Sudan. La guerra più dimenticata

  • , Apr 15, 2025
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Il conflitto con il record mondiale di sfollati

In seguito alla caduta del dittatore Al-Bashir sì è creato un equilibrio precario. Sfociato, nel 2023, in guerra aperta. Le potenze regionali appoggiano una o l’altra parte. Anche la Russia ha interessi per un possibile accesso al Mar Rosso. Intanto l’emergenza umanitaria è enorme.

Sullo sfondo si sentono i colpi che esplodono. Raffiche continue, inframezzate da colpi più forti. «No, non stanno combattendo – spiega la nostra fonte al di là della linea telefonica -, stanno festeggiando. Qui a Port Sudan, la capitale provvisoria del Sudan, c’è una grande felicità per la conquista di un quartiere di Khartoum da parte dell’esercito sudanese. C’è entusiasmo e la gente spara in aria. La guerra però non è finita e temo che il bilancio delle vittime e degli sfollati sia destinato a crescere ancora nei prossimi mesi».

Trascurato dai media internazionali, tutti concentrati sui conflitti in Ucraina e nella Striscia di Gaza, il Sudan è il teatro di un conflitto devastante che rappresenta una delle crisi umanitarie e geopolitiche più complesse degli ultimi anni. Questo conflitto non solo ha destabilizzato il Paese, ma ha anche attirato l’attenzione della comunità internazionale, con diverse potenze regionali e globali che sostengono indirettamente una delle due fazioni.

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Foto: Negrizzia

Gli attori in campo

La guerra, scoppiata nell’aprile 2023, ha visto scontrarsi le Forze armate sudanesi (Saf) e le Rapid support forces (Rsf), una milizia paramilitare. Le forze armate sudanesi, guidate dal generale

Abdel Fattah al-Burhan, rappresentano l’esercito regolare del Paese. Fin dai tempi del presidente dittatore Omar al-Bashir (al potere dal 1989 al 2019), i militari hanno svolto un ruolo centrale nella politica sudanese, spesso intervenendo direttamente negli affari di Stato. D’altra parte, le Rapid support forces (Rsf), comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (noto come Hemeti), sono una milizia nata dalle ceneri dei Janjaweed, un gruppo noto per le atrocità commesse nel Darfur nel corso degli anni 2000.

Le Rsf, pur essendo state formalmente integrate nelle strutture di sicurezza statali, hanno sempre mantenuto una forte autonomia e sono state accusate di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani.

Il conflitto tra Saf e Rsf è scoppiato a causa di tensioni legate alla transizione politica del Sudan verso un governo civile. Dopo la caduta di Omar al-Bashir nel 2019, il Paese ha vissuto un periodo di instabilità, con l’esercito e le Rsf che hanno inizialmente collaborato per mantenere il controllo. Tuttavia, le divergenze sulla futura struttura del potere e sulla riforma delle forze armate hanno portato a uno scontro aperto. «Non ci sarà alcuna negoziazione né compromesso con i gruppi armati che combattono contro lo Stato – ha detto al-Burhan -. Non ci sarà negoziazione né compromesso con chi ha preso le armi contro lo Stato e il popolo. Continueremo sulla strada della vittoria fino a quando ogni centimetro del Paese non sarà liberato dalle Rsf».

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Foto: jrandy-fath-unsplash

Alleanze internazionali

Il conflitto in Sudan non è solo uno scontro interno. In esso si riflettono anche le dinamiche geopolitiche regionali e globali. Diverse potenze internazionali hanno preso posizione, sostenendo indirettamente una delle due fazioni in lotta. L’Egitto, confinante con il Sudan, ha tradizionalmente sostenuto le forze armate, vedendo nell’esercito regolare un baluardo contro l’instabilità nella regione.

Gli Emirati arabi uniti hanno invece sostenuto le Rsf, fornendo armi e finanziamenti. Questo sostegno è legato agli interessi economici degli Emirati nel Paese, in particolare nel settore agricolo e minerario. Le aziende della famiglia di Dagalo controllano le miniere d’oro del Darfur. Secondo un’analisi dell’agenzia di stampa britannica Reuters, nel 2018-2019 una di queste società inviava negli Emirati trenta milioni di dollari in lingotti d’oro ogni tre settimane. Va ricordato che gli Emirati sono il terzo importatore mondiale di oro e che il 75% dell’oro sudanese viene trafficato proprio sul mercato emiratino. Inoltre, in passato, le Rsf hanno collaborato con gli Emirati in operazioni militari nello Yemen contro gli Houthi, rafforzando i legami tra le due parti. «Gli Emirati – ci spiega una fonte locale che vuole mantenere l’anonimato -, inviano tonnellate di armi ai ribelli delle Rsf. Queste armi, in parte acquistate da aziende serbe, in parte da aziende francesi, vengono fatte arrivare in Libia, nelle aree controllate dal generale Khalifa Haftar. Da lì transitano in Ciad per poi arrivare in Darfur». Secondo «The Africa report», gli Emirati avrebbero fatto avere al presidente ciadiano Mahamat Deby, un miliardo di dollari in cambio del sostegno alle Rsf e del via libera al traffico di armi e munizioni sul suo territorio.

