Dopo l'Angelus, Francesco lancia i suoi appelli alla fine della violenza in Sudan, dove chiede di fermare un conflitto che “ha provocato una gravissima situazione umanitaria”, e nel Nord del Mozambico. Il pensiero all’Ucraina e alla Palestina. Nel pomeriggio l’inizio degli esercizi spirituali con l’invito ai fedeli, in questo tempo di Quaresima e di preparazione al Giubileo, “a dedicare momenti specifici per raccogliersi alla presenza del Signore”

La violenza che da dieci mesi devasta il Sudan e che dilaga in Mozambico, e poi conflitti che insanguinano le altre parti del mondo, come la Palestina e l’Ucraina. Sono questi la dimostrazione che “la guerra è una sconfitta”. Francesco non smette di ripeterlo e lo fa anche oggi, nei saluti dopo la recita dell’Angelus, nella prima domenica di Quaresima.

Non dimentichiamo: la guerra sempre è una sconfitta, sempre. Ovunque si combatte le popolazioni sono sfinite, sono stanche della guerra, che come sempre è inutile e inconcludente, e porterà solo morte, solo distruzione, e non porterà mai la soluzione del problema. Preghiamo invece senza stancarci, perché la preghiera è efficace, e chiediamo al Signore il dono di menti e di cuori che si dedichino concretamente alla pace.

L'appello per il Sudan 

L’appello del Papa è rivolto al Sudan, dove il 15 aprile del 2023 è iniziato un conflitto che vede contrapposti l’esercito sudanese e il gruppo paramilitare conosciuto come RSF, le "Forze di supporto rapido" e che, dice Francesco, “ha provocato una gravissima situazione umanitaria”.

Chiedo di nuovo alle parti belligeranti di fermare questa guerra, che fa tanto male alla gente e al futuro del Paese. Preghiamo perché si trovino presto vie di pace per costruire l’avvenire del caro Sudan.

La violenza in Mozambico

Lo sguardo del Pontefice resta in Africa, si sposta sul Nord del Mozambico, anche questa un’area destabilizzata dalla violenza delle milizie armate.

La violenza contro popolazioni inermi, la distruzione di infrastrutture e l’insicurezza dilagano nuovamente nella provincia di Cabo Delgado, in Mozambico, dove nei giorni scorsi è stata anche incendiata la missione cattolica di Nostra Signora d’Africa a Mazeze. Preghiamo perché la pace torni in quella regione martoriata.

Dedicarsi al raccoglimento

La voce di Francesco si estende dal Sudan e dal Mozambico a tutti gli altri conflitti che insanguinano il continente africano e le altre parti del mondo, come in Europa quello in Ucraina, e quello in Palestina. Nel congedarsi dai fedeli, e salutando i presenti in piazza provenienti da diverse parti del mondo, tra loro anche coltivatori e allevatori, il Papa ricorda che da oggi pomeriggio, inizierà gli esercizi spirituali “con i collaboratori della Curia”, e invita tutti i fedeli “in questo tempo di Quaresima e lungo quest’anno di preparazione al Giubileo, che è Anno della preghiera, a dedicare momenti specifici per raccogliersi alla presenza del Signore”.

* Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano. Fonte: Vatican News

Nel Paese africano sono almeno 12 mila le vittime di un conflitto che, dopo quasi 10 mesi, sta radicalizzandosi tra tensioni etniche e infiltrazioni dall’estero

Purtroppo, vi è un’algida classificazione per quanto riguarda le aree di conflitto a livello planetario: guerre di serie A e guerre di serie B. Un inganno istigato dal sistema massmediale mainstream per cui alcune aree del pianeta sono coperte dalla stampa internazionale, altre finiscono nel dimenticatoio.

Emblematico è il caso del Sudan dove, dopo quasi dieci mesi di combattimenti, è fallito ogni tentativo di mediazione con il risultato che si sono radicalizzate le posizioni tra gli opposti schieramenti, sostenuti da potentati stranieri. Eppure, stiamo parlando di un conflitto che ha generato il più alto numero al mondo di sfollati interni, oltre 11 milioni; mentre i rifugiati sono più di 3 milioni, disseminati in Egitto, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea.

