“Facciamo pace”, il corso di formazione promosso dal Centro Missionario della Diocesi di Roma. L'intervento del professor Marco Massoni. Quando controllo delle materie prime e leva del debito si trasformano in armi di controllo. Il caso della Repubblica Democratica del Congo

"Signore, disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre “fratello”, e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace, salam! Amen". Con la preghiera di Papa Francesco per la pace, datata 7 giugno 2024, padre Giulio Albanese, mccj, direttore dell’Ufficio per la Cooperazione missionaria della diocesi di Roma, ha inaugurato il terzo incontro del percorso formativo "Facciamo pace". Svoltasi sabato 15 marzo a Roma nell'Aula della Conciliazione del Palazzo Lateranense, la mattinata è stata dedicata al tema “Effetti del neocolonialismo sulla pace nelle periferie del mondo" e ha visto la partecipazione di Marco Massoni, docente all'Università Luiss Guido Carli di Roma.

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"Si vis pacem, para pacem"

L'appuntamento rientra all'interno del corso di formazione missionaria avviato in formato gratuito lo scorso 18 gennaio e articolato in sei incontri a cadenza mensile. L'obiettivo è approfondire le molteplici sfaccettature delle sfide internazionali che stanno caratterizzando il "cambiamento d'epoca" di cui ha spesso parlato Papa Francesco, rivolgendosi a tutti ma in particolare a chi cerca, quotidianamente, di annunciare la gioia del Vangelo, a chi ha il cuore illuminato e trasformato dalla Parola, così ardente da consumarsi d'amore per gli altri. Cioè, rivolgendosi ad animatori missionari, catechisti, insegnanti di religione, operatori pastorali. Che se, da un lato, si recano sul luogo per ascoltare, dialogare e affrontare problemi, dall'altro, hanno urgente bisogno di dotarsi di una bussola per comprendere ciò che avviene nel mondo e per portare ovunque la profezia evangelica indicata dall’indimenticabile don Tonino Bello: "Si vis pacem, para pacem!"

Effetti del neocolonialismo sulla pace nelle periferie del mondo. Con Marco Massoni.

Dinamiche neocolonialiste

Un impegno quasi impossibile se si guarda al palcoscenico internazionale o alle difficoltà sociali che caratterizzano tanti Paesi in varie aree del mondo, eppure proprio per questo necessario. Dunque, dopo i primi due appuntamenti con il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, e con Fabrizio Battistelli, presidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, il terzo incontro è stato dedicato al neocolonialismo. "Una dinamica di dominio economico, politico e culturale che le potenze capitalistiche esercitano sulle ex colonie e su altre aree strategiche del mondo - ha detto il professor Massoni -. Questo fenomeno si radica nel capitalismo finanziario, ovvero nel predominio della finanza globale, delle multinazionali e delle istituzioni economiche internazionali che subordinano i Paesi più deboli agli interessi delle economie avanzate".

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La competizione per le materie prime

Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Myanmar, Nigeria sono conflitti emblematici: è qui che, dietro la produzione di conflitti e guerre che alimenta disuguaglianze, tensioni sociali e crisi politiche, s'annidano gli effetti di quello che Massoni definisce "neocolonialismo". Si combatte, prosegue il docente, per "il controllo delle risorse di cui il Sud del mondo è ricco - petrolio, gas, terre rare, minerali preziosi - e di cui i Paesi più ricchi hanno bisogno per compiere la fantomatica transizione energetica. Il risultato finale è che le élite locali, corrotte o cooptate, garantiscono l'accesso ai capitali stranieri, mentre le popolazioni restano impoverite e marginalizzate. Così la competizione per il controllo delle risorse si allinea con ribellioni e guerre civili".

