“Muovemmo i primi passi nella missione in Mongolia con una certa emozione e anche commozione. Il 10 luglio del 1992 entrammo in punta di piedi in un Paese sconosciuto, forti solo della compagnia di Cristo Gesù, che invocavamo a ogni nostro passo del nostro cammino”. Il racconto di padre Gilbert Sales, oggi sessantenne sacerdote e missionario filippino della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) – anche definita dei “missionari di Scheut”, dal nome della località belga dove fu avviata – ritorna agli esordi della presenza cattolica che riprese agli inizi degli anni ’90, e che l’imminente visita apostolica di Papa Francesco nel vasto Paese dell’Asia centrale (1-4 settembre) vede, in trent’anni, cresciuta fino a 1.500 battezzati, e consolidata con parrocchie, scuole, opere educative e sociali.

Il missionario racconta all’Agenzia Fides il “nuovo inizio” della presenza cristiana in Mongolia: “Ci sentivamo come alieni, in una terra in cui non conoscevamo né la lingua, nè alcuna persona. Ma la fede non ci è mai mancata. Eravamo certi della presenza di Gesù tra noi e abbiamo sempre confidato che tutto sarebbe andato per il meglio: il Signore avrebbe aperto le porte cui bussavamo e ci avrebbe condotto per mano in quella steppa fredda e sterminata che vedevamo attorno a noi. Il Signore mi aveva condotto lì, come dice al Profeta, con due confratelli. Oggi posso testimoniare che davvero Dio ha aperto tutte le porte, ci ha donato la sua grazia e il suo amore che è stato fecondo in terra mongola e ha fatto rinascere la Chiesa”.

Il cristianesimo, nella sua versione nestoriana, giunse in Asia centrale, Mongolia e Cina già nel VII secolo ed ebbe una significativa influenza tra i mongoli nel corso del medioevo. Dopo scossoni e varie vicende storico-politiche, nell’epoca del comunismo di matrice sovietica, era sparita ogni esperienza di fede cristiana, e nel Paese non c’erano chiese né fedeli. “Arrivare lì e seminare nuovamente il Vangelo, con semplicità, pazienza e carità, è stato un momento straordinario, una esperienza che resterà nel mio cuore per sempre”, dice oggi il missionario filippino. Con padre Gilbert Sales, gli altri due pionieri erano i confratelli del Cicm Robert Goessens, belga, e l’altro missionario filippino Wenceslao Padilla, che diverrà poi il primo Prefetto apostolico della Mongolia, deceduto nel 2018.

La presenza dei tre missionari che nel 1992 giunsero in Mongolia era il primo passo di quelle che essi stessi chiamarono “una rinascita”. Il contesto politico internazionale era mutato, con la caduta del muro di Berlino, e il nuovo governo di Ulaanbaatar mostrò il desiderio di riallacciare i rapporti con la Santa Sede, che si disse disposta a instaurare relazioni diplomatiche, con l’accordo contestuale di poter inviare missionari nel Paese. “Quando la Santa Sede manifestò la volontà di avviare una missione in Mongolia, rispondemmo con entusiasmo: ci sembrò una nuova opportunità e una nuova chiamata di Dio: infatti già nei primi anni del ‘900 i missionari Cicm intendevano aprire una comunità in Mongolia”, progetto poi abbandonato a causa della guerra. “Allora trentenne, ero appena stato ordinato sacerdote e diedi la mia disponibilità non senza alcuni timori, ma confidando nel Signore Gesù. Lui mi chiamava a una missione speciale”, ricorda padre Gilbert.

Scelti i tre missionari per avviare la comunità, dopo un periodo di conoscenza reciproca e di formazione a Taiwan, i tre pionieri partirono per l’avventura missionaria alla volta di Ulaanbaatar tra speranze e incognite che segnano ogni nuova opera.

“Per farci coraggio, ogni giorno leggevamo il passo evangelico in cui Gesù dice ‘Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono con loro’. Ci aiutava a farci forza, a essere certi, in ogni momento, della sua Provvidenza”, riferisce. “Va detto che ricevemmo la massima assistenza e cortesia dal governo mongolo. Vennero perfino ad accoglierci all’aeroporto con tutti gli onori. Grazie all’aiuto e alla mediazione di un funzionario che parlava francese (comunicare era una sfida), riuscimmo ad affittare un piccolo appartamento dove ci stabilimmo”.

