1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

Al centro della liturgia della 32a domenica del Tempo Ordinario ci sono due vedove una pagana e una ebrea che ci fanno contemplare ed ammirare due modelli di grande generosità, grande speranza e grande fede. Una generosità capace di pensare prima agli altri e poi a se stessi ed una fede che è un atteggiamento permanente di affidamento nelle mani del Signore. Non si tratta soltanto di “offrire” ma di “offrirsi” per gli altri, sacrificarsi, come fece Gesù, secondo quanto afferma l’autore della Lettera agli Ebrei: “egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso”.

“Prepara una piccola focaccia per me e poi ne preparerai per te e per tuo figlio”

Nella prima e nella terza lettura sono presentate due vedove che vengono lodate e messe come modello di fede e di generosità. In quei tempi sappiamo che la vedova, avendo perso il marito si trova in condizioni precarie, le viene a mancare ogni sostegno sociale ed economico. Nella tradizione biblica, sia che ella abbia figli sia che non ne abbia la sua situazione è accomunata a quella degli orfani, degli stranieri, dei miseri. È per questo che il Signore le pone sotto la sua custodia.

Nella prima lettura Elia nel suo pellegrinaggio arriva a Sarepta e si trova davanti ad una vedova  alla quale fa due richieste, una dopo l’altra: prima un po’ d’acqua e subito dopo un pezzo di pane. La vedova che, non avendo nulla, avrebbe potuto dire che pane non ne aveva, nella sua onestà  afferma che ha del cibo solo per lei e per suo figlio: “non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio”. Non solo la quantità è  irrisoria, ma anche è la riserva per un ultimo magro pasto che condividerà con suo figlio.

È l’ultimo pasto perché “mangeremo e poi moriremo”. Lei senza lamentarsi, senza chiedere un ultimo soccorso lascia capire al Profeta Elia che lei e il suo figlio stanno in una penosa sorte e che sono rassegnati a morire: “mangeremo e moriremo”. Ciò nonostante, la vedova, generosamente, va e fa come le ha detto Elia: provvede a  dare da bere e mangiare ad Elia e poi mangiarono lei, il figlio e la casa di lei per diversi giorni. Umanamente parlando lei avrebbe potuto pensare prima alla sua sopravvivenza e poi, se fosse rimasto qualcosa, pensare anche agli altri, ma la vedova ha il coraggio di pensare prima al profeta e poi a se stessa e a suo figlio, non solo una grande generosità ma anche una grande fede.

La donna ha accettato la richiesta compiendo un atto estremo di generosità, dando da mangiare tutto ciò che aveva per poi pensare a se e al suo figlio,  lei lo fa affidandosi totalmente alla promessa del profeta: “La farina della tua giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà” (17,14). Infatti, mangiò Elia, poi non solo lei e suo figlio ma anche la casa di lei per diversi giorni…. Quello che era per un solo pasto di due persone, per fede e generosità, si trasformò in cibo per molti e per diversi giorni. Così fu non solo per la sua grande generosità ma anche per la sua grande fede in un Dio che non era il suo, verso il quale mostra grande deferenza. La vedova era consapevole che Dio la stava invitando a non contare solo su se stessa, ma su di Lui per il suo sostentamento. Pertanto, non vi era alcun motivo di tener stretto nella sua mano quello che aveva, dal momento che Dio avrebbe fornito altro pane all’indomani.

“Vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”

Nel Vangelo, invece, Gesù mette la vedova, descritta come povera, in confronto con un’altra categoria di persone: i ricchi. Mentre questi gettavano molte monete, ma il superfluo, la vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo: il tutto.  Gesù la osserva, chiama a sé i discepoli e dice loro: “Amen”, cioè: “È così, è la verità e io ve la dico”. “Questa povera vedova ha gettato nella cassetta delle offerte più di tutti gli altri. Tutti, infatti, hanno preso dal loro superfluo; lei, invece, nella sua povertà, ha dato tutto quello che aveva, tutto quello che aveva per vivere” cioè lei ha dato tutta la sua vita.

