di Dio. I primi cristiani vedevano in questo “servo di Dio” la figura di Gesù.
La missione del profeta/servo non è facile; prende forma nella sofferenza e nel dolore. La parola proclamata in nome di Dio è una parola che dà fastidio e provoca resistenze che, per il profeta, assumono quasi sempre la forma del dolore e della persecuzione. Tuttavia, il profeta/servo di Dio non può resistere all’aggressione e alla condanna e rende il suo volto “duro come la pietra” di fronte a chi lo aggredisce e lo ferisce. Non per insensibilità, ma perché è determinato a sopportare tutto per compiere fino in fondo la missione che Dio gli ha affidato. Il vero profeta non si arrende né si rassegna: la sua passione per la Parola supera la sua sofferenza e gli fa mettere al di sopra di ogni altra cosa la missione che Dio gli ha affidato.
Siamo consapevoli che la nostra missione profetica comporta l'essere Parola viva di Dio che risuona nel mondo degli uomini? Nelle nostre parole, nei nostri gesti, nella nostra testimonianza, la proposta liberatrice di Dio arriva al mondo e al cuore degli uomini?
La seconda lettura (Fil 2,6-11) ci propone un bellissimo inno che riecheggia le catechesi primitive su Gesù. Fedele al disegno del Padre, Egli è sceso incontro agli uomini, ha vissuto la vita degli uomini e ha sofferto una morte atroce per amore degli uomini. Ma la sua vita non è stata sprecata: Dio lo ha esaltato, mostrando che la strada da lui seguita è la strada che conduce alla Vita. È questo stesso percorso che siamo sfidati a seguire.
Questo inno costituisce un'ottima chiave di lettura per interpretare, sentire e vivere, nella “Settimana Maggiore” in cui stiamo entrando, gli eventi centrali della nostra fede. Al “suono” di questo bellissimo inno possiamo comprendere il cammino di Gesù, il senso delle sue scelte, il senso della sua vita, della sua passione, morte e risurrezione. Cercheremo, questa settimana, di seguire le orme di Gesù? E, rivivendo il suo amore e il suo abbandono, rinnoveremo la nostra adesione a Lui e al cammino che Egli propone?
Il Vangelo (Lc 22,14-23,56) ci racconta la passione e la morte di Gesù. È il momento culminante di una vita spesa a realizzare il progetto salvifico di Dio: liberare gli uomini da tutto ciò che genera egoismo, schiavitù, sofferenza e morte. Sulla croce dove Gesù ha offerto la sua vita fino all'ultima goccia di sangue, si rivela l'amore incommensurabile di Dio per noi; Sulla croce Gesù ci ha detto che l'amore estremo genera Vita nuova ed eterna.
All’inizio della Settimana Santa, la Settimana Grande, la liturgia ci invita ad ascoltare il racconto impressionante della Passione e Morte di Gesù. Il rapporto, innegabilmente basato su fatti concreti, non è un semplice resoconto giornalistico della condanna a morte di un uomo innocente; ma è, soprattutto, una catechesi pensata per mostrare come Gesù, offrendo la sua vita fino al dono totale, sulla croce, realizza il progetto salvifico del Padre.
L'ambiente fisico della passione e morte di Gesù è, nel Vangelo di Luca, lo stesso degli altri vangeli sinottici: il Cenacolo (l'edificio con «una grande stanza ammobiliata al piano superiore», dove Gesù consumò quell'indimenticabile cena d'addio con i suoi discepoli – Lc 22,12), il Monte degli Ulivi (il giardino dove Gesù, dopo l'ultima cena, si ritirò a pregare, e dove fu arrestato dalle guardie del Tempio – cfr Lc 22,39-53), il palazzo del sommo sacerdote Caifa (dove Gesù fu processato, condannato dal Sinedrio e fu imprigionato per il resto della notte prima di essere condotto davanti alle autorità romane – cfr Lc 22,54-71), il pretorio romano della Torre Antonia (dove Gesù, venerdì mattina, fu torturato e coronato di spine e dove il governatore Pilato confermò la sua condanna a morte – cfr Lc 23,1-6.13-25) le vie della città di Gerusalemme (per le quali passò Gesù, portando la trave della croce, secondo il rituale proprio delle crocifissioni – cfr Lc 23,26-32), il Calvario (la piccola collina, fuori città, dove Gesù, verso le 9 del mattino di venerdì, fu crocifisso – Lc 23,33-49), e il sepolcro nuovo offerto da Giuseppe d'Arimatea (dove il corpo morto di Gesù fu deposto prima del tramonto del venerdì – cfr Lc 23,50-56).
