Una “messa nazionale per sollecitare la Corte costituzionale ad emettere una sentenza di impeachment” si è tenuta il 31 marzo 2025, nella Piazza Verde di Songhyeon, vicino alla sede della Corte, a Yeouido.

Il Tribunale Costituzionale ha destituito il presidente Yoon Suk-yeol con un’opinione unanime degli 8 giudici.

Oggi 4 aprile mattina alle 11:22, ora locale, il Tribunale Costituzionale ha finalmente pronunciato la destituzione del presidente Yoon con l’opinione unanime di tutti i giudici. Yoon, 64 anni, è stato protagonista lo scorso dicembre di un clamoroso quanto maldestro tentativo di auto-colpo di Stato che ha precipitato la quarta economia asiatica in una crisi istituzionale senza precedenti. Il presidente è sotto processo per insurrezione (e abuso di potere), un reato non coperto dall'immunità presidenziale.

In questo grave momento di crisi per la Corea del Sud la piazza risuonava delle grida ferventi del popolo che trafiggevano il cielo – forse per la certezza che Yoon Suk Yeol, il presidente in questione, sarebbe stato rimosso, o magari solo per pregare – mentre la leadership della Chiesa rimaneva costantemente in silenzio.

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Non molto tempo fa, abbiamo ricevuto un messaggio dal Cardinale Lazzaro You Heung-sik, Prefetto del Dicastero per il Clero a Roma, che affermava: “Non c’è neutralità nella giustizia”, esortando la Corte costituzionale ad agire senza indugio nel pronunciare una sentenza di impeachment. Sebbene questo sia stato molto apprezzato, non è stato sufficiente a spegnere la sete ardente del popolo. Una dichiarazione nazionale che riflettesse la posizione della Chiesa Cattolica sulla questione delle accuse al presidente e una messa per la nazione erano necessarie. Forse per questo, ancora più fedeli si sono aggiunti alla celebrazione, e le voci che chiedevano la rimozione di Yoon Suk Yeol sono risuonate con una forza tale da trafiggere il cielo.

Qual è il vero significato della Messa?

Mentre guardavo innumerevoli sacerdoti che portavano croci dietro di me, non ho potuto fare a meno di scoppiare improvvisamente in lacrime. Quanto avevamo atteso con ansia questa messa nazionale che non è solo per i credenti cattolici, ma per l’intera comunità – coloro che cercano di proteggere una nazione in crisi, per rifiutare il male e lottare per la giustizia – offrendo il loro desiderio collettivo a Dio. Vescovi e sacerdoti sono chiamati e consacrati proprio per questo compito. Eppure, rifiutare tale azione per qualsiasi motivo è venir meno al loro dovere sacerdotale.

Quando la Chiesa si allea con il potere, la Chiesa scompare

All’apparenza pare diventare più forte e acquisire influenza nel mondo, ma poi diventa un’entità che non ha più alcun messaggio né nulla da offrire al mondo. Questo perché il mondo è capace di generare potere da sé.

E quando noi utilizziamo Cristo per condurre crociate e perseguire il potere, questo diventa un’autodistruzione per la Chiesa, un errore fatale che essa stessa compie. Quando ciò accade, la Chiesa gradualmente svanisce.

Anche il clericalismo è considerato una forma di potere, ed è per questo che accade. San Agostino ha detto che il sacerdozio trova il suo significato nel servizio. Tuttavia, nella storia della Chiesa, quanti sono stati davvero liberi da questo potere? Guardando me stesso, vedo che non sono libero. Il chicco di grano deve cadere in terra e morire, ma io non voglio morire. Se rifiuto di marcire, non porterò frutto e alla fine sarò scartato. Tutto questo dipende anche dalla mia lotta interiore, dall’egoismo che porto dentro di me.

* Padre Kyoung Ho Han, IMC, membro della Commissione di riconciliazione nazionale.

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Posizione della Chiesa Cattolica Coreana

La storia sembra ripetersi sempre, ma oggi la nostra nazione e il nostro popolo si trovano a dover affrontare un momento doloroso, scrivendo una pagina di storia infelice che non avremmo mai voluto. Per la seconda volta nella nostra storia, un presidente eletto dal popolo è stato nuovamente destituito tramite impeachment.

Il tempo della giustizia, rappresentato dal processo di impeachment del presidente Yoon Suk-yeol, si è concluso. Ora, nel tempo della politica che segue immediatamente, dobbiamo raccogliere la saggezza per eleggere con cura un nuovo presidente che guiderà il nostro Paese.