Secondo l’Onu, metà della popolazione sudanese — circa 25 milioni di persone — ha bisogno di assistenza umanitaria e protezione. Fonti ben informate della società civile denunciano l’inasprimento dei toni fra i due principali antagonisti, il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo della giunta militare e capo di stato maggiore dell’esercito regolare (Saf), e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto con il soprannome di Hemeti, comandante delle Forze di supporto rapido (Rsf), le milizie associate al potere fino al momento dello scoppio della guerra civile.

Come se non bastasse, si sta affermando lo spettro di una frammentazione su basi etniche, con il rischio di infiltrazioni di stampo jihadista. Infatti, sono scesi in campo altre formazioni ribelli. Oltre ai due principali contendenti vengono segnalati combattenti dello Sla (Esercito per la liberazione del Sudan) di Abdel Waid al-Nur che ha le sue roccaforti nel Jebel Marra in Darfur, e dell’Splm-N (Movimento popolare per la liberazione del Sudan-Nord) che ha le sue basi operative nei Monti Nuba, nel Kordofan meridionale, e che risulta attivo anche nello Stato del Nilo Blu.

Come ben evidenziato da Suliman Baldo, fondatore e presidente dell’organizzazione Sudan transparency and policy tracker, esperto in diritti umani e risoluzione dei conflitti in Africa, è sempre più evidente la proliferazione dei conflitti nel Paese, fuori dal controllo di entrambi le parti, cioè l’esercito regolare (Saf) e le Rsf. In particolare, vengono segnalati numerosi scontri localizzati, connotati etnicamente che testimoniano un crescente stato di anarchia in numerose aree geografiche del Sudan.

Un rapporto di 47 pagine stilato da un gruppo di cinque ricercatori nominati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc), che è stato fatto circolare alla metà del mese scorso, descrive dettagliatamente le dinamiche del conflitto, in particolare nella vasta regione occidentale del Darfur dove è stato violato l’embargo sulle armi da parte di Paesi terzi che avrebbero fornito armi alle Forze di supporto rapido di Hemeti. Nel documento si parla di voli cargo dagli Eau alla città di Amdjaras, nel Ciad orientale. Da lì, fonti locali hanno riferito che armi e munizioni venivano caricate su camion e trasferite nel Darfur in piccoli convogli, per poi essere consegnate alle Rsf.

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 Sudan, una colonna di profughi stipata su camion e mezzi di trasporto.

Il rapporto, inoltre, stima che il bilancio delle vittime della pulizia etnica avvenuta nell’aprile dello scorso anno a El Geneina sarebbe compreso tra le 10.000 e 15.000 unità, superiore dunque alle stime precedenti. Se queste cifre fossero accurate, supererebbero quelle del massacro di Srebrenica del 1995, ricordato come il peggior omicidio di massa avvenuto in Europa dalla Seconda guerra mondiale. Come se non bastasse, il 24 gennaio scorso, l’agenzia statunitense Bloomberg, citando fonti ben informate, ha diffuso la notizia che il governo iraniano avrebbe fornito droni da combattimento all’esercito regolare sudanese, a seguito della ripresa dei rapporti diplomatici tra i due paesi nell’ottobre dello scorso anno.

A questa narrazione occorre aggiungere un altro dato sconfortante. Recentemente il «Kyiv Post» ha pubblicato un video esclusivo in cui si vedono membri delle forze speciali ucraine che interrogano i mercenari del gruppo Wagner, catturati nel Paese africano. Nel filmato sono ben visibili alcuni operatori delle forze speciali del gruppo di combattimento Timur, parte della Direzione dell’intelligence militare ucraina (Gur), mentre esaminano un veicolo militare crivellato da colpi di arma da fuoco della Wagner.

Questo video confermerebbe quanto riportato nel luglio scorso dall’African defense forum, un periodico dell’African command delle forze armate statunitensi (Africom), il quale affermava che il gruppo Wagner aveva addestrato i miliziani delle Rsf, fornendo poi loro materiale bellico attraverso il confine libico. In questo contesto, segnato sempre più da un’internazionalizzazione del conflitto, si evidenzia l’incapacità della diplomazia regionale e internazionale di trovare il bandolo per portare le parti belligeranti a trattare in maniera seria.