Mentre i ricchi gettavano il loro superfluo, le briciole della loro ricchezza, la vedova si spoglia di ciò che le era necessario per vivere, di tutto ciò che aveva, non di una sua porzione minima. Come la vedova di Sarepta, ella non offre gli avanzi, non trattiene nulla per sé, ma offre se stessa, tutto ciò che ella ha. Il Signore non giudica in base alla quantità di cose che noi offriamo, ma in base alla nostra generosità: giudica le intenzioni e anche in questo caso, la fede della vedova viene ricompensata da Gesù.

Il discepolo missionario, di fronte ai bisogni del prossimo, è chiamato a privarsi di qualcosa di indispensabile, non solo del superfluo. Infatti, il Papa Francesco afferma che “siamo chiamati a dare il tempo necessario, non solo quello che ci avanza; siamo chiamati a dare subito e senza riserve qualche nostro talento, non dopo averlo utilizzato per i nostri scopi personali o di gruppo”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mc 12,28-34

Nel tempio di Gerusalemme Gesù ha accusato la casta sacerdotale al potere di aver trasformato il tempio in una spelonca di ladri. Non solo, ma ha accusato i capi di essere assassini che per interesse lo ammazzeranno. Naturalmente vogliono ammazzare Gesù, ma non possono perché hanno paura della folla e allora c’è tutta una serie di attacchi contro Gesù per provare a diffamarlo, attacchi dai quali Gesù esce ogni volta più rafforzato.

Quindi dopo l’attacco dei farisei e quello dei sadducei è ora la volta dello scriba, leggiamo Marco, il capitolo 12, dal versetto 28.

Allora è collegato a questi attacchi, si accostò uno degli scribi, gli scribi sono i teologi ufficiali del tempo che già hanno deciso che bisogna eliminare Gesù. L’evangelista ha detto che cercavano il modo di farlo morire, già al capitolo secondo avevano accusato Gesù di essere un bestemmiatore e quindi doveva morire. Uno degli scribi che li aveva uditi discutere e visto come aveva loro ben risposto gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti”?

La domanda dello scriba non è volta ad apprendere, lui la risposta la sa già, ma vuole controllare qual è la posizione di Gesù perché Gesù ha un atteggiamento abbastanza distaccato nei confronti dei comandamenti. Qual è il primo di tutti i comandamenti ? Il primo di tutti i comandamenti è il comandamento che anche Dio osserva e qual è il comandamento che Dio osserva? Il riposo del sabato.

Pertanto, l’osservanza del riposo del sabato equivale all’osservanza di tutta la legge. La trasgressione del sabato equivale alla trasgressione di tutta la legge e per questo è punita con la morte. E Gesù non ha osservato il sabato, ha fatto diverse trasgressioni in questo giorno. Quindi la domanda era finalizzata non ad apprendere, ma a controllare, accusare.

Gesù rispose: “Il primo è, e qui è sorprendente la risposta di Gesù perché lo scriba gli ha chiesto qual è il primo, il più importante di tutti i comandamenti. Ebbene Gesù non cita nessun comandamento. Gesù si rifà al credo di Israele, Shemà Israele, Ascolta Israele, la preghiera che gli ebrei dovevano recitare due volte al giorno, alla mattina e alla sera, che si trova nel libro del Deuteronomio al capitolo sesto, dal versetto 4, ma non cita il decalogo. “Il primo è: Ascolta Israele!

Il signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, Gesù al testo ebraico aggiunge il possessivo per far vedere l’immediatezza, la forza di questo comando, con tutta la tua anima, è la vita, la psiche in greco, con tutta la tua mente e con tutte le sue forze”.

Ma per essere autentico l’amore verso Dio si deve tradurre in amore verso il prossimo e allora Gesù aggiunge a questa preghiera un precetto tratto dal libro del Levitico, al capitolo 19, e dice E il secondo è questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Quindi c’è un amore a Dio assoluto e un amore al prossimo relativo. Questo è l’insegnamento per la comunità giudaica, ma non per la comunità di Gesù. Nella comunità di Gesù si lascerà un unico comandamento dove non viene richiesto l’amore a Dio perché il Dio di Gesù non assorbe gli uomini, ma comunica le sue energie e Gesù dirà “Vi lascio un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri”, questo lo troviamo nel vangelo di Giovanni al capitolo 13, versetto 34.