Dobbiamo scegliere un presidente che riconosca profondamente che il potere presidenziale è un potere delegato dal popolo, un potere che deve servire il popolo, e che sia pronto a sacrificarsi in ogni momento per proteggere la vita e i beni dei cittadini, considerandolo il fondamento della politica.

Prima di tutto ciò, esortiamo le autorità nazionali a fare ogni sforzo per recuperare la fiducia del popolo e promuovere l’armonia. In particolare, i politici non devono dimenticare che esistono per servire il popolo, rispettando gli altri, ascoltando le reciproche opinioni e avanzando verso una politica di cooperazione e mutuo beneficio. Così, il processo di selezione di leader responsabili e moralmente integri, per realizzare la riconciliazione sociale e il bene comune, deve essere attuato in modo democratico e maturo.

La Chiesa Cattolica Coreana prega con tutto il cuore e accompagnerà il popolo affinché le scelte future possano diventare una pietra miliare per la realizzazione della giustizia e di una vera pace nel nostro Paese.

4 aprile 2025


Conferenza Episcopale Cattolica Coreana


Presidente, Vescovo Lee Yong-hoon

Mentre si scava tra le macerie, migliaia di persone stanno trascorrendo le notti per strada o in spazi aperti a causa dei danni e della distruzione delle case o per paura di ulteriori terremoti. Anche le principali infrastrutture di fornitura di acqua ed elettricità e le torri di comunicazione sono state gravemente colpite.

Il fatto gravissimo è che, mentre la giunta militare ha chiesto aiuti, continua a bombardare i civili nelle aree colpite dal terremoto. “Quale gruppo di esseri umani bombarda altri esseri umani le cui vite sono state appena devastate da un terremoto?”, chiede il giornalista Benedict Rogers. “Che tipo di governo chiede aiuti internazionali e poi bombarda il suo stesso popolo?”

Si scava tra le macerie, si contano i morti ma è l’assistenza umanitaria l’emergenza più grave del post terremoto. È l’arcidiocesi di Mandalay – città che si trovava venerdì 28 marzo nell’epicentro del sisma – a fare il “punto” aggiornato della crisi inviando al Sir Report sulla situazione corredato da una serie di foto scattate in città di edifici sbriciolati a terra, sfollati per strada e chiese colpite.

L’arcidiocesi  ha istituito una squadra di soccorso e di emergenza per fornire assistenza umanitaria alle persone colpite dal potente terremoto. Le due forti scosse di terremoto che hanno colpito il Myanmar centrale, hanno avuto per epicentri localizzati le città di Mandalay e Sagaing, città quest’ultima che si trova nell’arcidiocesi di Mandalay. Da allora sono state registrate diverse scosse di assestamento. I due terremoti più forti nella regione di Mandalay hanno avuto un impatto su tutte le township della regione. Secondo il Report dell’arcidiocesi più di 1.000 persone hanno perso la vita, oltre 2.200 sono rimaste ferite e circa 200 sono ancora disperse nel Myanmar centrale e nord-occidentale. Ma i dati sono provvisori. La maggior parte dei decessi è stata registrata nella regione di Mandalay.

Al momento – scrive l’arcidiocesi -, le necessità più urgenti sono l’assistenza umanitaria, tra cui cibo, medicine, rifugi temporanei, kit igienici e kit di beni di prima necessità. In futuro, l’assistenza finanziaria sarà essenziale per ricostruire la comunità. Il terremoto ha causato la distruzione diffusa di case e gravi danni alle infrastrutture. Migliaia di persone stanno trascorrendo le notti per strada o in spazi aperti a causa dei danni e della distruzione delle case o per paura di ulteriori terremoti. Anche le principali infrastrutture di fornitura di acqua ed elettricità e le torri di comunicazione sono state gravemente colpite. Per questo i servizi sono stati interrotti, anche nella regione di Yangon. Le reti fisse, mobili e Internet restano instabili.

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Secondo i Report, gli ospedali di Mandalay, Magway, Nay Pyi Taw e Sagaing stanno avendo difficoltà a gestire l’afflusso di persone rimaste ferite durante il terremoto. Sono stati mobilitati rifornimenti di emergenza umanitaria per sostenere le comunità colpite a Mandalay. Partner umanitari, l’Onu, le Ong internazionali e locali stanno pianificando di condurre una valutazione congiunta per implementare una risposta immediata e coordinata, utilizzando le risorse già disponibili a Mandalay.