Fonte: Vatican News

La notizia che cambia la storia

Dagli altoparlanti che poco prima hanno trasmesso la fanfara con l’inno dello Stato della Città del Vaticano, seguito da un cenno dell'inno nazionale italiano, risuona alle 12 in punto la supplica universale che il Papa, seduto ma idealmente in ginocchio, eleva al cielo per la città di cui è vescovo e per il mondo di cui è pastore. Una supplica di pace, quella del Successore di Pietro, per la martoriata Siria, per lo Yemen sofferente, per l’Ucraina devastata, per l’Armenia e l’Azerbaigian in lotta, per il Sahel e il Corno d’Africa teatri di tensioni e conflitti, per la Corea ancora divisa, per tutti i coloro che sono “obbligati a fuggire dalla propria patria in cerca di un avvenire migliore, rischiando la vita in viaggi estenuanti e in balia di trafficanti senza scrupoli”.

“Lo sguardo e il cuore dei cristiani di tutto il mondo sono rivolti a Betlemme”, esordisce il Papa all’inizio del suo messaggio, dopo gli onori militari e il picchetto della Guardia Svizzera. A Betlemme in questi giorni “regnano dolore e silenzio”, ma è risuonato ugualmente “l’annuncio atteso da secoli”: È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.

"Oggi a Betlemme tra le tenebre della terra si è accesa questa fiamma inestinguibile, oggi sulle oscurità del mondo prevale la luce di Dio, che illumina ogni uomo", scandisce il Papa. "La Scrittura rivela che la sua pace, il suo regno".

Proprio nella Scrittura, ricorda Francesco, al Principe della pace, Gesù, si oppone “il principe di questo mondo” che “seminando morte, agisce contro il Signore”. Lo vediamo in azione a Betlemme quando, dopo la nascita del Salvatore, avviene la strage degli innocenti ordinata da Erode. Lo vediamo in azione oggi con le tante “stragi di innocenti nel mondo”, afferma il Papa: “Nel grembo materno, nelle rotte dei disperati in cerca di speranza, nelle vite di tanti bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra. Sono i piccoli Gesù di oggi, questi bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra, dalle guerre".

Allora dire “sì” al Principe della pace significa dire “no” alla guerra. E questo con coraggio: dire "no" alla guerra, a ogni guerra, alla logica stessa della guerra, viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse. Questo è la guerra: viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse.

La gente non vuole armi ma pane

Ma per dire “no” alla guerra, sottolinea Francesco, bisogna dire “no” alle armi: “Perché, se l’uomo, il cui cuore è instabile e ferito, si trova strumenti di morte tra le mani, prima o poi li userà. E come si può parlare di pace se aumentano la produzione, la vendita e il commercio delle armi?”.

Oggi, come al tempo di Erode, “le trame del male, che si oppongono alla luce divina, si muovono nell’ombra dell’ipocrisia e del nascondimento”: “Quante stragi armate avvengono in un silenzio assordante, all’insaputa di tanti!”, esclama il Pontefice.

La gente, che non vuole armi ma pane, che fatica ad andare avanti e chiede pace, ignora quanti soldi pubblici sono destinati agli armamenti. Eppure dovrebbe saperlo! Se ne parli, se ne scriva, perché si sappiano gli interessi e i guadagni che muovono i fili delle guerre

Lottare contro la povertà

Infine il Papa si rivolge al Figlio di Dio, “fattosi umile Bambino”,  pregandolo perché “ispiri le autorità politiche e tutte le persone di buona volontà affinché si trovino soluzioni idonee a superare i dissidi sociali e politici, per lottare contro le forme di povertà che offendono la dignità delle persone, per appianare le disuguaglianze e per affrontare il doloroso fenomeno delle migrazioni”.

Dal presepe, il Bambino ci chiede di essere voce di chi non ha voce: voce degli innocenti, morti per mancanza di acqua e di pane; voce di quanti non riescono a trovare un lavoro o l’hanno perso; voce di quanti sono obbligati a fuggire dalla propria patria in cerca di un avvenire migliore, rischiando la vita in viaggi estenuanti e in balia di trafficanti senza scrupoli.