E Gesù, dopo aver espresso questo, conferma allo scriba che non c’è comandamento più importante di questo. Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro”, ora finalmente lo scriba si rivolge a Gesù chiamandolo maestro, si riconosce il suo insegnamento, e secondo verità che Egli è unico e non vi altri all’infuori di lui, e nella risposta lo scriba omette la vita, dice amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso, ed ecco che lo scriba comprende finalmente qualcosa di nuovo, val più di tutti gli olocausti e i sacrifici. Già il profeta Osea aveva detto, era il Signore che parlava, “Voglio l’amore, la misericordia e non il sacrificio”, è questo che il Signore vuole e che Gesù è venuto a riproporre, non un sacrificio verso Dio, ma un amore verso gli altri. Questo è più importante di tutti gli olocausti e di tutti i sacrifici.

Ebbene Gesù vedendo che aveva risposto saggiamente gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio, perché non è lontano, ma non è vicino? Perché per entrare nel regno di Dio occorre la conversione e la conversione è basata su tre atteggiamenti che Gesù richiede: anziché accumulare per sé condividere generosamente con gli altri, anziché salire sopra gli altri abbassarsi con gli ultimi e anziché comandare servire, ma questo è difficile per uno scriba.

L’evangelista conclude che nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo, ma non si segnala nessuna reazione da parte dello scriba, non accoglie l’invito a far parte del regno. La sua era una domanda teorica, un’opinione scolastica, teologica, rimane all’interno della sua tradizione e non accoglie l’invito di Gesù, anche perché per entrare nel regno dovrebbe abbassarsi e dovrebbe mettersi a servire, e questo all’illustre teologo, al teologo ufficiale che rivestiva posizione importante nella società è quasi impossibile.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

Ger 31,7-9; Sal 125; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52

Ancora una volta sentiamo, sia nella prima Lettura, sia nel Vangelo, la sensibilità di Dio e di Gesù verso gli ultimi e gli esclusi della società. Mentre nel libro del profeta Geremia, Dio si presenta come la luce e la guida del piccolo “resto” di Israele che gli è rimasto fedele pur nella deportazione, nel Vangelo Gesù, che è la luce, dà la vista al cieco Bartimeo. In questa pagina del Vangelo, la missione dei discepoli è quella di riaccendere in se stessi la sensibilità del Maestro e di poter essere un ponte tra gli esclusi e Gesù, dicendo: "Coraggio! Alzati, ti sta chiamando".

Io li riconduco e li raduno dall'estremità della terra

Il profeta Geremia descrive il ritorno dalla Babilonia alla  patria del piccolo gruppo di esuli d’Israele. Il ritorno è visto come  opera di Dio, il quale viene presentato come la luce e la guida degli esuli. Il profeta annuncia un messaggio ricco di speranza e di consolazione per gli esuli di ritorno dall’esilio babilonese, tutti gli israeliti presenti in terra di Babilonia sono invitati, ma il profeta dà enfasi alla presenza dei ciechi e zoppi, di una donna incinta e una partoriente, questi che sembrano inabili a causa della loro condizione, sono invitati a incamminarsi sulla via del ritorno.

Queste persone non sono nelle condizioni ideali per compiere un viaggio, specie in quei tempi,  ma Dio prende l’iniziativa e afferma "Io li riconduco dal paese del settentrione e li raduno dall'estremità della terra.". Dio che è luce e guida li condurrà, li renderà abili a tale viaggio di ritorno. La presenza di ciechi e di zoppi evoca la situazione di bisogno in cui si trovano gli esuli e, allo stesso tempo, evoca l'azione straordinaria di Dio – un Dio che viene a liberare il suo popolo dal bisogno del cieco e dello zoppo. Invece, la donna incinta e la partoriente rappresentano non solo il dolore e la sofferenza degli esuli, ma anche la loro fecondità, gioia, speranza per un futuro pieno di vita. Dal bisogno, Dio promette la realizzazione piena. Dio è pieno di compassione per i ciechi, gli zoppi e gli esclusi della società, ecco perché li invita alla gioia: “Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode”. Egli è la luce e la guida di questi deboli e sfiduciati come Gesù lo sarà per gli esclusi del suo tempo: “Venite a mevoi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo”.