Più ambigua invece la posizione della Russia. Mosca ha sempre mostrato interesse per il Sudan. Gruppi paramilitari russi, come il gruppo Wagner, hanno fornito addestramento e supporto alle Rsf, cercando di espandere l’influenza russa in Africa. Negli ultimi mesi, però, si è registrato un avvicinamento tra Mosca e Khartum. In gioco, l’accesso al Mar Rosso, via di transito tra le più importanti del mondo e possibile base strategica dell’esercito russo, in vista di un possibile ritiro dalla Siria. Ufficialmente la Marina militare di Mosca aveva reso nota la volontà di creare un centro logistico in Sudan a novembre 2020: all’epoca si era riferito che nella struttura avrebbero potuto essere presenti contemporaneamente fino a quattro navi russe e che il personale addetto alla base non avrebbe superato le 300 unità. Negli anni si sono poi susseguite notizie, sempre smentite sia da Mosca sia da Khartoum, su accordi falliti o respinti dalla parte sudanese. A fine febbraio il ministro degli Esteri sudanese, Ali Yousef Sharif, al termine dei colloqui con il suo omologo russo Sergei Lavrov, ha annunciato che Mosca e Khartum avrebbero raggiunto «un’intesa reciproca» per la creazione di una base navale russa proprio sul Mar Rosso. Lavrov, dal canto suo, non ha confermato, né ha citato accordi, memorandum, decisioni o firme. Nonostante il silenzio del braccio destro di Vladimir Putin, secondo alcuni analisti, i due Paesi stanno però continuando a trattare su questo punto.

Sfumate invece sono le posizioni di Stati Uniti e Unione europea. Entrambi hanno cercato di mediare un cessate il fuoco, ma senza successo. Hanno condannato le violenze e chiesto una transizione verso un governo civile, ma il loro ruolo rimane limitato rispetto alle potenze regionali.

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Foto: Mohamed Tohami-unsplash

Etiopia, il vicino scomodo

Un ruolo delicato nella partita sudanese è giocato dall’Etiopia. Il nodo della discordia è la Grande diga del millennio etiope che Addis Abeba sta realizzando sul Nilo Azzurro, il principale affluente del Nilo. L’Egitto teme che questo mega sbarramento possa ridurre in modo massiccio il flusso idrico a valle e quindi mettere in crisi i rifornimenti di acqua dolce alla sua popolazione. Il Sudan, altro Paese a valle della diga, si è sempre schierato con Il Cairo fin dai tempi di Omar al-Bashir. La caduta di quest’ultimo non ha cambiato nei fatti la politica di Khartum. Al-Burhan ha continuato a essere un alleato fedele dell’Egitto e quest’ultimo lo ha ripagato con un aperto sostegno nell’attuale conflitto. L’Etiopia ha inizialmente tenuto una posizione più neutrale ma, con il tempo, si è progressivamente avvicinata alle Rsf, in forza anche della sua alleanza strategica con gli Emirati arabi uniti. Questi ultimi hanno sostenuto Addis Abeba anche nella disputa sul triangolo di al-Fashaga, un’area molto fertile sotto la sovranità sudanese, ma abitata da popolazione Amhara (una delle principali componenti del mosaico etnico etiope). Il conflitto è peg- giorato dopo la guerra civile in Tigray, Etiopia (2020), quando il Sudan ha cercato di riprendere il controllo della regione approfittando della crisi etiope. Nonostante periodici negoziati, le tensioni restano alte e la disputa rimane irrisolta, con il rischio di nuovi scontri.