Il caso di RD Congo

Il caso della Repubblica Democratica del Congo è, in questo senso, esemplare. Ad alimentare la guerra tra le Forze armate di Kinsasha e il gruppo di ribelli M23 sostenuto dal vicino Rwanda non sono solo le irrisolte questioni etniche o geografiche, spesso legate al colonialismo belga dello scorso secolo o al genocidio del 1994. Controllare la regione del Kivu significa controllare rame, coltan e cobalto, ossia materie sempre più strategiche da vendere alle grandi potenze, in primis Stati Uniti e Cina. Esse sono infatti necessarie per realizzare batterie elettriche, pale eoliche o pannelli solari, così come per alimentare gli schermi degli smartphone e dei computer. Non è un caso se, lo scorso 25 febbraio, in un'intervista al The New York Times il presidente congolese Félix Tshisekedi ha reso noto di aver inviato una lettera al dipartimento di Stato Usa in cui viene offerto al presidente Donald Trump l'accesso a tutte le materie prime del Paese in cambio del sostegno contro il gruppo di ribelli M23.

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Tragiche conseguenze

Il risultato di simili incastri geopolitici è che, come riportato dalla Banca Mondiale, la Repubblica Democratica del Congo è tra i cinque Paesi più poveri al mondo. Nel 2024 il 73% della popolazione viveva con meno di 2 dollari al giorno. Ulteriore fardello sono i fenomeni climatici estremi, come frane e inondazioni, alimentati dall’alta concentrazione di popolazione nei centri urbani (la capitale Kinshasa conta 17 milioni di abitanti) e da una crescita demografica superiore al 3 per cento. Perché, prosegue il professor Massoni, "l'imposizione di modelli economici neolibersti distrugge le economie tradizionali, costringendo milioni di persone a migrare".

Così, in RD Congo come in tanti altri casi, Massoni osserva come "il neocolonialismo si traduce in guerre per procura in cui le grandi potenze finanziano gruppi armati rivali per il controllo di territori strategici. Usa, Francia, Russia e cina si contendono Africa e Medio Oriente sostenendo governi o gruppi ribelli, come avvenuto in Libia, Siria, Yemen e Mali. Gli interventi militari diretti (Iraq 2003, Afghanistan 2001) dimostrano come il capitalismo finanziario non esiti a uasre la forza per garantire il dominio delle proprie multinazionali e del sistema bancario internazionale".

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Il padre Giulio Albanese e il fratel Alberto Parise

Scarica la scheda Piste di riflessione del 15 marzo 2025

Le parole di Papa Francesco

Nella Fratelli Tutti (2020) Papa Francesco ha denunciato le nuove forme di colonialismo economico e finanzario, sottolineando come "in vari Paesi poveri le peggiori conseguenze di alcune misure di austerità si registrano nell'abbandono scolastico, nel declino dei servizi sanitari e nel deterioramento delle infrastrutture. Chi lo paga?". Come in tante altre occasioni, il Pontefice ha invitato "la politica a non sottomettersi all'economia e questa non deve sottomettersi ai diktat e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo assolutamente bisogno che la politica e l'economia, in dialogo, si mettano decisamente al servizio della vita".

Un auspicio che risuona ancora più attuale in queste ultime settimane e che si rivolge non solo ai decisori, ma anche a coloro che quotidianamente sono a contatto con la società civile nel mondo. Lo sforzo del Centro missionario diocesano va proprio entro questa direzione. Il prossimo appuntamento sarà il 12 aprile con Maria Grazia Galantino, coordinatrice dell’Area di ricerca di Archivio Disarmo, che spiegherà "Come essere costruttori di pace. L’impegno civile nel contrastare il ricordo alle armi". Il prossimo 17 maggio la giornalista Lucia Bellaspiga terrà una relazione su Guerra e pace nell’informazione giornalistica internazionale, mentre le conclusioni del percorso saranno affidate al comboniano Alberto Parise il prossimo 21 giugno. 

* Guglielmo Gallone - Città del Vaticano. Pubblicato originalmente in: www.vaticannews.va

Il conflitto nel Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo, ha raggiunto nuovi vertici di violenza, con oltre 3mila morti e 500mila sfollati. Sul numero di marzo della rivista Confronti ne parla Enzo Nucci, giornalista, già corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.

