Alcune riflessioni di Mons. Roberto Repole, l’arcivescovo di Torino e teologo, in dialogo con la biblista Rosanna Virgili nel Festival della Missione di Milano, a proposito del tema della fraternità.

Per troppo tempo noi abbiamo creduto che dei paesi cristiani portassero il vangelo a dei paesi non cristiani, quasi che i primi non avessero bisogno del vangelo e il bisogno ce l'avessero solo gli altri. 

Noi dobbiamo andare più in profondità: non solo abbiamo a volte portato il vangelo con uno stile violento, per cui alla fine non abbiamo portato il vangelo, ma ci siamo anche illusi che il vangelo riguardasse solo degli altri come se i recettori della missione fossero altri e non più noi. Qui c'è una provocazione molto seria. In che misura possiamo dire di essere veramente evangelizzati e soprattutto possiamo pensare che l'evangelizzazione sia qualcosa di statico, avvenuto una volta e poi non avremmo più bisogno di evangelizzazione e neppure di conversione.

Ricordo il teologo Ives Congar che, nei lavori conciliari, disse qualcosa di molto vero: "c'è sempre una parte di noi non evangelizzata". Forse oggi dovremmo prendere confidenza con il fatto che l'europa cristiana non lo è più nemmeno numericamente. Milano e Torino... sono città di missione. Occorre ritornare ad offrire l'annuncio evangelico. Illudersi che viviamo in un contesto cristianizzato è precisamente questo: un'illusione.

Come cristiani abbiamo una certa difficoltà ad abitare lo spazio pubblico con la piena fiducia nel vangelo. È più facile vedere la nostra presenza pubblica spesso mettendo tra parentesi alcune delle cose fondamentali che ci identificano; invece la grande sfida è la capacità di fare del vangelo anche una proposta per la vita e le nostre relazioni nel mondo civile.

Un filosofo francese, Marcel Gauchet, in un suo libro fa una interessante osservazione e dice che “le democrazie nascono come esito ultimo del processo di secolarizzazione dove si mette tra parentesi l’assoluto e il sacro e le società si costituiscono sulla base del consenso degli aderenti. Ma il loro paradosso è che nascono facendo fuori i valori assoluti ma senza qualcosa di sacro sembrano non sapere vivere”.

Per questo penso che non dobbiamo avere paura a portare nella vita civile i nostri valori e fare si che le comunità cristiane concorrano al buon funzionamento del sistema democratico che si basa sulla conoscenza delle identità paritaria degli uomini e delle donne. Ma come farlo?

Qui arriviamo a un punto particolarmente impegnativo precisamente perché abbiamo fatto fatica come chiesa ad abitare il contesto democratico e corriamo il pericolo di dire che lo facciamo solo offrendo valori condivisi da tutti. Ma noi abitiamo lo spazio pubblico semplicemente perché vogliamo essere alfieri di alcuni valori condivisi da tutti a prescindere del vangelo o perché crediamo che nel vangelo, che non viene da noi, ci sono dei valori che riteniamo umanizzanti per noi e anche per gli altri? 

E quali sono i valori che vogliamo offrire? Sono soltanto il valore della vita o di una morte che non ci appartiene? ma la misericordia per esempio può essere negoziabile per noi cristiani? Io penso di no, se no togliamo qualcosa di fondamentale per il vangelo. Lo stesso, la possibilità di essere ricreati con il perdono? Può essere negoziabile?

La sfida che abbiamo è quella di portare delle ragioni che mostrino la forza umanizzante del vangelo e dei valori che lo compongono. Offrire ad altri che non si identificano con la fede cristiana la possibilità di riconoscere che questo fa bene all'umanità di tutti, credenti e non credenti. 

Evidentemente offrire ragioni non può essere solo un fatto intelletualistico, per questo il valore della fraternità deve essere  prima vissuta fra di noi. Se il perdono reciproco e la misericordia hanno senso nel nostro vivere comunitario... solo così abbiamo qualcosa da proporre per la vita comunitaria e democratica.

Probabilmente la risposta ce la da il cammino di sinodalità e di fraternità che ci propone Papa Francesco: se sappiamo prenderci cura uno dell'altro senza rivendicazioni, potremmo essere un piccolo segno nelle nostre società per costruire una fraternità più grande e una democrazia che faccia crescere la società con dinamismi più fraterni... potrebbe essere un apporto bello della chiesa alla società civile.

C’è un’immagine che appartiene ai padri della chiesa che mi sembra molto bella: “la chiesa è come quella tunica di Gesú crocefisso che non è tagliata ma è fatta di tantissimi colori: quelli di una umanità variata ma condivisa”. Quando la domenica andiamo a messa nel credo la prima cosa che professiamo della chiesa è la sua unità che non si rompe anche se è composta da uomini e donne provenienti da mondi e culture spesso molto diverse. Essere credenti e pensare di non avere a che fare con il mussulmano, con il diversamente credente, con l'ateo è non aver assimilato il DNA del cristianesimo e quando ci sono cristiani che pensano di difendere la loro identità tagliando ponti e non aprendosi al dialogo credo che abbiamo a che fare con cristiani con una identità molto debole. 

Evidentemente la fraternità non è facile: vivere insieme ad altri ha la sua fatica. Per quello è bene ricordare che la fraternità è un dono, è un sogno ma anche un compito faticoso. Alla fine la sfida di una fraternità reale e appassionata è un cammino concreto di evangelizzazione e anche lo spazio giusto che, come cristiani, possiamo occupare in questo mondo per farlo crescere in umanità.

* Roberto Repole è vescovo di Torino e Susa

Nel video tutti i contenuti dell'intervista

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