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Pofughi in Darfur. Foto: EU/ECHO

L’Arabia Saudita

Altro attore importante nel teatro sudanese è l’Arabia Saudita. Riad ha forti interessi economici e geopolitici in Sudan, in particolare nella regione del Mar Rosso. Investimenti sauditi nei settori agricolo e infrastrutturale sono significativi, e la stabilità del Sudan è cruciale per la sicurezza marittima e le rotte commerciali saudite. Inoltre, il Sudan è stato un partner militare dell’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, fornendo truppe per la coalizione guidata da Riyad. Ufficialmente il suo coinvolgimento si è concentrato principalmente su una mediazione diplomatica e l’invio di aiuti umanitari. L’Arabia Saudita, insieme agli Stati Uniti, ha facilitato i colloqui di pace tra le fazioni in guerra. A maggio 2023, ha ospitato a Gedda i negoziati tra l’esercito sudanese e le Rsf, allo scopo di ottenere un cessate il fuoco e un accesso umanitario sicuro. Riyad ha fornito assistenza umanitaria al Sudan, inviando aiuti alimentari e medici attraverso il King Salman humanitarian aid and relief center (KSrelief). Inoltre, ha evacuato cittadini sudanesi e stranieri in pericolo durante le fasi più intense del conflitto. Nonostante il suo ruolo di mediatore, alcuni analisti ritengono che l’Arabia Saudita mantenga legami con entrambi gli schieramenti, specialmente con le Rsf, attraverso gli Emirati arabi uniti, un alleato storico di Riad.

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Accampamento di rifugiati sudanesi, in fuga dalla guerra. Foto: Vatican News

Una tragedia umanitaria

Il bilancio umanitario del conflitto è drammatico. Secondo le stime delle Nazioni Unite e di organizzazioni umanitarie, dal suo inizio nel 2023, la guerra ha causato oltre diecimila morti, tra civili, combattenti e personale medico. Le violenze hanno colpito indiscriminatamente la popolazione, con bombardamenti aerei, scontri armati e saccheggi che hanno devastato intere città, in particolare la capitale Khartum e la regione del Darfur.

Secondo le agenzie Onu, il numero di sfollati interni ha superato i cinque milioni, ai quali si aggiungerebbero un milione e mezzo di rifugiati nei Paesi vicini, tra cui Ciad, Sud Sudan, Egitto ed Etiopia. In realtà si sospetta che il numero complessivo di rifugiati e sfollati tocchi gli undici milioni. Molti vivono ai confini con l’Egitto in campi improvvisati, senza accesso a cibo, acqua potabile o assistenza medica. «Al confine tra Sudan ed Egitto – racconta un missionario cattolico che vuole mantenere l’anonimato – esistono campi profughi enormi. Le condizioni sono terribili. Gli sfollati sono abbandonati da tutti e non hanno alcun tipo di assistenza. Le organizzazioni umanitarie (Onu, Pam, Cri, ecc.) non possono fare molto. Esercito e milizie temono che il cibo possa finire nelle mani del nemico e quindi limitano l’accesso alle derrate alimentari e ai farmaci. La situazione è così critica che molti eritrei che erano fuggiti dal durissimo regime di Isaias Afewerki, hanno preferito ritornare a casa piuttosto che patire qui sofferenze inaudite».

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Foto; Yusuf Yassir-unsplash

Nelle zone sotto il diretto controllo dell’esercito, la vita è quasi normale. «Qui a Port Sudan – spiega un altro missionario cattolico – vivono almeno 300mila sfollati. La situazione è calma sotto il profilo dell’ordine pubblico. Non tutto però è semplice. Ci sono problemi a trovare lavoro e non è facile reperire una sistemazione abitativa, perché i prezzi degli affitti sono lievitati. Anche il cibo costa molto. Tanti sono alloggiati in famiglie amiche. La maggior parte però sta in campi profughi». Nonostante ciò, i ragazzi e le ragazze sono tornati a scuola, le strutture religiose sono attive e gli uffici pubblici e privati funzionano.

«Di fronte a questa situazione – conclude il missionario -, la Chiesa cattolica si è attivata per fornire assistenza agli sfollati. Siamo una realtà piccola, ma cerchiamo di fare il massimo che possiamo con i mezzi che abbiamo. Le autorità ci rispettano e lasciano che operiamo. Questa, d’altra parte, non è una guerra di religione. Qui non ci sono musulmani contro cristiani. È una guerra di potere e sia i musulmani sia i cristiani ne sono vittime. Le nostre strutture e quelle islamiche sono attaccate dai ribelli perché interessa loro avere luoghi dove accamparsi e dove rubare legna, mezzi e beni di conforto. Infatti, hanno occupato sia chiese che moschee. Se dobbiamo essere sinceri, le violenze sono state perpetrate soprattutto dalle Rsf. Sono i loro miliziani ad aver ucciso e ad aver compiuto i peggiori atti di vandalismo. Assaltano e distruggono tutto. Fanno tabula rasa».