Due istantanee dell’orrore per fotografare la violenza degli scontri nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e la colpevole incapacità della comunità internazionale di fermarla. «I container refrigerati e gli obitori sono pieni, saremo impegnati per diversi giorni in sepolture di massa» ha dichiarato al quotidiano francese Le Monde la responsabile della Croce Rossa internazionale a Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu. Tra i cadaveri anche quelli di centinaia di donne violentate e bruciate vive nella sezione femminile di un carcere durante un’evasione di massa. Impossibile stabilire le responsabilità dell’eccidio perché ai peacekeeper della missione dell’Onu (Monusco) è stato impedito di effettuare i sopralluoghi.

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Tutte le iniziative di pace stanno naufragando e il conflitto rischia di espandersi in altre Regioni. Foto: Mondo e Missione

500mila sfollati, 3mila morti, almeno 6mila i feriti tra la popolazione civile sono il parziale bilancio dell’offensiva militare del Movimento 23 marzo (M23) sfociata nell’occupazione di Goma dello scorso 27 gennaio. Ennesima puntata di un radicato conflitto che solo tra il 1997 e il 2003 provocò più di 5 milioni di morti e che ha smesso di essere uno scontro tra eserciti e gruppi armati per trasformarsi in una guerra atipica combattuta da una miriade di bande armate contro inermi civili.

La narrazione degli interessi in gioco è intricata quanto la savana per la molteplicità degli attori impegnati, della competizione interna alle stesse alleanze, degli equilibri geopolitici dell’area, delle ricchezze in ballo: è la cartina di tornasole di quell’Africa complessa e multipolare con cui il mondo si deve confrontare perché distogliere lo sguardo dagli avvenimenti in corso in nome di una convenienza a breve termine potrebbe tra non molto rischiare di aprire il vaso di Pandora.

L’M23 nasce nel 2009 per la mancata integrazione di una precedente milizia nell’esercito governativo congolese: è l’ultimo di una serie di gruppi sostenuti dal Ruanda che affermano di difendere gli interessi delle comunità tutsi che vivono nel Nord-Est del Congo.

Dopo 10 anni di inattività, nel 2021 ha lanciato un’offensiva (appoggiata dall’esercito ruandese) culminata a gennaio con la conquista di Goma, in precedenza occupata solo per alcuni giorni nel 2012. Un successo militare che ha avuto contraccolpi a Kinshasa, capitale della Rdc, dove migliaia di manifestanti (sostenuti da esponenti di governo e dal partito di maggioranza del presidente Tshisekedi) hanno espresso solidarietà ai soldati governativi, assaltato varie ambasciate, accusando inoltre l’Unione europea di finanziare l’esercito di Kigali con 20 milioni di euro per la sua determinante azione nella provincia di Cabo Delgado, nel Nord-Est del Mozambico, per difendere le società energetiche che vi operano (tra cui Eni e Total) dagli agguati dei terroristi islamisti.

Secondo i Rapporti dell’Onu, sono 4mila i militari dell’esercito ruandese che nell’Est del Congo procedono alla sistematica pulizia etnica ricorrendo allo stupro di massa come arma di guerra senza che il Consiglio di Sicurezza e la comunità internazionale adottino provvedimenti concreti contro i soldati del presidente Paul Kagame, al di là di generiche condanne e scontati inviti al ritiro.