“Negli ultimi quattro anni, da quando l’esercito del Myanmar ha rovesciato il governo civile democraticamente eletto guidato dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi con un colpo di stato, la difficile situazione del paese è scivolata fuori dall’agenda internazionale”, osserva su UcaNews Benedict Rogers, giornalista. “A parte qualche raro rapporto di cronaca, le numerose altre crisi mondiali e gli sforzi della giunta per isolare il Myanmar dal mondo esterno hanno fatto sì che la sua difficile situazione sia stata ampiamente ignorata”. Ora il Myanmar – scrive il giornalista – “è tornato sui titoli dei giornali, ed è tempo che il mondo agisca”.

È un segno della gravità di questo disastro l’inedito appello del portavoce della giunta Zaw Min Tun all’aiuto internazionale. Il fatto gravissimo però è che, mentre “la giunta militare chiede aiuti, continua a bombardare i civili nelle aree colpite dal terremoto”. “Quale gruppo di esseri umani bombarda altri esseri umani le cui vite sono state appena devastate da un terremoto?”, chiede Rogers. “Che tipo di governo chiede aiuti internazionali e poi bombarda il suo stesso popolo?” Anche le Nazioni Unite hanno descritto questi attacchi aerei come “completamente oltraggiosi e inaccettabili”. Per questo, il card. Charles Bo ieri ha fatto un appello al cessate il fuoco. “I leader mondiali, tra cui il segretario generale delle Nazioni Unite, il papa, il presidente Trump e i governi della regione – osserva Rogers -, devono farsi portavoce di questo appello. Bisogna fare pressione sulla giunta affinché fermi i bombardamenti mentre gli operatori umanitari cercano di salvare i civili dalle macerie del terremoto”.

* M. Chiara Biagioni è giornalista dell'Agenzia S.I.R. Pubblicato originalmente in: www.agensir.it

A un anno dalla sua morte ricordiamo il 4 aprile, il Nasa Pal, padre Ezio Guadalupe Roattino.

Alcune persone, uomini di fede o non credenti, riescono a lasciare dietro di sé tracce che né il tempo né il turbinio della vita quotidiana riescono a cancellare. Anzi, proprio come un buon vino migliora con il passare del tempo, il tempo rende queste tracce sempre più marcate, sia nei cuori che negli eventi concreti che si sono verificati.

Ricordiamo Padre Ezio non come un uomo che faceva gesti eclatanti, ma come una persona che faceva della sua Fede uno stimolo, un carburante sempre vivo e vitale. Portava la Parola di Dio ovunque questo straordinario messaggio potesse essere fonte di speranza, gioia e rinascita; lo faceva nel modo più semplice, cioè con l'esempio del suo lavoro quotidiano, con l'ascolto e la condivisione. Il ricordo del caro Padre Ezio ci fa ricordare la parola che rende la Fede qualcosa di straordinario e degno di essere vissuto; questa parola è “Testimone”. Stiamo parlando di una persona straordinaria nella sua semplicità, che ha saputo dare la sua testimonianza tra i più bisognosi, tra gli “ultimi”, dove il dolore chiede risposte concrete.

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Padre Ezio con i bambini della scuola di Toribio, Colombia

Ricordiamo il messaggio evangelico in cui Gesù dice esplicitamente che non basta proclamare la Fede in modo chiassoso e teatrale –come facevano i Sommi Sacerdoti– ma con il piccolo gesto quotidiano, l'ascolto e la capacità di comprendere il bisogno reale di chi ci “sta vicino”. Questa è la vera via della santità.

La celebrazione della Santa Messa nella lingua locale, come ha fatto padre Ezio, è stata la via che ha permesso alla popolazione locale di avvicinarsi più facilmente al Mistero eucaristico, di comprenderlo meglio e di diventarne parte integrante. Il risultato di questo approccio è stato eccellente.

La Parola di Dio può e deve essere compresa anche dagli ultimi, da chi non l'ha mai ascoltata, e solo comprendendo veramente lo straordinario messaggio che contiene si può seminare una Fede consapevole e profondamente vissuta. Ricordiamo che Gesù, nella sua predicazione, si esprimeva con un linguaggio semplice, attraverso le parabole, e raggiungeva così tutti, non solo i colti.

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Padre Ezio e padre Elmer durante celebrazione in memoria di padre Álvaro Ulcué, ucciso il 10 novembre 1984 a Toribio, in Colombia.

L’opera missionaria di Padre Ezio si è manifestata nell’impegno in difesa di popolazioni che storicamente sono state sfruttate, calpestate e colpite da interessi economici concepiti lontano da loro e sempre contro di loro. La storia del colonialismo parla chiaramente di genocidi, furti e sfruttamento delle risorse economiche in difesa degli interessi di pochi.