* Enrico Casale, rivista Missioni Consolata. Pubblicato originalmente in: www.rivistamissioniconsolata.it

Pax Christi, “trattamenti diversi, il rischio è l’indifferenza”

“Si elevi una preghiera dall’umanità tutta verso il cielo affinché non degradiamo nell’indifferenza”. E’ quanto scrive Mosaico di Pace, la rivista del movimento cattolico Pax Christi, fondata da don Tonino Bello, dopo che “la strage delle Palme a Sumy in Ucraina e il bombardamento dell’ultimo ospedale di Gaza City hanno avuto un trattamento diverso tanto dalla politica quanto dall’informazione. Indignazione per la prima e un mezzo silenzio per il secondo”.

“Non credo ci sia solo un calcolo politico di schieramenti e di convenienza ma che piuttosto prevalga una sorta di callo a ciò che appare come inarrestabile e sacrificato ormai alla potenza di fuoco ‘dell’unica democrazia del Medio Oriente'”, sottolinea in un commento dal titolo “Il rischio dell’indifferenza” don Tonio Dell’Olio, sacerdote e attivista della nonviolenza, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi.

“L’indignazione sbiadisce, sfuma, degrada e arriva ad ammettere – oltre ogni computo consapevole – un grado di sofferenza accettabile da infliggere. È il ritorno della guerra. Ma non quella combattuta tra i cavalieri o nelle trincee! È piuttosto quella moderna che si abbatte sulla gente nella vita ordinaria di una festa da celebrare in chiesa o di una malattia da curare in ospedale”.

“Dovrebbe spaventarci perché si tratta di una deriva antropologica in cui il dolore dell’altro ci lascia indifferenti, sembra non riguardarci – aggiunge -. Succede così persino col terremoto in Myanmar. Sembra essere avvenuto vent’anni fa e invece le ferite sono aperte e sanguinano. È urgente correre ai ripari e ritornare alla solidarietà del sapersi tutte sorelle e fratelli sotto lo stesso cielo, sopra la stessa terra”.

Fonte: Mosaico di Pace

“Facciamo pace”, il corso di formazione promosso dal Centro Missionario della Diocesi di Roma. L'intervento del professor Marco Massoni. Quando controllo delle materie prime e leva del debito si trasformano in armi di controllo. Il caso della Repubblica Democratica del Congo

"Signore, disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre “fratello”, e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace, salam! Amen". Con la preghiera di Papa Francesco per la pace, datata 7 giugno 2024, padre Giulio Albanese, mccj, direttore dell’Ufficio per la Cooperazione missionaria della diocesi di Roma, ha inaugurato il terzo incontro del percorso formativo "Facciamo pace". Svoltasi sabato 15 marzo a Roma nell'Aula della Conciliazione del Palazzo Lateranense, la mattinata è stata dedicata al tema “Effetti del neocolonialismo sulla pace nelle periferie del mondo" e ha visto la partecipazione di Marco Massoni, docente all'Università Luiss Guido Carli di Roma.

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"Si vis pacem, para pacem"

L'appuntamento rientra all'interno del corso di formazione missionaria avviato in formato gratuito lo scorso 18 gennaio e articolato in sei incontri a cadenza mensile. L'obiettivo è approfondire le molteplici sfaccettature delle sfide internazionali che stanno caratterizzando il "cambiamento d'epoca" di cui ha spesso parlato Papa Francesco, rivolgendosi a tutti ma in particolare a chi cerca, quotidianamente, di annunciare la gioia del Vangelo, a chi ha il cuore illuminato e trasformato dalla Parola, così ardente da consumarsi d'amore per gli altri. Cioè, rivolgendosi ad animatori missionari, catechisti, insegnanti di religione, operatori pastorali. Che se, da un lato, si recano sul luogo per ascoltare, dialogare e affrontare problemi, dall'altro, hanno urgente bisogno di dotarsi di una bussola per comprendere ciò che avviene nel mondo e per portare ovunque la profezia evangelica indicata dall’indimenticabile don Tonino Bello: "Si vis pacem, para pacem!"

Effetti del neocolonialismo sulla pace nelle periferie del mondo. Con Marco Massoni.