Il primo passo per inserirsi nel Paese, come avviene per ogni opera missionaria, fu studiare la lingua locale, “un idioma ostico fato di suoni non facili da pronunciare. Sorridevamo provando a emulare quei suoni, ma non ci arrendevamo”, ricorda. I missionari si tuffano nello studio della lingua mongola, frequentando l’Università nella capitale e intanto, gradualmente, tramite solo il passaparola, si sparge la voce della loro presenza e della possibilità di celebrare i Sacramenti propri della fede cattolica nel Paese.

“Celebravamo la messa in una stanza della casa, adibita a cappella. Iniziarono a frequentarla alcuni ambasciatori di fede cattolica e alcuni membri del personale delle ambasciate occidentali, che portarono con loro alcune persone locali, incuriosite. Fu quella la prima forma di evangelizzazione, una missione eucaristica: Gesù si dona all’umanità e offriva se stesso anche ai mongoli”, nota p. Sales. La missione procedeva grazie a contatti informali e a chi rispondeva all’invito “vieni e vedi”. “Accoglievamo tutti con il sorriso e con tanta gioia. La gente veniva a parlarci chiedendoci della ragione della nostra fede, e facendo più domande proprio su Gesù. Vedevamo i primi mongoli partecipare alla messa. Non ci è mai mancata la fiducia in Dio, che ogni giorno ci manifestava il suo amore e agiva toccando i cuori”, rimarca il missionario.

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I tre missionari cominciano lentamente a inserirsi in un contesto del tutto nuovo, ad avere le prime relazioni umane e instaurare legami di amicizia con persone locali, ma anche a stabilire contatti con le istituzioni civili, sociali e culturali. Mettono a disposizione le loro competenze e risorse e padre Gilbert Sales ben presto, se da un lato è studente di lingua mongola, dall’altro tiene un corso di lingua inglese all’Università, insegnando a giovani mongoli.

In questa cornice nasceranno le prime opere sociali avviate dalla piccola comunità cattolica. Prosegue p. Gilbert: “Vedevo molti ragazzi per le strade, da soli. I colleghi di Università mi spiegarono che erano i ragazzi di strada di Ulaanbaatar, che vivevano di espedienti e, nella stagione fredda (con temperature di 40 gradi sotto zero), si rifugiavano nelle fogne, dove passano i condotti del riscaldamento”. Gilbert volle andare a scovarli proprio in quelle loro grigie e maleodoranti dimore di cemento, trovandovi annidati ragazzi tra gli 8 e i 15 anni, “alcolizzati, violenti, malati e vulnerabili, in situazione di promiscuità sessuale”. “Mi feci forza – racconta – il cuore mi scoppiava di compassione verso quei piccoli, dei rifiuti umani. Tornai a trovarli portando con me del cibo. Tornai ancora diverse volte e ogni volta era un momento più bello. Intravidi perfino qualche accenno di un sorriso”. Il missionario, con gesti gratuiti di tenerezza e gentilezza “del tutto sconosciuti a quei ragazzi, maltrattati e disprezzati dalla società”, guadagna pian piano la loro fiducia e cerca di strapparli a quella vita da scarti umani.

Così prende forma la prima iniziativa socio-caritativa dei nuovi missionari: un centro per bambini di strada che, governato da padre Sales, fu avviato nel pianterreno di un edificio della capitale. E’ il “Verbist Care Center”, che aprirà ufficialmente i battenti come struttura assistenziale nel 1995. “Quei bambini iniziarono ad accogliere la nostra proposta di cambiare vita. Donammo loro cure, attenzioni, amore. Venivano da situazioni familiari segnate da alcolismo e violenza. Con noi cominciavano a recuperare la dimensione di piccoli indifesi e bisognosi di affetto”. Il Centro si attrezzò per fornire vitto, alloggio, cure mediche e un percorso scolastico che li conduceva a reinserirsi nella società. “Molti di quei ragazzi ora hanno completato gli studi universitari, lavorano stabilmente, sono padri di famiglia. Sono ancora in contatto con alcuni. Sono eternamente grati per quell’aiuto che fu per loro una svolta nella vita. Dico loro sempre di rendere insieme lode a Dio”, racconta p. Sales.