Lo straordinario messaggio di uguaglianza contenuto nella fede cristiana diventa così un gesto concreto da parte di chi ha saputo vivere e trasmettere questa verità. Questo si vede chiaramente nella vita di padre Ezio: il suo esempio ci serve da incoraggiamento e da punto di riferimento da seguire ogni giorno; la sua persona è degna di emulazione per chi sceglie di esercitare la propria missione sacerdotale tra i più poveri; la sua fede - fatta di testimonianza, esempio e concretezza - è un modello da seguire.

* Padre Elmer Peláez Epitacio, IMC, parrocchia Maria Speranza Nostra di Torino, Italia.

Di seguito il video con l’intervista a Padre Ezio Roattino realizzata da padre Angelo Casadei

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Un Manifesto delle donne indigene

Nel cuore dell’Amazzonia, dove il fiume Putumayo bagna le terre peruviane e colombiane, sorge Puerto Leguízamo, in Colombia. È in questa cittadina di confine che, dal 21 al 23 marzo, si sono date appuntamento più di trenta donne indigene (adolescenti, giovani, adulte e nonne), per un incontro dal titolo suggestivo di «Mujer amazonica. Sembrando esperanza – cosechando vida» (Donna amazzonica. Seminare speranza – raccogliere vita).

Provenienti dalle comunità di confine di Perù e Colombia, le donne appartenevano ai popoli indigeni Kichwa, Murui Muina (noti anche come Huitoto o Witoto) e Siona. L’incontro – organizzato dalla «Misión Putumayo» di Soplín Vargas, in Perù – si è basato su tre pilastri: territorio, cultura e vita.

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Un momento celebrativo del Convegno delle donne indigene del Rio Putumayo, tenutosi a Puerto Leguízamo, in Colombia.

Lo scopo del convegno – arrivato alla terza edizione e ospitato negli spazi del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano – era quello di condividere i ricordi di lotta e resistenza, discutere delle proprie conoscenze in materia di medicina, agricoltura e arte, sostenere la difesa dei diritti territoriali e impegnarsi nella cura della nostra Casa comune.

Dopo tre giorni di dibattito, le donne indigene, «seminatrici di speranza e mietitrici di vita», con il supporto delle organizzazioni indigene presenti (la peruviana Feconafropu e la colombiana Acilapp), hanno elaborato un Manifesto in nove punti da diffondere quanto più possibile.

Danze delle donne indigene negli spazi messi a disposizione dal Vicariato apostolico di Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. Foto Fernando Flórez Arias.

Nel primo e nel secondo punto si dice che «i territori delle comunità indigene sono patrimonio collettivo, ancestrale e di gestione esclusiva» e che va fermata l’espansione della «frontiera estrattiva» che minaccia le comunità e gli ecosistemi. Il terzo punto chiede «il rispetto e la difesa dei diritti, della vita e dell’integrità delle donne indigene». Il quarto e il quinto riguardano il diritto alla salute e la richiesta di implementare «un nostro sistema sanitario, basato sulla medicina tradizionale e sulle conoscenze ancestrali». Il sesto punto affronta il problema economico chiedendo ai governi di dare «priorità alla produzione delle famiglie indigene e contadine del territorio» e di formalizzare le piccole imprese comunitarie. Il settimo punto riguarda la questione educativa e con esso si chiede di «formalizzare sistemi educativi indigeni» tali da consentire la sopravvivenza ancestrale come popoli indigeni. Infine, gli ultimi due punti affrontano i problemi della discriminazione e della violenza chiedendo alle autorità di «combattere con risolutezza ogni forma di violenza, discriminazione e violazione dei diritti delle donne, nel rispetto della vita e di Madre Terra».

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Il signor Pablo e la figlia Consuelo. Il passaggio di generazione in generazione dalla connessione con la Madre Terra. Foto: Missione Putumayo

L’appello finale è una dichiarazione di volontà, di amore e d’intenti. «Il nostro impegno – scrivono le donne amazzoniche – come donne native dell’Amazzonia è prenderci cura della Casa comune (il territorio). Restiamo impegnate a rivitalizzare e rafforzare la nostra identità culturale come contributo alla nuova generazione, come gratitudine e riconoscimento ai nostri saggi antenati, nonni e nonne. Continueremo a lottare per il rispetto dei diritti, della giustizia e dell’uguaglianza nei nostri territori e nella società in generale».

* Padre Fernando Flórez Arias, IMC, Misión Putumayo di Soplín Vargas, in Perù. Pubblicato originalmente in: www.rivistamissioniconsolata.it

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Le donne indigene del Convegno in un momento all’aria aperta

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