Dinamiche neocolonialiste

Un impegno quasi impossibile se si guarda al palcoscenico internazionale o alle difficoltà sociali che caratterizzano tanti Paesi in varie aree del mondo, eppure proprio per questo necessario. Dunque, dopo i primi due appuntamenti con il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, e con Fabrizio Battistelli, presidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, il terzo incontro è stato dedicato al neocolonialismo. "Una dinamica di dominio economico, politico e culturale che le potenze capitalistiche esercitano sulle ex colonie e su altre aree strategiche del mondo - ha detto il professor Massoni -. Questo fenomeno si radica nel capitalismo finanziario, ovvero nel predominio della finanza globale, delle multinazionali e delle istituzioni economiche internazionali che subordinano i Paesi più deboli agli interessi delle economie avanzate".

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La competizione per le materie prime

Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Myanmar, Nigeria sono conflitti emblematici: è qui che, dietro la produzione di conflitti e guerre che alimenta disuguaglianze, tensioni sociali e crisi politiche, s'annidano gli effetti di quello che Massoni definisce "neocolonialismo". Si combatte, prosegue il docente, per "il controllo delle risorse di cui il Sud del mondo è ricco - petrolio, gas, terre rare, minerali preziosi - e di cui i Paesi più ricchi hanno bisogno per compiere la fantomatica transizione energetica. Il risultato finale è che le élite locali, corrotte o cooptate, garantiscono l'accesso ai capitali stranieri, mentre le popolazioni restano impoverite e marginalizzate. Così la competizione per il controllo delle risorse si allinea con ribellioni e guerre civili".

Il caso di RD Congo

Il caso della Repubblica Democratica del Congo è, in questo senso, esemplare. Ad alimentare la guerra tra le Forze armate di Kinsasha e il gruppo di ribelli M23 sostenuto dal vicino Rwanda non sono solo le irrisolte questioni etniche o geografiche, spesso legate al colonialismo belga dello scorso secolo o al genocidio del 1994. Controllare la regione del Kivu significa controllare rame, coltan e cobalto, ossia materie sempre più strategiche da vendere alle grandi potenze, in primis Stati Uniti e Cina. Esse sono infatti necessarie per realizzare batterie elettriche, pale eoliche o pannelli solari, così come per alimentare gli schermi degli smartphone e dei computer. Non è un caso se, lo scorso 25 febbraio, in un'intervista al The New York Times il presidente congolese Félix Tshisekedi ha reso noto di aver inviato una lettera al dipartimento di Stato Usa in cui viene offerto al presidente Donald Trump l'accesso a tutte le materie prime del Paese in cambio del sostegno contro il gruppo di ribelli M23.

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Tragiche conseguenze

Il risultato di simili incastri geopolitici è che, come riportato dalla Banca Mondiale, la Repubblica Democratica del Congo è tra i cinque Paesi più poveri al mondo. Nel 2024 il 73% della popolazione viveva con meno di 2 dollari al giorno. Ulteriore fardello sono i fenomeni climatici estremi, come frane e inondazioni, alimentati dall’alta concentrazione di popolazione nei centri urbani (la capitale Kinshasa conta 17 milioni di abitanti) e da una crescita demografica superiore al 3 per cento. Perché, prosegue il professor Massoni, "l'imposizione di modelli economici neolibersti distrugge le economie tradizionali, costringendo milioni di persone a migrare".

Così, in RD Congo come in tanti altri casi, Massoni osserva come "il neocolonialismo si traduce in guerre per procura in cui le grandi potenze finanziano gruppi armati rivali per il controllo di territori strategici. Usa, Francia, Russia e cina si contendono Africa e Medio Oriente sostenendo governi o gruppi ribelli, come avvenuto in Libia, Siria, Yemen e Mali. Gli interventi militari diretti (Iraq 2003, Afghanistan 2001) dimostrano come il capitalismo finanziario non esiti a uasre la forza per garantire il dominio delle proprie multinazionali e del sistema bancario internazionale".

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Il padre Giulio Albanese e il fratel Alberto Parise

Scarica la scheda Piste di riflessione del 15 marzo 2025

Le parole di Papa Francesco

Nella Fratelli Tutti (2020) Papa Francesco ha denunciato le nuove forme di colonialismo economico e finanzario, sottolineando come "in vari Paesi poveri le peggiori conseguenze di alcune misure di austerità si registrano nell'abbandono scolastico, nel declino dei servizi sanitari e nel deterioramento delle infrastrutture. Chi lo paga?". Come in tante altre occasioni, il Pontefice ha invitato "la politica a non sottomettersi all'economia e questa non deve sottomettersi ai diktat e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo assolutamente bisogno che la politica e l'economia, in dialogo, si mettano decisamente al servizio della vita".