Fonte: Vatican News

Lutsk

Questo viaggio si svolge nel cuore dell’estate ed inizia con una prima tappa nella città di Lutsk, la prima che si incontra entrando dalla frontiera più a nord dalla Polonia. Questa città come del resto la regione chiamata Volyn, è la zona più lontana dal fronte. Per questo motivo più di 100 mila rifugiati hanno trovato qui accoglienza. 

I problemi non mancano considerando che la zona è economicamente povera. Nella regione si trovano decine di villaggi medio piccoli e qui la gente sono prevalentemente contadini. In questa zona, fortemente influenzata dalla vicina Polonia, sono avvenuti scontri molto crudeli alla fine delle seconda guerra mondiale. La presenza dei cristiani cattolici è bassa; sono molto più numerosi gli ortodossi. Quasi ogni nostro viaggio è iniziato da qui perché e la strada più diretta per proseguire nel paese arrivando dalla Polonia. Conosciamo il Vescovo Mons Vitalii; la chiesa locale è impegnata nell’aiutare i rifugiati che hanno trovato riparo in questa regione.

Lubieszów

Il giorno successivo di buon mattino ci mettiamo in viaggio insieme a don Paolo, il vicario del Vescovo, in direzione nord verso Lubieszów  a 130 km da Lutsk. Lubieszow e una cittadina di circa 10 mila abitanti posta a soli 20 km. dal confine con la Bielorussia. Lo scopo di questa breve visita è quello di visitare un chiesa e il convento adiacente che il Vescovo vorrebbe dare al nostro Istituto, per una possibile futura presenza di lavoro missionario. La chiesa dedicata ai SS Cirillo e Metodio è stata costruita dai Cappuccini nel XVIII secolo; con la seconda guerra mondiale e l’inizio dell’occupazione russa, i frati hanno dovuto abbandonare tutto. Dopo il convento divenne la stazione della Polizia locale e la chiesa una sala di ginnastica. Quando nel 1992 cadde il muro di Berlino e la democrazia ritornò in Ucraina il complesso fu restituito alla diocesi locale. Oggi la comunità locale e formata da circa 30 fedeli che la domenica partecipano alla S. Messa presieduta da un parroco polacco che vive a 60 km da qui. L’intero edificio ha bisogno di importanti lavori di manutenzione, già iniziati con il cambio del tetto. Vedremo se in futuro il discernimento che faremo coi superiori ci porterà forse un giorno a lavorare in questo luogo. 

Dopo questa breve visita ci dirigiamo verso Kiev che raggiungiamo dopo circa 6 ore di viaggio. Ci alloggiamo in Nunziatura per riprendere il viaggio il giorno successivo in direzione di Cherson. La sera faccio una passeggiata nella centro della città per sgranchire la gambe dopo le lunghe ore di viaggio e per gustare le bellissime chiese e palazzi illuminati. 

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Cherson

La distanza che separa  Kiev da Cherson è di quasi 600 km passando per la strada più diretta e sicura. Il GPS la mostra chiusa ma in realtà è percorribile. Il viaggio ci regala dei paesaggi suggestivi. La giornata calda e soleggiata fa brillare intensamente le sconfinate distese di coltivazioni di girasoli che spesso incontriamo. 

Sono abbastanza numerosi i grandi camion che viaggiano in direzione sud carichi di cereali e frumento per poi essere imbarcati nelle gigantesche navi cargo nel grande porto di Odessa e da li partire per tutto il mondo. Purtroppo i magazzini portuali sono diventati ultimamente obiettivi sensibili e spesso sono stati colpiti causando la perdita di tonnellate di prodotti. Anche il mancato accordo sul grano contribuisce a far lievitare i prezzi a livello mondiale di queste materie prime così importanti per sfamare tantissime povere popolazioni nel mondo.