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Foto: Flickr/AndrŽ Thiel

Il Ruanda è infatti considerato come uno dei pochi partner affidabili per la sicurezza dell’Occidente, poiché è la Nazione che contribuisce maggiormente e con grande efficienza alla costituzione delle forze di peacekeeping, una reputazione rafforzata dal profilo di Kagame e dai risultati conseguiti nella rinascita del Paese dopo il genocidio del 1994. E dalle sue indubbie capacità diplomatiche che gli garantiscono relazioni amichevoli con Stati Uniti, Inghilterra, Francia che non a caso sono 3 dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Senza dimenticare l’Unione europea che ha sottoscritto con il presidente ruandese un protocollo di intesa (del valore di 900 milioni di euro) per la promozione di «catene di valori sostenibili e resilienti nei minerali critici», tra cui il tantalio. Un accordo che ha scatenato le accuse del Congo contro il Ruanda per il saccheggio delle sue risorse, a partire dal coltan, perpetrato proprio nel Nord Kivu con la complicità dell’ M23: non a caso – sottolinea l’Onu – c’è stato un incremento delle esportazioni di coltan da parte del Ruanda dopo l’occupazione nell’aprile 2024 della zona di Rubaya (nella Rdc) da parte dell’M23.

Tutte le iniziative di pace stanno naufragando e il conflitto rischia di espandersi in altre Regioni. Contro l’espansionismo di Kagame sono schierati i confinanti Burundi e Uganda che hanno sottoscritto con il Congo accordi di cooperazione economica e militare. Kagame intanto accusa il Sudafrica di avere interessi minerari in Congo, spiegando così l’intervento militare di Pretoria nella missione della Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale). Intanto l’M23 ha anche risvegliato conflitti tra popolazioni locali coagulando anche una parte dell’opposizione al presidente congolese. Insomma bisogna fare presto.

Fonte: Confronti. Pubblicato in: www.tracieloeterra.blog

I cadaveri di almeno 70 cristiani decapitati sono stati ritrovati il 14 febbraio in una chiesa protestante del Nord Kivu: un massacro attribuito ai jihadisti delle Adf. Anche l’esercito governativo è allo sbando e terrorizza la popolazione: due sacerdoti e il vescovo di Uvira rapinati da tre soldati con le armi puntate. E l'M23 avanza. L'appello di Open Doors.

Sono almeno 70 i cristiani decapitati rinvenuti il 14 febbraio in una chiesa protestante del Nord Kivu, una delle tre provincie orientali della Repubblica Democratica del Congo nelle quali decine di gruppi armati agiscono quasi incontrastati ormai da decenni. Sono gruppi che combattono per il controllo di territori sempre più estesi e infieriscono sulla popolazione, motivati da divisioni etniche e dall’obiettivo di accedere alle preziose risorse minerarie della regione. Ma uno di questi gruppi, le Allied democratic forces (Adf, Forze democratiche alleate), è spinto anche da un’altra motivazione, con il tempo diventata la principale, quella di combattere in nome di Allah il jihad, la “guerra santa”.

Le Adf si erano formate tra il 1995 e il 1996 in Uganda, sotto la guida di un leader islamista, Jamil Mukulu, per combattere contro il governo. Da oltre 20 anni però hanno trasferito le loro basi nell’est del Congo. Nel 2016 hanno giurato fedeltà all’Isis, lo Stato Islamico, e dal 2019 fanno parte dell’Iscap, la Provincia dell’Africa centrale dello Stato Islamico, insieme ad Ansar al-Sunna, i jihadisti attivi in Mozambico. Sono autori di gravissimi attentati, stragi, attacchi a chiese e strutture della Chiesa, quasi sempre messi a segno in Congo, ma anche in Uganda. 

Anche se non è ancora del tutto chiaro come si siano svolti i fatti, è alle Adf che si attribuisce il massacro dei cristiani uccisi nella chiesa del Nord Kivu. Si sa che nei giorni scorsi il gruppo ha attaccato diversi villaggi nel Lubero, un territorio densamente popolato, mettendone in fuga gli abitanti. Secondo una ricostruzione, il 12 febbraio alle prime ore del giorno hanno raggiunto Mayba, un villaggio della divisione amministrativa rurale di Baswagha, un’area prevalentemente cristiana, e hanno ordinato agli abitanti di uscire dalle loro abitazioni. Ne hanno catturati una ventina e li hanno portati vita. Poi però, nel tardo pomeriggio, sono ritornati, hanno circondato il villaggio e hanno preso altre 50 persone, in pratica gli abitanti che non erano riusciti a fuggire. Hanno portato tutti i prigionieri in una  chiesa della CECA 20 (Comunità evangelica del Centro Africa) di Kasanga, un villaggio vicino, li hanno legati e infine li hanno uccisi a martellate e a colpi di machete.