Coraggio! Àlzati, ti chiama

Gesù è in cammino verso Gerusalemme, intanto continua la sua missione tra gli uomini: "proclamare la liberazione ai prigionieri, il recupero della vista ai ciechi e restituire la libertà agli oppressi". In questo viaggio, si trova di fronte a un grido: "Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me". Se alcuni sono indifferenti e altri insensibili, Gesù vuole riaccendere la coscienza missionaria e profetica nei discepoli che sono con lui, per questo dice ai presenti: "Chiamatelo". Non solo lo chiamarono, ma furono capaci di incoraggiarlo: "Coraggio! Alzati, perché egli ti chiama". È così che Gesù guarì il cieco.

Il cieco che sta davanti a Gesù, alla folla e ai discepoli ha un nome preciso: Bartimeo, cioè "figlio di Timèo". Non è quindi uno sconosciuto nella società, anche se si trova sul ciglio della strada a chiedere l'elemosina. Egli, secondo la mentalità del tempo, è tra gli esclusi, i peccatori, gli impuri e i dannati della società, era come i ciechi, gli zoppi, la donna partoriente di cui ha parlato il profeta Geremia. Il cieco era seduto, sistemato e installato nella sua situazione di povertà e abbandono, privato della luce e della libertà, si sentiva incapace di uscire da quella triste situazione. La sua unica salvezza era Gesù a cui gridava incessantemente: "Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me".

Mentre alcuni erano davvero ciechi ed incapaci di vedere questo cieco e non facevano nulla per vedere, altri erano insensibili e indifferenti alla sua situazione e lo rimproveravano perché tacesse. Gesù vuole che i presenti siano sensibili al grido dei poveri e degli esclusi... per poter vedere la loro presenza e chiamarli per nome, per indicare loro dove andare.

Il cieco grida più forte, Gesù potrebbe aiutarlo ma ostinatamente cerca di richiamare l’attenzione dei presenti insensibili alla presenza del cieco, in effetti Gesù si ferma e manda coloro che avevano cercato di zittire il cieco a chiamarlo. Gesù invita i discepoli a chiamare il cieco, a lasciarsi evangelizzare dal cieco… chiama i discepoli a vedere e a chiamare… ad essere sensibili alle sofferenze di coloro che li circondano.

I discepoli chiamano Bartimeo per incoraggialo ed invitalo ad alzarsi dicendo: "Coraggio! Alzati". È un modo di dire abbandona questa tristezza di miseria, di schiavitù e di dipendenza perché Gesù ti chiama per liberarti, affinché anche tu possa diventare un discepolo missionario. Gesù, dicendo "chiamatelo", ha invitato i presenti ad avere uno sguardo e un amore compassionevole, come ha detto il Santo Padre nel suo messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale: “Tutto in Cristo ci ricorda che il mondo in cui viviamo e il suo bisogno di redenzione non gli sono estranei e ci chiama anche a sentirci parte attiva di questa missione: «Andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli» (Mt 22,9). Nessuno è estraneo, nessuno può sentirsi estraneo o lontano rispetto a questo amore di compassione”. Per questo Gesù dice: "Chiamatelo" e, in risposta, la nostra missione di compassione è: incoraggiarli a lasciare la triste situazione iniziale e indicare loro la via per seguire Gesù.

Le parole del discepolo missionario sono quelle che, come ha ben detto Papa Francesco,  ripetendo le stesse espressioni di Gesù a Bartimeo: «Coraggio! Alzati, ti chiama» (v. 49). “Siamo mandati ad infondere coraggio, a sostenere e condurre a Gesù. Il nostro è il ministero dell’accompagnamento, perché l’incontro con il Signore sia personale, intimo, e il cuore si possa aprire sinceramente e senza timore al Salvatore. Non dimentichiamo: è solo Dio che agisce in ogni persona”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Is 53,10-11; Sal 32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45

Giornata Missionaria Mondiale e Canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano

Il verbo “servire” e il sostantivo “servo” ci aiuteranno a capire le Letture della 29a domenica. La prima presenta la figura e la missione del “servo del Signore”: “uomo disprezzato e reietto dagli uomini” ma attraverso il quale si rivela non solo la sua missione ma anche e soprattutto la volontà di Dio che dice “Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità”, pertanto la giustificazione e la liberazione degli uomini.