Il racconto della passione e morte di Gesù è una storia di violenza inaudita, perpetrata contro un uomo che, nella prospettiva di coloro che lo conoscevano bene e che lo accompagnarono dalla Galilea a Gerusalemme, non ha fatto nulla per meritare la condanna decretata contro di lui. Come si è arrivati a questo risultato?
Il progetto liberatore di Gesù si scontra –come era inevitabile– con il clima di egoismo, di cattiva volontà e di oppressione che domina il mondo. Le autorità politiche e religiose ebraiche si sentivano a disagio di fronte alla denuncia di Gesù: non erano disposte a rinunciare a questi meccanismi che assicuravano loro potere, influenza, dominio, privilegi; Non erano disposti a correre rischi, ad allontanarsi e ad accettare la conversione proposta da Gesù. Decisero allora di mettere a tacere Gesù: lo arrestarono, lo processarono, lo condannarono e lo inchiodarono sulla croce. La morte di Gesù è la logica conseguenza dell'annuncio del “Regno”: è il risultato delle tensioni e delle resistenze che la proposta del “Regno” suscitò tra coloro che dominavano il mondo.
Sulla croce vediamo apparire l'Uomo Nuovo, prototipo dell'uomo che ama radicalmente e che fa della sua vita un dono per tutti. Così la croce contiene e propone il dinamismo di un mondo nuovo: il dinamismo del “Regno di Dio”. La croce, vile strumento di sofferenza e di morte, diventa in questo modo fonte di Vita e di speranza.
Luca presenta Gesù, poche ore prima di essere ucciso sulla croce, chiedendo ai suoi discepoli di non mettere al centro della loro vita le preoccupazioni per le posizioni importanti, i posti di potere, gli onori, le distinzioni, i privilegi, ma piuttosto il servizio semplice e umile ai fratelli. La Chiesa nata da Gesù o sarà una comunità di amore e di servizio, oppure non sarà nulla. Cosa abbiamo fatto di questo “testamento” che Gesù ci ha lasciato? Abbiamo la sua stessa disponibilità per accogliere il progetto della croce e la sua stessa determinazione per vivere fino in fondo lo stile di Dio?
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.
Is 43,16-21; Sal 125; Fil 3,8-14; Gv 9,28-36
In questa quinta tappa del cammino quaresimale, la liturgia della Parola ci invita a liberarci da tutto ciò che ci schiavizza e a camminare, con coraggio e decisione, verso la meta che ci attende: la vita rinnovata, un orizzonte di libertà e di felicità che Dio vuole offrire a tutti i suoi amati figli.
Nella prima lettura (Is 43,16-21), il Dio che ha liberato gli ebrei dalla schiavitù dell'Egitto annuncia agli esuli di Babilonia che realizzerà un nuovo intervento salvifico in favore del suo popolo. Gli esuli saranno rilasciati; accompagnati da Dio, percorreranno un cammino che li riporterà alla terra da cui sono stati strappati, la terra dove scorrono latte e miele.
Il nuovo esodo che Dio prepara per il suo popolo è descritto dal Deutero-Isaia in termini grandiosi: Dio aprirà una via ampia e diritta nel deserto che favorirà il viaggio di ritorno verso la terra promessa (v. 19); Dio farà sgorgare fiumi nella terra arida, affinché il suo popolo non soffra, i tormenti della sete; tutti –anche gli animali selvatici– riconosceranno l’azione salvifica di Dio e si riuniranno per cantare la gloria e la potenza di Dio (v.20).
Se le azioni di Dio manifesteranno chiaramente la preoccupazione per il suo popolo, in questo tempo di Quaresima anche a noi Dio lancia la sfida di camminare dalla schiavitù alla libertà e–pur passando dalla croce– camminare dalla vita vecchia alla vita nuova, la vita della resurrezione.