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Famiglie in fuga dalle violenze nella RD Congo si rifugiano in una scuola nella provincia di Cibitoke, nel nord-ovest del Burundi. Foto: UNHCR/Bernard Ntwari

Secondo un’altra versione dei fatti, ripresa da Open Doors, l’onlus internazionale che aiuta e sostiene i cristiani perseguitati nel mondo, è possibile invece – stando a quanto riportano alcuni siti web di  notizie locali – che le vittime siano state prigioniere delle Adf per diversi giorni prima di essere uccise e si tratterebbe degli abitanti di Kasanga e non del vicino villaggio di Mayba. Nei prossimi giorni forse si avranno informazioni più precise, o forse no, considerando la situazione di totale sbando della regione, soprattutto adesso che un altro gruppo armato, l’M23, ha conquistato il capoluogo del Nord Kivu, Goma.

Open Doors ha diffuso un comunicato di ferma condanna della strage e ha rivolto un appello alla società civile, ai governi e alle organizzazioni internazionali affinché diano priorità alla protezione dei civili nella Repubblica Democratica del Congo orientale. «Le violenze – ha commentato John Samuel, un legale dell’onlus – avvengono in un contesto di impunità, dove quasi nessuno è chiamato a risponderne. Questo massacro è un chiaro indicatore delle diffuse violazioni dei diritti umani contro i civili e le comunità vulnerabili, spesso contro i cristiani, perpetrate dalle Adf».

«Questi atti terroristici – spiegava monsignor Cyrile Kambale, vescovo della diocesi di Beni all’indomani di una delle stragi compiute dalle Adf lo scorso agosto – non sono soltanto una minaccia per la nostra sicurezza, ma continuano anche a impoverire la popolazione cristiana locale. Come cristiani viviamo nella paura ogni giorno, non possiamo continuare a vivere nel terrore che in qualsiasi momento potremmo essere attaccati dagli islamisti».

Invano il vescovo denunciava una situazione insostenibile a causa della frequenza e della ferocia degli attacchi jihadisti. La sua richiesta di interventi urgenti alle autorità governative è caduta nel vuoto. Neanche gli oltre 16 mila caschi blu della Monusco, la missione Onu di peacekeeping, che pure sono dispiegati in gran parte nel Nord e nel Sud Kivu, intervengono, se non occasionalmente, in difesa della popolazione che difatti più volte ne ha attaccato le sedi, furiosa di non esserne protetta.

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Il vescovo della diocesi di Butembo-Beni in visita ai malati mentali dell'ospedale cittadino. Foto: Vatican Media

Quanto all’esercito governativo, le FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo), la gente quasi lo teme quanto i gruppi armati, tante sono le prepotenze, le violenze e gli abusi operati dai militari e che restano impuniti. Il 20 febbraio ha fatto esperienza della loro brutalità persino il vescovo di Uvira, monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe. La città potrebbe presto cadere nelle mani dell’M23 che da Goma si è spinto verso sud, ha già conquistato Bukavu e sta marciando verso Uvira. Per questo in città si è concentrato l’esercito governativo o quel che ne resta, dopo che i suoi soldati, a migliaia, hanno disertato e dopo che i suoi generali si sono messi al sicuro nella capitale Kinshasa, a 2.600 chilometri di distanza.

Il 20 febbraio alcuni soldati sono entrati nel complesso della diocesi di Uvira e hanno aggredito il vescovo e altri sacerdoti. Ecco che cosa è successo, raccontato da uno dei sacerdoti in un comunicato: «Noi, Sua Eccellenza Monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe, Vescovo di Uvira, e i sacerdoti don Ricardo Mukuninwa e don Bernard Kalolero, siamo appena scampati alla morte questa mattina alle 8:30 presso la sede vescovile di Uvira.