Nel modo in cui viene descritto, il servo del Signore corrisponde, in modo perfetto, solo al volto di Gesù Cristo che non ha spiegato la sofferenza, ma l'ha cambiata in strumento di comunione con Dio e con gli uomini. Colui che è venuto per “servire” e non farsi “servire”: “Anche il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” e che pertanto invita i suoi ad essere “servi o schiavi di tutti”

Servo del Signore accetta di scendere per incontrare gli uomini e donne

Leggendo il brano di Isaia e rimanendo all’ interno della pura logica e criterio di valutazione umana, il servo del Signore appare come un fallito, un sofferente, un perdente poiché abbandonato da Dio e disprezzato dagli uomini, egli è “disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire”.

Secondo la logica del tempo, egli soffre perché è peccatore e, di conseguenza, subisce la punizione a causa dei suoi molti e gravi peccati. Stando così le cose, non gli viene riconosciuto la grandezza e l’importanza che meriterebbe, ma viene “disprezzato dagli uomini”. L’autore sacro, continuando la descrizione della missione del servo del Signore, ne cambia la logica e fa subentrare la logica di Dio con la congiunzione avversativa “ma” …. “Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori”.

Per Dio, la sofferenza che ha colpito il servo del Signore durante la sua esistenza non è conseguenza dei suoi molti e gravi peccati, non è una punizione, o un castigo di Dio, ma un sacrificio di espiazione che giustificherà i peccati di molti. La sofferenza del servo è una sofferenza che servirà ad eliminare il peccato e a generare nuova vita per tutta l’umanità.

L’autore, usando la logica di Dio vuole dirci che una vita vissuta nella semplicità, nell'umiltà, nel sacrificio, nel dono di sé non è, agli occhi di Dio, una vita maledetta, persa, fallimentare ma feconda e pienamente realizzata che porterà liberazione e speranza al mondo e alle persone. In altre parole, il servo del Signore è colui che è venuto per servire, per lasciare la logica umana, la logica della grandezza, per entrare nella logica di Dio, quella della semplicità, umiltà e del servizio per amore. Non la logica dei primi posti ma quella del servizio, non servizio ad una persona ma servizio a molti…

Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti

Nella pagina del Vangelo, Gesù invita i discepoli a non lasciarsi manipolare dalla logica umana nemmeno dai sogni personali di ambizione, di grandezza, di potere e di dominio.  I due discepoli di Gesù, Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, fanno una richiesta: “concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Giacomo e Giovanni sono due poveri disgraziati tesi, come tutti noi, a raggiungere le proprie mete a qualsiasi costo, criticati dai compagni pieni di invidia e gelosia. Questo è un quadretto del tutto moderno. 

E Gesù approfitta della circostanza per ribadire il suo insegnamento e riaffermare la logica di Dio e del Regno in contrapposizione a quella umana. La contrapposizione è netta: governanti, capi, dominatori, i primi, oppure servitori e schiavi. Gesù chiede al discepolo un cambio radicale di mentalità, chiede di scegliere tra la logica del mondo e quella del Regno! Qui sembrano riecheggiare molte pagine evangeliche, a partire dal Magnificat che presenta Maria come serva del Signore e delle Beatitudini che proclama beati i poveri… La logica di Dio che è quella del Regno è anche la logica della vita di Gesù che rimane quella del servizio e per il Maestro, servire significa dare la propria vita.

Mentre i grandi di questo mondo, con logica umana, affermano la loro autorità assoluta dominando i popoli con la forza e sottomettendoli, esigendo onori, privilegi e titoli, promuovono se stessi a spese della comunità, esercitano il potere in modo arbitrario, i discepoli, invece, operano con la logica del regno che è quella dell'amore e del servizio. I suoi membri devono sentirsi “servitori” dei loro fratelli e sorelle, impegnati a servire con umiltà e semplicità, senza alcuna pretesa di comandare o dominare. Anche coloro che sono nominati a presiedere le comunità devono esercitare l’autorità in un vero spirito di servizio, sentendosi servi di tutti.