Nella seconda lettura (Fil 3,8-14), Paolo di Tarso condivide la sua esperienza con i cristiani della città di Filippi: da quando ha incontrato Cristo, Paolo ha lasciato dietro di se come “spazzatura” tutto ciò che limitava i suoi movimenti e gli impediva di correre incontro a Cristo; identificandosi con lui correre verso la meta finale, dove spera trovare la vita definitiva.
Paolo ricorda ai cristiani di Filippi –e anche a noi– che la vita cristiana è come una corsa che non termina finché non si raggiunge il traguardo. Paolo sapeva che, in certi momenti del cammino, siamo tentati dall'accomodamento, dal conformismo, dall'installazione, dalla pigrizia, dalla convinzione di aver già fatto tutto quello che c'era da fare. Per quello ci lascia un monito: mentre camminiamo su questa terra nulla è finito, c'è sempre una strada da percorrere. La nostra identificazione con Cristo è una sfida costante, un impegno che dobbiamo rinnovare ad ogni passo del cammino.
Nel Vangelo di oggi (Gv 9,28-36), Gesù mostra, attraverso il racconto di una donna accusata di adulterio, come Dio si comporta con le nostre decisioni sbagliate: "Io non ti condanno. Va' e non peccare più". Il perdono di Dio, frutto del suo amore, parlerà sempre più forte del nostro peccato. La grande preoccupazione di Dio non è punire coloro che hanno fallito; ma è indicare ai suoi figli una strada nuova, di libertà, di realizzazione e di vita senza fine.
Gesù è seduto sulla spianata del Tempio, nell'atteggiamento classico dei “maestri” che insegnano ai discepoli (v. 2). “Seduto”, come i rabbini, offrirà a tutti una lezione indimenticabile su come Dio guarda la nostra fragilità. La dinamica di Dio è una dinamica di misericordia, perché solo l'amore trasforma e permette di superare i limiti umani. Questa è la realtà del Regno di Dio. Gesù mostra agli scribi e ai dottori della legge che la forza di Dio non sta nella condanna e nel castigo, ma nell'amore e nel perdono; che Lui non vuole la morte di chi ha sbagliato, ma la piena liberazione di tutti; che il suo cuore è come il cuore di un padre o di una madre.
Ogni volta che Gli presentiamo le nostre miserie e le nostre stupide decisioni, Lui ci dice: “non vi condanno”; ogni volta che ricadiamo negli stessi errori ci dice nuovamente “non vi condanno”; ogni volta che ci presentiamo davanti a Lui delusi dal modo in cui abbiamo condotto la nostra vita, Egli ci consola e ci assicura: “non vi condanno”; ogni volta che ci sentiamo poco apprezzati, incompresi, emarginati, Lui ripete “non vi condanno”. È la misericordia racchiusa in questa frase che ci fa venire voglia di superare i nostri limiti e di abbracciare, con determinazione, un nuovo cammino, una nuova vita.
Nel racconto della donna sorpresa in adulterio, l'accusa degli scribi e dei farisei ricade solo sulla donna; Nessuno chiede a Gesù se l'uomo che era con lei dovesse essere ucciso, secondo la Legge di Mosè. L'immagine mette a nudo l'ipocrisia di una società che puniva le donne, ma non utilizzava le stesse misure per i fallimenti degli uomini. È una società che discrimina le donne nei confronti degli uomini. Gesù, difendendo la donna vessata da quel gruppo di uomini, introduce verità e giustizia in quella situazione squilibrata e ingiusta.
Sebbene oggi l’ordinamento giuridico tengano conto della fondamentale uguaglianza tra uomini e donne, permangono ancora, nella nostra vita quotidiana, pratiche e abitudini discriminatorie che minano la dignità della donna, che la umiliano e la fanno soffrire.
Non dovremmo essere più attenti a questo, anche nelle comunità cristiane? Non dovremmo, come Gesù, essere più vicini a tutte le donne che vengono offese, oppresse, discriminate, offese nella loro dignità, trattate come oggetti, per fornire loro una difesa intelligente e una protezione efficace?
Dio non solo non condanna né perdona, ma vuole che i suoi figli camminino verso una vita nuova, verso una vita che sia significativa, libera e pienamente realizzata. È proprio questo il cammino che siamo chiamati a percorrere nel tempo quaresimale.
* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.