Torniamo a Cherson per la seconda volta dopo essere stati qui a marzo. La situazione non è cambiata. La città prima occupata e poi liberata è continuamente sotto tiro, giorno e notte. Il fiume è la linea naturale del confine. Abbiamo con noi aiuti sanitari. In particolare abbiamo raccolto pastiglie utili per disinfettare l’acqua. Il 6 giugno  a circa 100 km da qui in direzione nord fu fatta saltare la diga sul fiume a Kakhovka. L’esplosione della diga liberò lungo il tracciato del fiume una piena che travolse e allagò villaggi e città dove ancora oggi non c’è acqua potabile.

A Cherson  il parroco don Massimo ci indica la pareti delle case con il segno lasciato dall’acqua della piena. Molte case sono state invase dall’acqua, quelle più fragili sono state distrutte, alcune persone, rimaste senza niente, sono ospiti in parrocchia.

Cherson è una città disabitata. Prima del conflitto contava con circa 300 mila abitanti. Oggi si stima che siano tra i 20 e i 25 mila. La mattina, nelle zone più lontane dal fiume, troviamo aperto qualche negozio e il mercato, invece nei pressi del fiume non si vede quasi nessuno durante tutto il giorno. I mezzi pubblici, dove è possibile, svolgono ancora il loro servizio e nei pressi delle fermate degli autobus ci sono dei rifugi dove la gente può trovare riparo quando la città è bombardata.

Nel primo pomeriggio le strade dell’intera città si svuotano, i mezzi si fermano e dalle nove di sera fino alle cinque del mattino c’è il coprifuoco. Per motivi di sicurezza è proibito accendere luci nei piani più alti dei palazzi anche se poi sono poche le persone che abitano in posti elevati perché ritenuti troppo pericolosi.

La mattina visitiamo l’ospedale pediatrico della città accompagnati dalla dottoressa responsabile. Ci racconta che prima della guerra qui nascevano annualmente circa 1500 bambini e invece oggi si registrano poco più di una ventina di parti al mese. La sala parto è una semplice stanza con l’occorrente e, a fianco, ce un’altra stanza che è la sala operatoria; quando ci affacciamo vediamo che un intervento è in corso. 

Tutte le attività dell’ospedale sono state trasferite al piano terra. Il quarto piano tempo fa è stato colpito da un razzo, ci è concesso visitarlo brevemente; dal balcone più alto si può vedere tutta la città.

Scendiamo nelle cantine dove si trovano i locali più sicuri. Qui ci sono delle brandine con i sacchi a pelo. Durante gli allarmi questo è il luogo di riparo. A fianco di esso si sta lavorando per organizzare una sala operatoria. 

All’esterno dell’ospedale vediamo un grande generatore di corrente ancora imballato che è arrivato con una serie di aiuti umanitari. La dottoressa ci dice che sarebbe molto utile ma purtroppo non ci sono i cavi per collegarlo e renderlo operativo. Promettiamo cercare di procurarceli.

La parrocchia del sacro cuore, dove siamo ospiti, è uno dei pochi centri di distribuzione di aiuti agli abitanti. Il giorno precedente al nostro arrivo è stata organizzata una distribuzione e a circa mille persone è stato consegnato del cibo. 

Questa distribuzione è rischiosa. Ogni assembramento di persone costituisce un potenziale obiettivo. E’ sufficiente che questa informazione arrivi dalla parte opposta del fiume e si potrebbero avere conseguenze gravi. Per questo motivo il giorno e l’ora della distribuzione sono spesso cambiati e mai fatti con una certa regolarità anche se gli aiuti oggi stanno arrivando con bastante regolarità; senza di essi sarebbe difficile sfamare i cittadini di questo luogo. 

Oltre alla parrocchia in città è stata aperta una mensa organizzata dai padri domenicani che, pur non vivendo qui, assicurano il cibo e ciò che occorre per la distribuzione. Ogni giorno vengono preparati 1000 pasti. Si possono consumare sul posto oppure una rete di volontari li consegna nelle case. Anche la parrocchia greco cattolica della città guidata dai pp. Basiliani è impegnata nella distribuzione degli aiuti. 