La testimonianza evangelica dei missionari attrae i cittadini mongoli: “Iniziammo a celebrare i primi battesimi. Ricordo ancora la commozione del primo battezzato, un ragazzo mongolo adottato da una coppia di cittadini inglesi cui venne dato il nome di Pietro. Cantammo insieme il magnificat: era un’opera di Dio che si compiva. Nei primi anni si formò così una comunità di una trentina di cattolici mongoli. Era davvero una piccola comunità di discepoli, con un tratto che ci distingueva: la gioia, la gioia di essere amati, salvati da Cristo e di portare il suo amore al prossimo”, ricorda.

Pian piano, grazie al sostegno della Santa Sede e di benefattori da tutto il mondo, la piccola Chiesa in Mongolia si arricchisce di opere ed esperienze pastorali e sociali, con la presenza di nuove comunità di religiosi e suore. “Wenceslao Padilla, che era il responsabile della missione, ebbe sin da subito uno sguardo universale e volle chiamare congregazioni da tutto il mondo, ognuna con il suo carisma, per contribuire alla missione nello sconfinato paese dell’Asia centrale. Molti ordini religiosi risposero positivamente e cominciarono così a giungere nuovi missionari, religiosi e suore dall’Asia, dall’Africa, dall’Europa e dall’America Latina che aiutarono a creare parrocchie, scuole tecniche, orfanotrofi, case per anziani, cliniche, rifugi per la violenza domestica e asili nido, spesso costituiti in periferie in cui mancavano i servizi di base, beneficiando soprattutto persone povere e famiglie indigenti”.

La missione compie passi avanti. “In una decina d’anni venne creato un Centro pastorale cattolico e poi fu costruita la prima chiesa, che è oggi la cattedrale di Ulaanbaatar, consacrata nel 2002. Il nostro vescovo Padilla (dal 2002 Prefetto apostolico) diceva che era necessario avere una struttura e una chiesa per dare al Paese, alle autorità civili e alla popolazione, l’idea di una presenza stabile e per dire: siamo qui in Mongolia e vogliamo restare, non siamo precari o passeggeri, vogliamo stare accanto a voi per sempre, come l’amore di Dio che non abbandona mai”, prosegue.

Fiorirà, poi, la prima vocazione al sacerdozio di un giovane mongolo e, nel frattempo, si organizza e si consolida l’opera di catechisti e volontari, si aprono parrocchie. Padre Gilbert Sales lascia la Mongolia nel 2005 – chiamato dalla sua congregazione un altro servizio, nelle Filippine – quando la comunità dei cattolici mongoli conta oltre 300 persone e la missione si va espandendo anche oltre la capitale Ulaanbaatar. Ora, in occasione della visita di Papa Francesco, torna nel Paese, con viva gratitudine. Potrà incontrare e riabbracciare tanti dei fedeli mongoli che lo ricordano con affetto. Alla comunità dove ha lasciato un pezzo del suo cuore dirà: “Andate avanti con pazienza. Lo Spirito soffia quando e dove e vuole e porta frutto. Lasciate spazio alla grazia di Dio perché possa guidare i vostri passi. Il Signore ha fatto e farà grandi cose: cantiamo insieme il magnificat”.

Messaggio finale del 2° incontro della rete itinerante amazzonica.

Nel Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo-Solano, bagnato dai fiumi Caquetá e Putumayo e dai loro rispettivi affluenti, ci siamo riuniti le équipes itineranti di 5 Paesi dell'Amazzonia. Con il nostro lavoro vogliamo rendere possibili i sogni incarnati nel documento finale del Sinodo Amazzonico e nella Querida Amazonía e continuare a costruire la Rete Itinerante che ci unisce in chiave di sinodalità.

Ricordiamo i missionari che hanno navigato i fiumi di questo triplice confine amazzonico, martiri e profeti di pace: Alejandro Labaca, Inés Arango, Gonzalo López Marañón, Luis Augusto Castro e molti altri che hanno dato la loro vita affinché i popoli dell’Amazzonia abbiano pienezza di vita. Ci sentiamo discepoli di Gesù e, come lui ci ha insegnato, remiamo al largo e gettiamo le reti con la consapevolezza che il contributo di ciascuno è prezioso e unico per costruire un nuovo modello di Chiesa sinodale e con volto amazzonico.