Un auspicio che risuona ancora più attuale in queste ultime settimane e che si rivolge non solo ai decisori, ma anche a coloro che quotidianamente sono a contatto con la società civile nel mondo. Lo sforzo del Centro missionario diocesano va proprio entro questa direzione. Il prossimo appuntamento sarà il 12 aprile con Maria Grazia Galantino, coordinatrice dell’Area di ricerca di Archivio Disarmo, che spiegherà "Come essere costruttori di pace. L’impegno civile nel contrastare il ricordo alle armi". Il prossimo 17 maggio la giornalista Lucia Bellaspiga terrà una relazione su Guerra e pace nell’informazione giornalistica internazionale, mentre le conclusioni del percorso saranno affidate al comboniano Alberto Parise il prossimo 21 giugno. 

* Guglielmo Gallone - Città del Vaticano. Pubblicato originalmente in: www.vaticannews.va

Il conflitto nel Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo, ha raggiunto nuovi vertici di violenza, con oltre 3mila morti e 500mila sfollati. Sul numero di marzo della rivista Confronti ne parla Enzo Nucci, giornalista, già corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.

Due istantanee dell’orrore per fotografare la violenza degli scontri nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e la colpevole incapacità della comunità internazionale di fermarla. «I container refrigerati e gli obitori sono pieni, saremo impegnati per diversi giorni in sepolture di massa» ha dichiarato al quotidiano francese Le Monde la responsabile della Croce Rossa internazionale a Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu. Tra i cadaveri anche quelli di centinaia di donne violentate e bruciate vive nella sezione femminile di un carcere durante un’evasione di massa. Impossibile stabilire le responsabilità dell’eccidio perché ai peacekeeper della missione dell’Onu (Monusco) è stato impedito di effettuare i sopralluoghi.

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Tutte le iniziative di pace stanno naufragando e il conflitto rischia di espandersi in altre Regioni. Foto: Mondo e Missione

500mila sfollati, 3mila morti, almeno 6mila i feriti tra la popolazione civile sono il parziale bilancio dell’offensiva militare del Movimento 23 marzo (M23) sfociata nell’occupazione di Goma dello scorso 27 gennaio. Ennesima puntata di un radicato conflitto che solo tra il 1997 e il 2003 provocò più di 5 milioni di morti e che ha smesso di essere uno scontro tra eserciti e gruppi armati per trasformarsi in una guerra atipica combattuta da una miriade di bande armate contro inermi civili.

La narrazione degli interessi in gioco è intricata quanto la savana per la molteplicità degli attori impegnati, della competizione interna alle stesse alleanze, degli equilibri geopolitici dell’area, delle ricchezze in ballo: è la cartina di tornasole di quell’Africa complessa e multipolare con cui il mondo si deve confrontare perché distogliere lo sguardo dagli avvenimenti in corso in nome di una convenienza a breve termine potrebbe tra non molto rischiare di aprire il vaso di Pandora.

L’M23 nasce nel 2009 per la mancata integrazione di una precedente milizia nell’esercito governativo congolese: è l’ultimo di una serie di gruppi sostenuti dal Ruanda che affermano di difendere gli interessi delle comunità tutsi che vivono nel Nord-Est del Congo.

Dopo 10 anni di inattività, nel 2021 ha lanciato un’offensiva (appoggiata dall’esercito ruandese) culminata a gennaio con la conquista di Goma, in precedenza occupata solo per alcuni giorni nel 2012. Un successo militare che ha avuto contraccolpi a Kinshasa, capitale della Rdc, dove migliaia di manifestanti (sostenuti da esponenti di governo e dal partito di maggioranza del presidente Tshisekedi) hanno espresso solidarietà ai soldati governativi, assaltato varie ambasciate, accusando inoltre l’Unione europea di finanziare l’esercito di Kigali con 20 milioni di euro per la sua determinante azione nella provincia di Cabo Delgado, nel Nord-Est del Mozambico, per difendere le società energetiche che vi operano (tra cui Eni e Total) dagli agguati dei terroristi islamisti.

Secondo i Rapporti dell’Onu, sono 4mila i militari dell’esercito ruandese che nell’Est del Congo procedono alla sistematica pulizia etnica ricorrendo allo stupro di massa come arma di guerra senza che il Consiglio di Sicurezza e la comunità internazionale adottino provvedimenti concreti contro i soldati del presidente Paul Kagame, al di là di generiche condanne e scontati inviti al ritiro.