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Fedorivka

Nel pomeriggio di questa intensa giornata ci rechiamo in un villaggio fuori città, di nome Fedorivka a situato a poche decine di chilometri a nord di Cherson. Fedorivka è uno dei tanti villaggi colpiti dall’inondazione avvenuta a causa della distruzione della diga. Per arrivare qui occorre passare diversi check point dei militari. Ne vediamo alcuni su una macchina che hanno appena abbattuto un drone: i resti sono ancora visibili e fumanti in un campo non lontano da lì.

Nel villaggio siamo accolti dal responsabile con la moglie. Portiamo un generatore di corrente perché qui gli abitanti non hanno più di due ore di corrente al giorno, troppo poca per tenere carichi i telefonini tutto il giorno; il generatore sarà messo a disposizione nella chiesetta del villaggio. 

Ci accompagnano in una breve visita e ci raccontano che l’acqua dell’inondazione è rimasta stagnante per più di due settimane; il terreno pianeggiante non favoriva il deflusso. Molte case e fienili sono stati trascinati via insieme ad animali. Sacchi di cereali custoditi nei magazzini sono marciti. Chi è rimasto prova ora salvare ciò che è possibile salvare. 

In questi villaggi per motivi igienici esiste ancora il divieto di bere l’acqua dai pozzi. Per questo si cercano alternative come autopompe (una purtroppo si è guastata), acqua in bottiglia e pastiglie disinfettanti. In tutti i campi e attorno al villaggio persiste il cattivo odore del marciume. 

Portiamo del cibo a una coppia di anziani. Ci raccontano che durante il tempo dell’occupazione nella loro casa tenevano nascosti 6 soldati ucraini in fuga ma poi arrivarono le forze speciali russe che li stavano cercando. La signora li nascose in un locale e diede loro il rosario dicendo: “che crediate o no, usatelo!”. Lei stessa informò i russi che non aveva mai visto i militari ucraini e allora questi se ne andarono. Quando si furono allontanati i soldati ucraini, a piedi, scapparono fino a Mikolajow. 

Tornati in città trascorriamo la serata in parrocchia dopo aver fatto una breve passeggiata nei dintorni. Come spiegavo più sopra il quartiere appare deserto e per tutta la notte siamo stati svegliati dal suono delle sirene e dai colpi di artiglieria.

*Missionario della Consolata in Polonia

La città di Kherson si trova nel sud del paese. È costruita interamente sulla sponda occidentale del fiume Dnieper che lì vicino sfocia nel mar Nero. La città e stata occupata all’inizio della guerra alla fine di febbraio del 2022 e liberata l’11 novembre. La liberazione della città purtroppo non ha coinciso con la ritrovata pace. I soldati russi hanno arretrato sulla sponda orientale del fiume e da li costantemente colpiscono la città a poche centinaia di metri, separati soltanto dal fiume.

Qui vive don Massimo, parroco dell’unica parrocchia cattolica della città dedicata al Sacro Cuore, insieme al suo vicario anche lui don Massimo. Lì, con don Leszek Krzyza, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la conferenza episcopale polacca, li abbiamo incontrati nell’ultimo nostro viaggio avvenuto tra il 17 e il 21 marzo. Don Massimo è giovane, ha solo 36 anni ed è nativo proprio di Kherson, guida la parrocchia nella quale e cresciuto da bambino. Abbiamo deciso di venirlo a trovare perché sappiamo che sono poche le persone che qui vengono, cosa da lui molto apprezzata. Ci diamo appuntamento in macchina fuori dalla città per essere da lui accompagnati. Occorre infatti passare diversi check point per entrare. Nell’ultimo controllo dopo aver mostrato i documenti e l’aiuto umanitario che trasportiamo: generatori di corrente e una stufa a legna, il soldato, indicandoci con un cenno che potevamo proseguire, ci dice in inglese «good luck», buona fortuna. 

La città di Kherson prima della guerra aveva 300 mila abitanti, oggi ce ne sono circa 20 mila. Il coprifuoco inizia alle 17.00 col divieto di uscire per le strade ma in realtà –ci spiega don Massimo– già dalle 14.00 nessuno si vede più in giro. C’è un silenzio strano, profondo e triste, interrotto soltanto dai colpi sparati a pochi chilometri che risuonano nell’aria.