Ci incontriamo per rafforzare la convinzione che siamo tutti fatti dello stesso fango e ci troviamo sulla stessa barca: insieme vogliamo andare oltre, dove da soli non possiamo arrivare. Sappiamo che tessere una rete implica uscire da se stessi e incontrare gli altri a piedi nudi, riconoscere volti diversi, ascoltare il grido della Terra, camminare e interagire consapevolmente nella cura della Casa Comune.

Confermiamo ancora una volta che l'itineranza è il fondamento della missione della Chiesa; è radicata nella missione di Gesù ed è la via che ci permette di raggiungere i luoghi più remoti. In queste regioni le ferite sono più aperte e la vita di Popoli e territori è maggiormente minacciata e violata da interessi che minano l’armonia: la presenza di gruppi armati, le monocolture ad uso illecito, l’estrazione mineraria, la violenza, l’impunità, la violazione spesso sistematica dei diritti umani e ambientali. 

Percepiamo l'impatto dei danni provocati dal peccato che divide, che distrugge la vita e interrompe le relazioni e i processi vitali. Notiamo con dolore che la terra più devastata è quella abitata dai popoli originari che è stata invasa da aziende e progetti che predano la natura e sono guidati da una visione capitalista e consumistica.

Ci sentiamo sollecitati a intraprendere un processo di conversione che ci permetta vivere un'ecologia integrale (Laudato Sii), uscendo dai nostri piccoli orti per ricostruire la connettività con noi stessi, con gli altri, con l'ambiente, con il cosmo e con Dio. La relazionalità che ci unisce a tutti gli esseri viventi, gli uomini e la Madre Terra implica un itinerario interiore e un profondo processo di conversione del cuore che non possiamo eludere né dimenticare.

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Tessendo questa “rete amazzonica” ci sentiamo chiamati a mettere in pratica gli impegni del Sinodo amazzonico; a cercare insieme nuove strade; a collegarci attraverso la giungla e i fiumi; a rafforzare la comunicazione, l'incontro e lo scambio culturale; a condividere esperienze,  formazione e spiritualità; a motivare la solidarietà e la comunione dei beni.

I popoli indigeni –che vivono la loro quotidianità in gioia ed armonia– sono per noi maestri di spiritualità e relazioni itineranti; ci invitano a recuperare i legami e la connessione con la Madre Terra e ad accogliere la saggezza che scaturisce dall'apertura all'azione dello Spirito. Con profonda gratitudine e ricordo reverenziale rimane nei nostri cuori la calda accoglienza che abbiamo sperimentato; l'umiltà e la fiducia degli anziani; le cena offerte dalle anziane; i balli dei bambini e dei giovani; le conversazioni nella Maloka del popolo Muina Murui nelle quali abbiamo fatto esperienza di spiritualità, mistica, calore e forza della parola.

Oggi camminiamo con le Donne dell'Aurora che ispirano il nostro impegno missionario e l'impegno per l'ecologia integrale, andiamo verso acque più profonde con la protezione, l'affetto e la tenerezza di Nostra Signora dell'Amazzonia.

Puerto Leguízamo, Putumayo (Colombia), 03 al 06 agosto 2023

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«Guardate a Lui e sarete raggianti». Il versetto del Salmo 34 è stato scelto come motto episcopale dal Vescovo Giorgio Marengo, missionario della Consolata e Prefetto apostolico di Ulaanbaatar, creato Cardinale da Papa Francesco nel Concistoro del 27 agosto agosto 2022. Guardando le immagini e ascoltando le parole del secondo video-reportage prodotto per l’Agenzia Fides da Teresa Tseng Kuang yi in vista del viaggio di Papa Francesco in Mongolia (1-4 settembre), il versetto-motto sembra cogliere la cifra intima della vita e dell’avventura missionaria di padre Marengo in Mongolia. Un’avventura in cui le gioie prevalgono in sovrabbondanza sulle fatiche, sulle difficoltà e sullo spettacolo delle proprie povertà. «Io –confessa il Prefetto di Ulaanbaatar fin dai primi passaggi del video– sono grato che il Signore abbia voluto mandarmi qui».

