Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti (Libano), durante il briefing di oggi per i giornalisti, nella Sala stampa della Santa Sede. Il suo invito, espresso anche nell’aula del Sinodo: “Liberiamoci tutti della paura dell’altro”
Vengo da un Paese a fuoco e sangue da cinquant’anni ormai. Nel 1975 è cominciata la guerra in Libano sotto il pretesto di una guerra religiosa e confessionale, soprattutto tra musulmani e cristiani. Cinquant’anni dopo, non sono riusciti a far capire che non è per tutto una guerra di confessione o di religione. È una guerra che ci è stata imposta, al Libano, un “Paese messaggio”, come diceva sempre Papa san Giovanni Paolo ii; un Paese messaggio, di convivialità, di libertà, di democrazia, di vita nel rispetto delle diversità. Anche il Santo Padre, Papa Francesco, porta questo.
Il Libano è un messaggio di pace e dovrebbe restare un messaggio di pace. È l’unico Paese nel Medio Oriente dove possono vivere insieme cristiani, musulmani, ebrei, nel rispetto delle loro diversità, in una nazione che è una “nazione modello”, come diceva Papa Benedetto xvi. Venire qui, in questa situazione, per parlare del Sinodo, sarebbe complesso; anche per parlare di perdono, che Papa Francesco ha preso come segno per questa Seconda sessione, sarebbe ancora più complesso. Sì, vengo qui per parlare di perdono e riconciliazione, mentre il mio Paese, il mio popolo, soffre, subisce le conseguenze delle guerre, dei conflitti, della violenza, della vendetta, dell’odio.
Noi libanesi vogliamo sempre condannare l’odio, la vendetta, la violenza. Vogliamo costruire la pace. Siamo capaci di farlo. Se Papa Francesco ha scelto il perdono, per noi e per me, è un grande messaggio da dare. Parlare di perdono quando i bombardamenti colpiscono tutto il Libano, sarebbe impossibile? No. In tutto questo, la popolazione del Libano rifiuta, come sempre, il linguaggio dell’odio e della vendetta. Il perdono l’ho vissuto personalmente. Quando avevo cinque anni è venuto qualcuno a casa nostra e ha assassinato selvaggiamente i miei genitori. Ho una zia monaca nell’ordine libanese maronita. È venuta a casa nostra a prendere noi, quattro bambini — il più grande aveva sei anni, il più piccolo due —; ci ha preso nel suo monastero e in chiesa ci ha invitato a metterci in ginocchio e a pregare; pregare Dio di misericordia, di amore. Ci disse: “Non preghiamo tanto per i vostri genitori, sono martiri presso Dio; preghiamo piuttosto per quello che li ha assassinati e cercate di perdonare nel corso della vostra vita. Così sarete i figli del vostro Padre che è nei cieli”.
“Se amate quelli che vi amano — dice Gesù — che merito avete? Amate i vostri nemici. Pregate per quelli che vi perseguitano. Sarete allora discepoli di Cristo e figli del Padre vostro”. Abbiamo portato questo nel nostro cuore, noi, quattro bambini. E il Signore non ci ha mai abbandonato; ci ha preso, ci ha accompagnato, per poter vivere questo perdono.
Dopo miei studi, qui a Roma, da seminarista, sono tornato per l’ordinazione. A 24 anni ho scelto l’anniversario dell’assassinio dei miei genitori che era la vigilia della festa dell’Esaltazione della Santa Croce — una grande festa per noi Chiese orientali — solo per dire che “il chicco di grano se cade in terra e non muore non dà frutto” e siamo noi — ho detto — il frutto di questo chicco di grano voluto da Dio. Sì, è la volontà di Dio che i nostri genitori hanno accettato e che noi abbiamo vissuto. E io ho detto: rinnovo la mia promessa di perdono, perdonare tutti quelli che ci fanno del male.
Briefing per i giornalisti nella Sala stampa della Santa Sede, sabato 5 ottobre 2024
Poi qualche mese dopo parlavo in un ritiro ai giovani nostri lì, in Libano, che eravamo ai primi anni di guerra nel 1977-’78. Venivo a parlare del sacramento della riconciliazione e del perdono. Ho sentito che non mi capivano: erano tutti armati per fare la guerra contro i nostri nemici. Dopo 4 ore del nostro discorso ho sentito che il messaggio non passava. Allora ho detto: vi do la mia testimonianza personale; e ho raccontato ai miei giovani libanesi quello che ho vissuto e che ho rinnovato con il perdono e la riconciliazione. Dopo un tempo di silenzio un giovane si è messo in piedi e ha osato chiedermi: “Padre suppongo che hai perdonato, però immagina che adesso tu prete sei nel confessionale e questo tipo ti viene, si mette davanti a te, si confessa e ti chiede perdono, cosa farai?” — la risposta non era facile. Poi ho detto: grazie della domanda, perché adesso ho capito cosa vuol dire perdonare. Perché è vero che io ho perdonato, ma adesso io vedo che ho perdonato da lontano, non l’avevo mai visto questo tipo. Oggi si viene a mettere lì, davanti a me... Sono anche uomo, ho i miei sentimenti, però finalmente sì, gli do l’assoluzione e il perdono; ma dico a voi giovani libanesi che ho capito perché il perdono è tanto difficile, ma non è impossibile. Vi capisco, ma è possibile viverlo se vogliamo essere discepoli di Cristo, sulla terra di Cristo. Sulla Croce Gesù ha perdonato, noi siamo capaci di perdonare, e vi dico di più: tutti questi che ci fanno la guerra, che consideriamo nemici — israeliani, palestinesi, siriani, di tutte le nazionalità — questi non sono nemici, perché? Perché quelli che fomentano la guerra non hanno identità, non hanno confessione, non hanno religione; ma gli altri, i popoli, vogliono la pace, vogliono vivere in pace sulla terra della pace di Gesù Cristo, re della pace.
Perciò, anche oggi, nonostante tutto quello che succede — 50 anni di guerra cieca, selvaggia —, nonostante tutto, noi come popoli di tutte le culture di tutte le confessioni, vogliamo la pace, siamo capaci di costruire la pace. Lasciamo da parte i nostri politici, i nostri e quelli del mondo, le grandi potenze: loro fanno i loro interessi al conto nostro. Però noi come popoli non vogliamo tutto questo: lo rifiutiamo. Verrà il giorno che avremo l’occasione di far passare il nostro messaggio, dire la nostra parola al mondo intero: Basta! Basta con questa vendetta, con questo odio, con queste guerre, basta! Lasciateci costruire la pace almeno per i nostri bambini, per le generazioni future che hanno diritto di vivere in pace. Ecco questo che ho capito dal messaggio di Papa Francesco quando ha chiamato a fare, a vivere insieme la sinodalità — che è tuttora una pratica nelle nostre Chiese orientali —: ha chiesto a tutta la Chiesa di cominciare a vivere il perdono, la riconciliazione, la conversione personale e comunitaria per poter camminare insieme verso la costruzione del regno di Dio. Sì, vogliamo farlo, possiamo farlo!
L'assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi nell'Aula Paolo VI a Roma
Penso che la più grande decisione da prendere sia che la Chiesa, attraverso questo Sinodo, sia messaggera di un vivere insieme, cioè nell’ascoltare l’altro, rispettare l’altro, dialogare con l’altro, rispettarlo e poi liberarci dalla paura dell’altro. Liberarci da questa paura, perché ci abita. Penso questo sarebbe un primo passo come grande raccomandazione di questo Sinodo all’umanità.
* Monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti (Libano). Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va