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A distanza di un anno chi vive qui riesce a capire dal rumore chi e stato a sparare. Più volte siamo tranquillizzati, non vi preoccupate questi sono i nostri.

Non potendo uscire, trascorriamo il pomeriggio e la serata nella casa parrocchiale. Facciamo lunghe chiacchierate alternando temi allegri che ci fanno sorridere a racconti più seri su quanto accade qui. Ci accorgiamo quanto sia importante l’esserci, l’ascoltarci e il guardarci, molto più prezioso di tanti aiuti materiali che comunque, ringraziando il cielo, non mancano e che sono vitali per le persone che qui cercano di sopravvivere. 

In questo luogo anche la distribuzione degli aiuti e problematica e il problema non è la mancanza di aiuti ma il fatto che le persone si radunano insieme durante la distribuzione e diventando un possibile ed invitante bersaglio. Per questo motivo il giorno e l’ora vengono sempre cambiati. Nonostante la pericolosità e i divieti, alcuni, per essere tra i primi a riceverli, trascorrono la notte all’aperto aspettando.

Don Massimo ci accompagna nel solaio e ci mostra il buco lasciato dal razzo inesploso che è entrato nella soffitta a dicembre e oggi custodito come ricordo dopo essere stato messo in sicurezza lì vicino. Era il 23 dicembre. Le donne stavano preparando la chiesa per il Natale quando improvvisamente il rumore dal tetto. La notizia del “miracolo” aveva fatto velocemente il giro, amplificata dal web. E veramente inspiegabile quello che era accaduto. Tuttavia, la pubblicità fattasi attorno a questo ha preoccupato non poco chi abita qui perché il web è visto anche da coloro che si trovano dalla parte opposta del fiume.

La notte riusciamo a riposare e al mattino di buon’ora ci mettiamo in macchina per visitare la città. Qualche persona cammina per le strade principali per fare un po’ di spesa. Con sorpresa notiamo che funzionano gli autobus anche se non quelli elettrici perché i cavi sono stati tagliati. Tuttavia, l’impressione è quella di una città vuota e triste. Andiamo sulla piazza centrale luogo prima di proteste e poi dei festeggiamenti. Il grande edifico del governatore ha sulla sinistra una parte completamente distrutta, centrata da un razzo, le finestre dell’ultimo piano che si affaccia sulla piazza sono tutte saltate e alcune penzolano nel vuoto. La parete laterale e stata centrata e distrutta.

Nel parco della città camminando con attenzione solo sui vialetti cementati colpiti dalle schegge dell’esplosioni ma evitiamo di calpestare l’erba dei giardini nascondiglio insidioso delle mine sparse dappertutto, ci avvinciamo alla grande torre televisiva che giace sul prato. Sarà lunga oltre 60 metri. Si avvicina a noi una macchina della polizia attirata forse del fatto che stiamo facendo fotografie, ma dopo pochi secondi prosegue oltre. Dai vialetti raccogliamo alcune schegge lasciate dai razzi, sono molto affilate e toccandole si può immaginare il danno che provocano lanciate all’impazzata dalla forza dell’esplosione.

Facciamo ancora un salto davvero breve fino alla sponda del fiume in una delle tante piazze della città che vi si affacciano. A poche centinaia di metri si vede la sponda opposta coperta prima dai canneti e poi la terra ferma. Qui inizia la zona occupata. Rimaniamo solo qualche istante, è pericoloso sostare qua; qualche foto e un breve video e poi ritorniamo in parrocchia.

È domenica mattina e quindi si celebra la Messa coi fedeli che sono circa 20 tra i quali anche tre bambini molto allegri e sorridenti e quasi incuranti del luogo e delle condizioni in cui vivono: apprezzano tanto la cioccolata che regaliamo loro. Era la quarta domenica di quaresima, chiamate laetare (gioire), che qui risuona come un invito da accogliere nella fede e nella speranza.

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Mikolajów

A poche decine di chilometri in direzione ovest quasi sulla sponda del mar Nero si trova la città di Mikolajów che raggiungiamo la domenica stessa. Qui si trova il Santuario di S. Giuseppe che oggi celebra la festa patronale. La città a differenza di Kherson non è stata occupata anche se porta i segni e le ferite dei tentativi di occupazione.