Tre soldati delle FARDC in uniforme sono entrati nel complesso della diocesi, minacciando prima il guardiano, il signor Mwamba, e il cuoco, il signor Jean. Sono uscito per incontrarli e chiedere informazioni sulla situazione, ma hanno puntato le armi da fuoco contro tutti noi e ci hanno buttati a terra insieme al Vescovo. Ci hanno rapinato prendendo soldi, telefoni e altri beni. Ci hanno chiuso poi nelle nostre stanze minacciando di ucciderci al minimo gesto, per potere perquisire tutta la casa». «Gloria a Dio, se ne sono andati – conclude il comunicato rivolto ai fedeli –. Se ci cercate sui nostri cellulari, non siamo raggiungibili».

* Anna Bono è sociologa e scrittrice specializzata in Africa. Originalmente pubblicato in: www.lanuovabq.it

Asia. Aumenta la produzione di armi

  • , Dic 18, 2024
  • Pubblicato in Notizie

Il rapporto Sipri sulle prime 100 industrie delle armi nel mondo

La guerra in Ucraina e la crisi in Medio Oriente. Ma anche le minacce della Corea del Nord. Per non parlare dell’assertività cinese nell’Asia-Pacifico. Sono questi i principali fattori ad aver trainato l’acquisto di armi nel 2023, secondo un rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri), pubblicato il 2 dicembre.

Il think tank svedese ha conteggiato per il 2023 vendite di armi e servizi militari per 632 miliardi di dollari per le sole prime 100 aziende produttrici nle mondo, con un aumento del 4,2% rispetto al 2022.

Grandi numeri a parte, la spartizione delle commesse mette in luce piccoli assestamenti, in particolare un graduale ribilanciamento delle transazioni tra gli esportatori asiatici.

A guidare la classifica globale (ormai dal 2018) sono sempre le aziende statunitensi, con una quota di mercato del 50%, mentre i cinesi si posizionano al secondo posto (16%), seguiti dai produttori di Regno Unito (7,5%) e, un gradino sotto, a pari merito, fornitori militari di Francia e Russia, ciascuna con una quaota del 4%.

Sebbene la graduatoria non presenti ancora grandi elementi di novità, sotto traccia sono tuttavia riscontrabili alcune tendenze anticipatrici di quelli che probabilmente saranno i futuri sviluppi del settore.

Tra tutti spicca un dato: le aziende della Repubblica popolare cinese (Rpc) hanno registrato la crescita dei ricavi (103 miliardi di dollari) più bassa degli ultimi quattro anni (+0,7%). Un risultato che il rapporto Sipri attribuisce al rallentamento dell’economia cinese, a fronte di una crescita costante delle vendite nei mercati esteri. Il motivo, come spiega un ricercatore del think tank svedese, è che molti produttori militari in realtà guadagnano dal settore civile, mai uscito completamente dalla crisi pandemica. Con entrate per 20,9 miliardi di dollari (+5,6%), Aviation industry corporation of China (Avic) si è classificata all’ottavo posto nella lista del Sipri, diventando il più grande produttore di armi della Cina. Segno dell’importanza crescente ottenuta dal comparto aerospaziale.

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(Stoccolma, 2 dicembre 2024) I ricavi delle vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 maggiori aziende del settore hanno raggiunto i 632 miliardi di dollari nel 2023, con un aumento in termini reali del 4,2% rispetto al 2022, secondo i nuovi dati pubblicati oggi dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI). Foto: Flickr/Bryan William Jones

Mentre la Cina arranca, altri esportatori asiatici guadagnano terreno.