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Foto: Flickr/AndrŽ Thiel

Il Ruanda è infatti considerato come uno dei pochi partner affidabili per la sicurezza dell’Occidente, poiché è la Nazione che contribuisce maggiormente e con grande efficienza alla costituzione delle forze di peacekeeping, una reputazione rafforzata dal profilo di Kagame e dai risultati conseguiti nella rinascita del Paese dopo il genocidio del 1994. E dalle sue indubbie capacità diplomatiche che gli garantiscono relazioni amichevoli con Stati Uniti, Inghilterra, Francia che non a caso sono 3 dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Senza dimenticare l’Unione europea che ha sottoscritto con il presidente ruandese un protocollo di intesa (del valore di 900 milioni di euro) per la promozione di «catene di valori sostenibili e resilienti nei minerali critici», tra cui il tantalio. Un accordo che ha scatenato le accuse del Congo contro il Ruanda per il saccheggio delle sue risorse, a partire dal coltan, perpetrato proprio nel Nord Kivu con la complicità dell’ M23: non a caso – sottolinea l’Onu – c’è stato un incremento delle esportazioni di coltan da parte del Ruanda dopo l’occupazione nell’aprile 2024 della zona di Rubaya (nella Rdc) da parte dell’M23.

Tutte le iniziative di pace stanno naufragando e il conflitto rischia di espandersi in altre Regioni. Contro l’espansionismo di Kagame sono schierati i confinanti Burundi e Uganda che hanno sottoscritto con il Congo accordi di cooperazione economica e militare. Kagame intanto accusa il Sudafrica di avere interessi minerari in Congo, spiegando così l’intervento militare di Pretoria nella missione della Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale). Intanto l’M23 ha anche risvegliato conflitti tra popolazioni locali coagulando anche una parte dell’opposizione al presidente congolese. Insomma bisogna fare presto.

Fonte: Confronti. Pubblicato in: www.tracieloeterra.blog

I cadaveri di almeno 70 cristiani decapitati sono stati ritrovati il 14 febbraio in una chiesa protestante del Nord Kivu: un massacro attribuito ai jihadisti delle Adf. Anche l’esercito governativo è allo sbando e terrorizza la popolazione: due sacerdoti e il vescovo di Uvira rapinati da tre soldati con le armi puntate. E l'M23 avanza. L'appello di Open Doors.

Sono almeno 70 i cristiani decapitati rinvenuti il 14 febbraio in una chiesa protestante del Nord Kivu, una delle tre provincie orientali della Repubblica Democratica del Congo nelle quali decine di gruppi armati agiscono quasi incontrastati ormai da decenni. Sono gruppi che combattono per il controllo di territori sempre più estesi e infieriscono sulla popolazione, motivati da divisioni etniche e dall’obiettivo di accedere alle preziose risorse minerarie della regione. Ma uno di questi gruppi, le Allied democratic forces (Adf, Forze democratiche alleate), è spinto anche da un’altra motivazione, con il tempo diventata la principale, quella di combattere in nome di Allah il jihad, la “guerra santa”.

Le Adf si erano formate tra il 1995 e il 1996 in Uganda, sotto la guida di un leader islamista, Jamil Mukulu, per combattere contro il governo. Da oltre 20 anni però hanno trasferito le loro basi nell’est del Congo. Nel 2016 hanno giurato fedeltà all’Isis, lo Stato Islamico, e dal 2019 fanno parte dell’Iscap, la Provincia dell’Africa centrale dello Stato Islamico, insieme ad Ansar al-Sunna, i jihadisti attivi in Mozambico. Sono autori di gravissimi attentati, stragi, attacchi a chiese e strutture della Chiesa, quasi sempre messi a segno in Congo, ma anche in Uganda. 

Anche se non è ancora del tutto chiaro come si siano svolti i fatti, è alle Adf che si attribuisce il massacro dei cristiani uccisi nella chiesa del Nord Kivu. Si sa che nei giorni scorsi il gruppo ha attaccato diversi villaggi nel Lubero, un territorio densamente popolato, mettendone in fuga gli abitanti. Secondo una ricostruzione, il 12 febbraio alle prime ore del giorno hanno raggiunto Mayba, un villaggio della divisione amministrativa rurale di Baswagha, un’area prevalentemente cristiana, e hanno ordinato agli abitanti di uscire dalle loro abitazioni. Ne hanno catturati una ventina e li hanno portati vita. Poi però, nel tardo pomeriggio, sono ritornati, hanno circondato il villaggio e hanno preso altre 50 persone, in pratica gli abitanti che non erano riusciti a fuggire. Hanno portato tutti i prigionieri in una  chiesa della CECA 20 (Comunità evangelica del Centro Africa) di Kasanga, un villaggio vicino, li hanno legati e infine li hanno uccisi a martellate e a colpi di machete.