La «gioia più bella» è l’aver contemplato l’operare della grazia nel tempo, l’aver visto come «al di là di tutte le nostre difficoltà e le nostre povertà, il Signore si apriva la strada nel cuore di queste persone, che poi hanno deciso di affidarsi a lui». Il contemplare come poi «il Signore guidava la vita di queste persone, in maniera misteriosa e molto personalizzata. Questa è sicuramente la gioia più bella, accompagnare le persone nel loro cammino di fede».

Nel video-reportage scorrono ricordi e immagini degli inizi: il primo volo preso a 27 anni da Seul per raggiungere Ulaanbaatar («Sentimmo parlare le hostess in mongolo. Dicevo: chissà se un giorno riusciremo anche noi a imparare questa lingua»), la prima messa “pubblica” celebrata in una Ger, la tradizionale tenda mongola («Quello, me lo ricordo come un momento molto, molto bello»).

Il Cardinale Marengo accenna anche alle difficoltà e alle fatiche fatte per entrare nella lingua e nella cultura mongola, con la sua «matrice nomadica» così diversa dalle culture europee «sedentarie», e che si riflette anche nel modo di concepire le abitazioni e nella concezione del tempo: per una cultura nomadica «tutto dev'essere trasportabile, leggero e provvisorio», mentre nelle culture sedentarie c’è sempre la tendenza a «costruire cose che rimangono nel tempo».

Con la chiamata a far parte del Collegio dei Cardinali, padre Marengo fa notare che la sua esperienza di pastore di una piccola comunità ecclesiale locale «si allarga anche un po’ all'universalità della Chiesa, per offrire alla Chiesa universale quello che l'esperienza di una Chiesa missionaria così piccola e così nuova può avere». Il Cardinale missionario parla di un «doppio movimento», con il quale «la particolarità di questa Chiesa» viene vissuta «dentro l'universalità della Chiesa cattolica tutta». Il Cardinale coglie anche la convenienza di favorire uno «scambio» propizio tra «la freschezza della fede in un contesto come quello mongolo»e «la ricchezza della tradizione ecclesiale che ci arriva da Chiese con più lunga esperienza».

Questa è l’occasione propizia che si affaccia sull’orizzonte del prossimo viaggio di Papa Francesco in Mongolia: suggerire a tutti che ogni Chiesa è sempre Chiesa nascente, dipendente in ogni suo passo dalla grazia di Cristo, e non si “costruisce” per forza propria, anche nei posti in cui si sono alzate cattedrali grandiose e sono sorti Imperi cristiani; ogni Chiesa è “pellegrina” sulla scena di questo mondo, «la cui figura passa» (Paolo VI); ogni Chiesa è nomade, come le genti della Mongolia con le loro tende, sempre in cammino verso il compimento dei tempi.

* Gianni Valente. Agenzia Fides 25 luglio 2023

Cronaca dalla GMG

  • , Ago 03, 2023
  • Pubblicato in Notizie
Messa d’apertura

La Messa di apertura della Giornata Mondiale della Gioventù si è svolta martedì primo agosto nel “Parque Eduardo VII” di Lisbona ed è stata presieduta dal cardinale Manuel Clement, patriarca di Lisbona. Nella sua omelia, ha dato il benvenuto ai pellegrini e ha augurato loro "una felice e stimolante Giornata Mondiale della Gioventù; Lisbona vi accoglie con tutto il cuore –ha detto– siete accolti dalle famiglie con i servizi che sono stati resi disponibili da tutti". 

La partecipazione

Gli organizzatori della GMG hanno reso noti martedì i primi dati relativi alle presenze; Jorge Messias, responsabile del dipartimento logistico della GMG, ha dichiarato che stanno partecipando alla settimana di celebrazioni giovani di tutti i paesi del mondo tranne le Maldive; "nella storia delle GMG è l’edizione con il maggior numero di nazionalità presenti". I pellegrini che si sono presentati il primo giorno e sono stati registrati sono 354 mila: la Spagna è il paese con il maggior numero di presenze (oltre 77 mila), seguita dall'Italia (con 59 mila partecipanti) e dal Portogallo, paese anfitrione, con 43 mila. I giovani francesi sono oltre 42 mila e dopo vengono i pellegrini provenienti dagli Stati Uniti.