Nonostante Corea del Sud (+1,7%) e Giappone, (+1,6%) abbiano ancora quote di mercato complessivamente molto contenute, i due paesi sono in rapida rimonta. Complici le tensioni regionali nella penisola coreana e nel Mar cinese meridionale, ma anche un maggiore protagonismo internazionale di Tokyo e Seul al fianco degli Stati Uniti. Le vendite delle aziende giapponesi (10 miliardi di dollari) hanno beneficiato del progressivo incremento del budget militare del Paese, che sta spingendo le Forze di autodifesa ad aumentare gli ordini dopo decenni di basso profilo.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, obblighi costituzionali autoimposti costringono il Giappone a «rinunciare all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali». Fattore che per decenni ha spinto Tokyo ad appoggiarsi all’alleato americano. Salvo ora dover rivedere la sua posizione difensiva come deterrente davanti alle provocazioni missilistiche di Pyongyang (Corea del Nord) e all’espansionismo regionale di Pechino.

Nel suo rapporto, il Sipri ha notato «un importante cambiamento nella politica di spesa militare» da quando, nel 2022, il governo dell’ex premier Fumio Kishida ha destinato alla difesa il budget più consistente dalla fine del secondo conflitto mondiale (47 miliardi di dollari) con un incremento previsto fino al 2% del Pil entro il 2027. Lo stesso livello dei paesi Nato.

Se nel caso delle aziende giapponesi a fare da traino sono le vendite interne, per i produttori sudcoreani la crescita dei ricavi (11 miliardi di dollari) va ricondotta principalmente alle esportazioni. Soprattutto per quanto riguarda gli ordini di artiglieria terrestre. Con la guerra in Ucraina alla clientela della Corea del Sud – oltre all’Australia – si è aggiunto un numero sempre maggiore di paesi europei. La Polonia, ad esempio, ha comprato da Seul carri armati, aerei da attacco leggeri e obici semoventi K9.

Secondo la Top 100 del Sipri, le forniture delle aziende militari sudcoreane e giapponesi hanno riportato una crescita rispettivamente del 39% e del 35%. A fare meglio è stata solo la Russia che, con un aumento del 40%, ha registrato l’incremento maggiore a livello globale.

* Alessandra Colarizi, Rivista MC. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

La guerra mondiale a pezzi evocata da Papa Francesco coinvolge centinaia di Paesi con diversi gradi d'intensità e spesso viene ignorata dai grandi circuiti mediatici. Monsignor Redaelli: "Il conflitto è la negazione della speranza"

Sono 170.700 i morti a causa diretta di azioni di guerra (153.100 nel 2022), mentre sono 11.649 i bambini uccisi o mutilati nel 2023, con un aumento del 35 per cento rispetto all’anno precedente. È quanto emerge dall’ottavo rapporto Caritas italiana sui conflitti dimenticati, presentato il 09 dicembre a Roma, dal titolo: Il ritorno delle armi. Guerre del nostro tempo, a cura di Paolo Beccegato e Walter Nanni, in collaborazione con CSVnet, la rete nazionale dei centri per il volontariato.

Tutte le guerre

Attualmente, sono 52 gli Stati nel mondo che vivono situazioni di conflitto armato. E se nel 2022 erano 55 le Nazioni interessate dalla guerra, ora si registrano più conflitti di altissima e alta intensità. Quelle di altissima intensità, ossia con oltre 10.000 morti, nel mondo sono 4 (erano 3 nel 2022): i conflitti civili in Myanmar, in Sudan, i conflitti Israele-Hamas e Russia-Ucraina. Venti invece le guerre di alta intensità, tra i 1.000 e i 9.999 morti (erano 17 nel 2022).

Rivedi la presentazione

Il Giubileo un'occasione di pace

«Già nel 2014 il Papa, in occasione della visita a Redipuglia, parlava di una guerra mondiale a pezzi. Aveva ragione - ha detto monsignor Carlo Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas Italiana -. Il conflitto è la negazione della speranza e un fallimento del tentativo di mediazione. Il Giubileo è il tempo propizio per promuovere giustizia, pace e riconciliazione. Come Chiesa e Caritas - ha aggiunto - dobbiamo essere protagonisti, costruttori di ponti, promotori di dialogo, seminatori di speranza, artigiani di pace».