Dopo la celebrazione solenne, presieduta dal vescovo locale della diocesi di Odessa, a cui hanno partecipato decine di fedeli, ci troviamo coi sacerdoti. Tra loro siedono non solo i cattolici ma anche i greco cattolici e un prete ortodosso della chiesa ucraina. Il clima e piacevole e interessanti sono gli argomenti che scambiamo. È presente anche il sindaco della città anche lui cattolico.

Nella piazza principale della città si affacciano due grandi palazzi, uno del sindaco e l’atro opposto del governatore della regione. Il palazzo della regione si presenta con un gigantesco buco causato dallo scoppio di un razzo che lo ha centrato.

Erano le 8.30 di mattina quando avvenne lo scoppio e in quel giorno era convocata una riunione di ufficio. Il governatore fece ritardo e si scusò mandando un messaggio e nel frattempo avvenne l’attacco che causò la morte di oltre 40 persone. Quel ritardo gli salvò la vita. Nel pomeriggio passeggiamo in centro recandoci in quel luogo. Il clima, a differenza di Kherson, è diverso. Sono molte le persone che passeggiano, giovani e bambini corrono con le biciclette in una domenica con le temperature già primaverili. Se non fosse per gli allarmi che di tanto in tanto risuonano, sembrerebbe quasi un ritorno alla normalità.

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Fastow

Il giorno successivo sulla strada per Kiev ci fermiamo a Fastow, una cittadina a circa 100 km di distanza. Qui vive una comunità di Domenicani. Sono molto attivi. Lavorano con un gran numero di laici, giovani soprattutto. Ci accoglie padre Marco, ucraino. Dopo aver mangiato nel locale gestito dai giovani della comunità, visitiamo l’asilo e la scuola elementare. Quasi cento bambini provenienti dalle zone del fronte dove si combatte a Est, hanno trovato qui alloggio e l’accesso alla scuola. Le classi sono ben attrezzate e le insegnati garantiscono un ottimo lavoro. Nel seminterrato sono allestiti tre piccoli locali rifugio. La procedura impone che ad ogni suono di allarme i bambini devo essere qui condotti fino al termine del cessato allarme. Questo purtroppo spesso accade, come nella giornata odierna e alcuni di essi manifestano disagio e sofferenza ogni qualvolta devono qui scendere.

Nel giardino è allestita una tenda da campo sotto la quale ognuno, gratuitamente e in ogni momento, può qui venire e ricevere qualcosa di caldo, scaldato dalla cucina di campo posta all’esterno. Sul fondo della tenda si trova un gran presepio che dà il nome alla tenda.

Questa comunità e impegnata non solo qui, ma anche organizza viaggi al fronte per raggiungere i villaggi e portare aiuti alle famiglie che vivono ancora là. La sfida, ci racconta padre Marco, e quella di poter continuare a ricevere aiuti da distribuire: mensilmente sono circa 200 tonnellate. Anche noi ci impegniamo a organizzare un nuovo invio che possa arrivare qui.

Quasi alla fine di questo viaggio ci raggiunge la notizia dell’arrivo del tir che abbiamo spedito alla città di Zaporoze costantemente sotto attacco: riceviamo un video di ringraziamento del Vescovo locale. Ringrazia anche la comunità dei frati cappuccini a Dnieper ai quali abbiamo mandato un altro trasporto con aiuti e sistemi fotovoltaici che dovrebbero lenire gli effetti della mancanza di energia elettrica.

*Luca Bovio, missionario della Consolata, lavora in Polonia

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XXVIII Domenica del TO / B - “Vendi quello che hai e seguimi”

09-10-2024 Domenica Missionaria

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 Sap 7, 7-11; Sal 89; Eb 4, 12-13; Mc 10,17-30 Scegliere è il verbo che ci serve da filo conduttore...

Parole dell’Allamano: “Santità”

09-10-2024 Allamano sarà Santo

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Un percorso tematico alla scoperta del Fondatore della famiglia della Consolata: Giuseppe Allamano. La quarta e ultima delle parole chiave...

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