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Famiglie in fuga dalle violenze nella RD Congo si rifugiano in una scuola nella provincia di Cibitoke, nel nord-ovest del Burundi. Foto: UNHCR/Bernard Ntwari

Secondo un’altra versione dei fatti, ripresa da Open Doors, l’onlus internazionale che aiuta e sostiene i cristiani perseguitati nel mondo, è possibile invece – stando a quanto riportano alcuni siti web di  notizie locali – che le vittime siano state prigioniere delle Adf per diversi giorni prima di essere uccise e si tratterebbe degli abitanti di Kasanga e non del vicino villaggio di Mayba. Nei prossimi giorni forse si avranno informazioni più precise, o forse no, considerando la situazione di totale sbando della regione, soprattutto adesso che un altro gruppo armato, l’M23, ha conquistato il capoluogo del Nord Kivu, Goma.

Open Doors ha diffuso un comunicato di ferma condanna della strage e ha rivolto un appello alla società civile, ai governi e alle organizzazioni internazionali affinché diano priorità alla protezione dei civili nella Repubblica Democratica del Congo orientale. «Le violenze – ha commentato John Samuel, un legale dell’onlus – avvengono in un contesto di impunità, dove quasi nessuno è chiamato a risponderne. Questo massacro è un chiaro indicatore delle diffuse violazioni dei diritti umani contro i civili e le comunità vulnerabili, spesso contro i cristiani, perpetrate dalle Adf».

«Questi atti terroristici – spiegava monsignor Cyrile Kambale, vescovo della diocesi di Beni all’indomani di una delle stragi compiute dalle Adf lo scorso agosto – non sono soltanto una minaccia per la nostra sicurezza, ma continuano anche a impoverire la popolazione cristiana locale. Come cristiani viviamo nella paura ogni giorno, non possiamo continuare a vivere nel terrore che in qualsiasi momento potremmo essere attaccati dagli islamisti».

Invano il vescovo denunciava una situazione insostenibile a causa della frequenza e della ferocia degli attacchi jihadisti. La sua richiesta di interventi urgenti alle autorità governative è caduta nel vuoto. Neanche gli oltre 16 mila caschi blu della Monusco, la missione Onu di peacekeeping, che pure sono dispiegati in gran parte nel Nord e nel Sud Kivu, intervengono, se non occasionalmente, in difesa della popolazione che difatti più volte ne ha attaccato le sedi, furiosa di non esserne protetta.

20250223Congo

Il vescovo della diocesi di Butembo-Beni in visita ai malati mentali dell'ospedale cittadino. Foto: Vatican Media

Quanto all’esercito governativo, le FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo), la gente quasi lo teme quanto i gruppi armati, tante sono le prepotenze, le violenze e gli abusi operati dai militari e che restano impuniti. Il 20 febbraio ha fatto esperienza della loro brutalità persino il vescovo di Uvira, monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe. La città potrebbe presto cadere nelle mani dell’M23 che da Goma si è spinto verso sud, ha già conquistato Bukavu e sta marciando verso Uvira. Per questo in città si è concentrato l’esercito governativo o quel che ne resta, dopo che i suoi soldati, a migliaia, hanno disertato e dopo che i suoi generali si sono messi al sicuro nella capitale Kinshasa, a 2.600 chilometri di distanza.

Il 20 febbraio alcuni soldati sono entrati nel complesso della diocesi di Uvira e hanno aggredito il vescovo e altri sacerdoti. Ecco che cosa è successo, raccontato da uno dei sacerdoti in un comunicato: «Noi, Sua Eccellenza Monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe, Vescovo di Uvira, e i sacerdoti don Ricardo Mukuninwa e don Bernard Kalolero, siamo appena scampati alla morte questa mattina alle 8:30 presso la sede vescovile di Uvira.

Tre soldati delle FARDC in uniforme sono entrati nel complesso della diocesi, minacciando prima il guardiano, il signor Mwamba, e il cuoco, il signor Jean. Sono uscito per incontrarli e chiedere informazioni sulla situazione, ma hanno puntato le armi da fuoco contro tutti noi e ci hanno buttati a terra insieme al Vescovo. Ci hanno rapinato prendendo soldi, telefoni e altri beni. Ci hanno chiuso poi nelle nostre stanze minacciando di ucciderci al minimo gesto, per potere perquisire tutta la casa». «Gloria a Dio, se ne sono andati – conclude il comunicato rivolto ai fedeli –. Se ci cercate sui nostri cellulari, non siamo raggiungibili».

* Anna Bono è sociologa e scrittrice specializzata in Africa. Originalmente pubblicato in: www.lanuovabq.it

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