Papa Francesco ha raggiunto Lisbona mercoledì mattina e in quella giornata si sono prima celebrati incontri istituzionali con il Presidente portoghese, con le autorità e con il corpo diplomatico. Nel pomeriggio si è raccolto in preghiera nel Monastero dei Jeronimos con vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati, seminaristi e operatori pastorali.

I Missionari della Consolata

Anche i Missionari della Consolata hanno proseguito con le attività destinate al gruppo di Giovani procedente da molti dei paesi nei quali lavoriamo e in quella mattina hanno visitato il quartiere di Zambujal dove da qualche anno siamo presenti in una periferia urbana povera e multietnica. Abbiamo vissuto un'esperienza straordinaria. 

Poi, nel tardo pomeriggio, un’altra esperienza di carità e solidarietà con gli anziani della Santa Casa della Misericordia di Amadora. In questo momento siamo stati anche sostenuti dalla gioia dei bambini della scuola che opera nella stessa struttura.

La sera ognuno dei nostri gruppi ha organizzato una sua presentazione; narrato le attività missionarie che svolgono nei rispettivi paesi; spiegato le sfide che stanno affrontano in ogni luogo i Missionari, le Missionarie e i Laici della Consolata. Un elemento presente in tutte queste narrazioni, peraltro molto variate, è la comune preoccupazione per la realtà giovanile che non bisogna abbandonare, ne va del futuro della chiesa e della missione. Abbiamo potuto sentire la voce di giovani provenienti da tre continenti: America, Africa ed Europa. Tra i rappresentanti del Brasile, c'era anche una coppia che rappresentava i Missionari Laici della Consolata: il loro esempio è stato significativo per tutti i genitori: da anni in missione con i figli che oggi hanno 16 e 19 anni.

La serata si è chiusa con una celebrazione culturale dove tutti hanno ballato e presentato danze proprie del loro paese con bellissimi indumenti. Questa sera, nel Parco Eduardo VII, parteciperemo alla cerimonia ufficiale di benvenuto con il Santo Padre. 

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Gli atteggiamenti, che possono essere definiti come la tendenza ad agire in un certo modo, li apprendiamo nel corso della nostra vita: sono il risultato dell'esperienza e orientati ad ottenere un certo fine. Il beato Giuseppe Allamano ha proposto alcuni atteggiamenti che ogni Missionario della Consolata dovrebbe avere e di cui voglio parlarvi in dettaglio qui di seguito.

La passione missionaria

La passione missionaria è sinonimo di ardore missionario o zelo apostolico. È lo spirito più tipico dell'evangelizzatore perché l'evangelizzazione procede anche grazie alla passione missionaria degli evangelizzatori. L'ardore missionario era come quello che appassionava Gesù: la suprema preoccupazione per il Regno di Dio e la gloria del Padre che si manifesta nella salvezza integrale degli uomini. Gli evangelizzatori con passione missionaria sono aperti all'azione dello Spirito Santo dal momento che, come ci ricorda papa Francesco, “lo Spirito Santo infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente. (EG, 259).  

Anche il Beato Giuseppe Allamano è stato un missionario totalmente appassionato della causa del Regno di Dio e della sua estensione nei luoghi dove non era ancora conosciuto. Per lui non si trattava di essere semplici missionari, ma missionari con ardore apostolico. Al riguardo ci ricorda che “l’ardore apostolico è il carattere proprio del missionario e della missionaria. Non si va in missione per capriccio, o per turismo, ma unicamente per amore di Dio, che è inseparabile dall’amore del prossimo. Non solo dunque come cristiani, ma anche e più come missionari, abbiamo l’impegno di procurare la gloria di Dio collaborando alla salvezza delle anime" (Così vi voglio n. 121).