Cosa fa la Caritas

Il rapporto ha evidenziato che dal novembre 2018 al 31 ottobre 2024, il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha finanziato 1.351 progetti in 28 Paesi interessati da conflitti a estrema o altra gravità. Sul totale dei 2.321 progetti complessivi finanziati dalla Cei, oltre la metà (58,2 per cento) ha riguardato Paesi in guerra (57,6 per cento dei fondi erogati). Al riguardo, monsignor Redaelli ha sottolineato l’importanza della presenza capillare dell’organismo cattolico. «Caritas Italiana è in rapporto e in contatto con diverse realtà. Per esempio in questo momento - spiega ai media vaticani - abbiamo un operatore a Damasco. Supportiamo le Caritas locali con le quali c’è un ottimo rapporto di collaborazione e cerchiamo di intervenire nelle aree più critiche».

Video "Coflitti dimenticati. Le cifre"

Ridare centralità all'Onu

La ricerca ha indagato, tramite un sondaggio demoscopico realizzato da Demopolis, la percezione degli italiani rispetto alle guerre. L’80 per cento degli intervistati considera le guerre come avvenimenti evitabili e il 74 per cento non vuole interventi armati, ma il semplice ricorso alla mediazione politica. Emerge, inoltre, che il 71 per cento degli italiani è in grado di citare almeno una guerra degli ultimi cinque anni, anche se il 65 per cento si interessa di cronaca locale e non di grandi eventi internazionali, mentre il 72 per cento vorrebbe potenziare il ruolo dell’Onu. «Purtroppo, gli organismi internazionali come la Corte di Giustizia o l’Onu, in questo momento, non godono di buona fama, ma sono l’unica strada percorribile. Bisogna trovare un equilibrio a livello mondiale - aggiunge l’arcivescovo - sulla base di giustizia e di rispetto dei diritti delle persone».

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Donne e bambini sfollati a causa della guerra in Yemen. Foto: Oxfam

Informare per non dimenticare

Nel dossier, viene segnalato, inoltre, quanto si parla dei conflitti sui Tg italiani. Secondo l’Osservatorio di Pavia nel 2022, le notizie sulle guerre sono state 4.695, pari all’11,7 per cento di tutte le notizie. Il 96,5 per cento delle notizie di guerra parlano dell’Ucraina, il 3,5 per cento parla di Afghanistan e Siria. Nel 2023, le notizie sulle guerre sono state 3.808, pari all’8,9 per cento di tutte le notizie (42.976). Il 50,1 per cento è concentrato sul conflitto israelo-palestinese, il 46,5 per cento sulla guerra in Ucraina, il restante 3,4 per cento è distribuito su 15 Paesi in guerra. Di contro, in un anno non hanno avuto nessuna copertura mediatica 6 Paesi in guerra (Bangladesh, Etiopia, Guatemala, Honduras, Iraq e Kenya).

Il rapporto sui conflitti dimenticati «vuole essere, allora, una voce che rompe il silenzio, un richiamo alla consapevolezza e all’azione. Ogni pagina - ha concluso don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana - è un invito a non dimenticare, a riportare alla luce storie di sofferenza e di resilienza che non trovano spazio nei nostri schermi».

* Francesco Ricupero - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va

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Aumentano i cattolici nel mondo: sono un miliardo e 406 milioni

25-03-2025 Notizie

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I dati distribuiti dall'Annuario Pontificio e dall'Annuario di statistica si riferiscono al biennio 2022-2023. In leggero calo i sacerdoti, le...

Sant'Oscar Romero, vescovo e martire difensore dei poveri

24-03-2025 Missione Oggi

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Oggi, 24 marzo 2025, la Chiesa ricorda il 45° anniversario del martirio di Sant'Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador...

Il mondo rivede il Papa, il saluto dal Gemelli: “Grazie a tutti”

23-03-2025 Notizie

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Francesco si è affacciato per la prima volta dall’inizio del ricovero dal balcone del Policlinico, prima di lasciare l’ospedale dove...

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