Poi l'Allamano chiarisce che la passione missionaria è strettamente legata alla carità e per questo, “Il vero apostolo è infiammato dalla carità, cioè dalla passione di far conoscere il Signore e di farlo amare, cerca il bene delle persone e non di se stesso” (Così vi voglio n. 122). L'amore per Dio provoca lo zelo per la missione e quello zelo è il fuoco che accende il missionario nel suo apostolato. Senza di esso è difficile essere veri missionari in modo tale che, secondo l'Allamano, “non saranno mai missionari o missionarie quanti non ardono di questo fuoco divino!” (Così vi voglio n. 122). 

Per concludere la passione missionaria è legata anche alla scienza e allo studio. Ogni epoca ha le sue sfide, e la scienza missionaria aiuta a contestualizzare e valorizzare con nuovi metodi e nuove espressioni il nostro lavoro missionario. Giuseppe Allamano lo diceva in questo modo: “il nostro impegno apostolico deve essere completato e perfezionato dalla scienza. (...) È necessario sapere e studiare; bisogna fin d’ora procurarsi la scienza necessaria, non aspettare la scienza infusa. (...) In missione ci vuole anche scienza” (Così vi voglio n. 122).

Energia e costanza

Sono atteggiamenti tipici degli evangelizzatori. L'energia evita lo scoraggiamento nei momenti in cui i risultati attesi sono scarsi. A questo proposito il Beato Giuseppe Allamano ricordava che “più lavoro c’è e più se ne fa; ma bisogna lavorare con energia, che è la caratteristica del missionario. Un vero missionario e una vera missionaria sanno raddoppiare le forze. Se si è attivi, si ha sempre tempo per tutto e ancora tempo di avanzo” (Così vi voglio n. 126). L'energia missionaria deve essere accompagnata dalla forza poiché “lo scopo dell’Istituto è di formare missionari e missionarie eroici! Non vi è infelicità più grande che vivere rilassati in comunità. Il Signore non favorisce la pigrizia. Nella via della perfezione non dobbiamo trascinarci mollemente, ma adoperare il pungolo!" (Così vi voglio n. 128).

Allo stesso modo, è tipico del missionario avere come atteggiamento la costanza e a questo proposito afferma: “quando si è conosciuto che una cosa è di dovere, bisogna andare fino in fondo. È necessario sapersi dominare, in modo da essere sempre uguali a se stessi. (...) Bisogna servire il Signore con fedeltà costante ed energica. Per fare un vero missionario, una vera missionaria ci vuole spirito e volontà, indefettibile costanza ed equilibrio di spirito” (Così vi voglio n. 129). Per questo, un missionario senza energia e perseveranza raramente riuscirà a creare un impatto nella sua evangelizzazione.

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Lo spirito di famiglia

Lo spirito di famiglia è una caratteristica peculiare dei Missionari e Missionarie della Consolata. Spiega in proposito il beato Allamano: “ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme, prepararvi assieme, per poi lavorare assieme per tutta la vita. Nell’Istituto dobbiamo formare una cosa sola fino a dare la vita gli uni per gli altri” (Così vi voglio n. 134). Lo spirito di famiglia è la testimonianza della carità del missionario che si manifesta in questi aspetti: gioire delle gioie degli altri; soffrire con chi soffre; correggere i propri difetti per amore e sopportare quelli degli altri; perdonare le offese.

Lo spirito di famiglia anima la vita quotidiana del missionario della Consolata. È la raccomandazione che Giuseppe Allamano ripeteva spesso ai suoi missionari: “voglio che ci sia una carità fiorita. Non potrete amare il prossimo lontano, se fin d’ora non avete carità verso quelli con i quali trattate tutti i giorni. Se non si è ben fondati nella carità fraterna, in certe circostanze non si saprà superare le difficoltà, e allora si sarà tentati di chiedere di essere tolti o che venga cambiato quel compagno o quella compagna! Ma che cambiare! Cambia tu e tutto resta a posto” (Così vi voglio n. 131).

Spirito di sacrificio

Lo spirito di sacrificio deve sempre caratterizzare i missionari della Consolata. Il sacrificio dei missionari è ispirato dalla croce di Gesù Cristo, poiché Egli è il prototipo di ogni sacrificio. Non c'è vita missionaria senza croce e spirito di sacrificio. Lo ribadisce il beato Giuseppe Allamano: “bisogna che tutti ci persuadiamo della necessità del sacrificio per essere veri discepoli di nostro Signore. Non dimenticate mai che siete apostoli e che le anime si salvano con il sacrificio. Nella vita apostolica ci sono tante rose, ma anche tante spine, riguardo sia al corpo che allo spirito. Qualcuno si figura l’ideale missionario tutto poetico, dimenticando che le anime non si salvano che con la croce e dalla croce, come fece Gesù” (Così vi voglio n. 136).

Lo spirito di sacrificio deve essere accompagnato dalla mortificazione, perché i missionari senza lo spirito di mortificazione non possono fare molto; La mortificazione esterna ed interna è necessaria per tutti gli annunciatori del Vangelo.

Pazienza, umiltà e mansuetudine.

Pazienza, umiltà e mansuetudine sono atteggiamenti essenziali per la vita missionaria. La pazienza è una virtù che deve essere praticata in ogni momento. Questa virtù è estremamente importante perché “la maggiore o minore pazienza nel missionario e nella missionaria incide molto sulla conversione delle persone” (Così vi voglio n. 139). “Senza pazienza non c’è pace nel cuore, non c’è pace nella comunità, non c’è pace nel mondo” (Così vi voglio n. 140). 

L'umiltà è un altro atteggiamento che ogni missionario dovrebbe abbracciare. Gesù Cristo è l'esempio di umiltà che dobbiamo imitare. L'umiltà è la manifestazione della fede nel Signore. La mancanza di questa virtù è sinonimo di incredulità. Il beato Allamano afferma a questo proposito: “come potrà il superbo sottomettere il proprio intelletto e la ragione all’autorità della Chiesa? Chi è superbo non crede. Come infatti si affiderà tutto a Dio chi confida soltanto in se stesso? Il superbo ama se stesso e non il Signore” (Così vi voglio n. 142). L'umiltà è molto necessaria nel ministero dei missionari poiché è un servizio e dobbiamo viverlo come Gesù ci insegna (Lc 22,26).

La mansuetudine è anche molto necessaria per il servizio missionario. È una virtù strettamente correlata alla pazienza e all'umiltà e non è una virtù facoltativa, ma piuttosto è obbligatoria nel Vangelo. È una virtù morale necessaria nei rapporti con gli altri e in vista del bene che vogliamo offrire loro. È il controllo su se stessi, è il modo in cui reagiamo a ciò che ci rende violenti o ci irrita. La mansuetudine è la virtù dei pacifici, che sono coraggiosi senza violenza, che sono forti senza essere duri. È una virtù assolutamente necessaria nella vita quotidiana dei missionari. Lo dice il beato Giuseppe Allamano: “la mansuetudine, quando sarete in missione, sarà per voi di una importanza straordinaria (...) L’esperienza prova che i missionari e le missionarie fanno del bene in quanto sono miti. Non dimenticate mai quanta importanza io dia a questa virtù” (Così vi voglio n. 124).

Conclusione

Il beato Giuseppe Allamano è stato uno straordinario missionario di Gesù Cristo. È il Padre e il Maestro dei missionari della Consolata. Egli è perenne ispiratore della missione Ad gentes, carisma che caratterizza i due istituti missionari da lui fondati. Per questo gli atteggiamenti missionari da lui proposti aiutano ogni missionario a svolgere con successo ed entusiasmo l'opera evangelizzatrice.

* Lawrence Ssimbwa è missionario della Consolata e lavora con la popolazione afro della diocesi di Bueventura in Colombia.

 

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Il servizio della formazione è parte integrante della missione. I missionari della Consolata arrivarono in Costa d’Avorio nel 1996 e...

Ucraina. Padre Luca Bovio torna a Kharkiv

15-01-2025 I missionari dicono

Ucraina. Padre Luca Bovio torna a Kharkiv

Padre Luca Bovio, missionario della Consolata italiano in Polonia, da tre anni compie viaggi di solidarietà in Ucraina. Ci è tornato...

Suor Dorothy Stang, uccisa 20 anni fa per aver difeso i contadini dell’Amazzonia

14-01-2025 Notizie

Suor Dorothy Stang, uccisa 20 anni fa per aver difeso i contadini dell’Amazzonia

Una veglia il 10 gennaio nella basilica di San Bartolomeo all’Isola, a Roma, per la religiosa americana uccisa per la...

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