Il discepolo missionario è il servo del Signore ed è colui che sceglie la via del servizio e dell’amore. Egli è consapevole, come ha detto il Santo Padre: “la via del servizio è l’antidoto più efficace contro il morbo della ricerca dei primi posti; è la medicina per gli arrampicatori, questa ricerca dei primi posti, che contagia tanti contesti umani e non risparmia neanche i cristiani, il popolo di Dio, neanche la gerarchia ecclesiastica. Perciò, come discepoli di Cristo, accogliamo questo Vangelo come richiamo alla conversione, per testimoniare con coraggio e generosità una Chiesa che si china ai piedi degli ultimi, per servirli con amore e semplicità”. Chiediamo dunque che “la Vergine Maria, che aderì pienamente e umilmente alla volontà di Dio, ci aiuti a seguire con gioia Gesù sulla via del servizio, la via maestra che porta al Cielo”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

 Sap 7, 7-11; Sal 89; Eb 4, 12-13; Mc 10,17-30

Scegliere è il verbo che ci serve da filo conduttore per seguire la liturgia della 28ª domenica del Tempo Comune. Infatti, le tre letture ci invitano a riflettere sulle scelte che facciamo, mentre la prima  ci invita a scegliere lo spirito della sapienza: ricchezza inestimabile e incalcolabile, Gesù, nel Vangelo, propone come scelta il cammino dell’amore e della solidarietà che è un cammino del Regno.

La Lettera agli Ebrei propone la scelta della Parola di Dio che ci aiuta a discernere i sentimenti e i pensieri del cuore.

Vendere tutto per scegliere la sapienza

Questa lettura fa parte del lungo discorso dedicato all’ “elogio della Sapienza” nel libro della Sapienza (cap. 6-8) e ci insegna come la Sapienza sia oggetto di preghiera, di ricerca e di scelta. Per Salomone, la “Sapienza di Dio” è il valore più apprezzato tra tutti, molto superiore al potere, alla ricchezza, alla salute, alla bellezza e a tutti i beni materiali. Perciò egli usa dei verbi che rendono conto che davvero la Sapienza ha, per lui, un valore inestimabile: egli l’ha pregata e implorata da Dio, l’ha amata e preferita “a scettri e a troni”, l’ha stimata più della ricchezza che per lui è un nulla che non si può paragonare neppure a una gemma di inestimabile valore.

Quanto sarebbe bello che anche noi potessimo preferire, stimare ed amare la Sapienza! Tutti questi verbi dimostrano che Salomone ha fatto davvero una scelta per la Sapienza che è la “luce” che indica i percorsi e permette di discernere le opzioni, le scelte corrette da intraprendere.

A differenza dei beni terreni, lo splendore della Sapienza non tramonta: è un valore duraturo, che viene da Dio e che conduce l'uomo all'incontro della vera vita, della felicità perenne. Come si dice, anche per Salomone, ciò che risplende non è sempre oro. Come vedremo nel Vangelo, la vera Sapienza ci insegna che è necessario rinunciare a certi valori deperibili per acquisire quelli della vita vera ed eterna.

Ecco perché Salomone ha venduto scettri, troni, ricchezza, gemma inestimabile, argento per acquisire e guadagnare la Sapienza ovvero l’amore; la vera Sapienza è la Parola di Dio, è il Verbo incarnato, che si fece uno di noi e che, per amore, per la salvezza dell’umanità scelse la croce. Ecco perché Gesù, nel Vangelo, dirà al giovane ricco di vendere tutto per acquisire l’amore e vivere dell’amore.

Dà ai poveri e avrai un tesoro in cielo

Il brano evangelico è composto da due parti. Nella prima l’evangelista, in forma di dialogo, racconta l’incontro tra Gesù e l'uomo ricco che gli chiede come ottenere, in eredità, la vita eterna cioè la salvezza, profonda e insopprimibile esigenza di quasi tutti gli esseri umani. Nella seconda parte, invece, ispirandosi dalla conclusione della prima, Gesù dialoga con i suoi discepoli che avevano fatto la scelta di abbandonare tutto e di seguirLo… cioè di sceglierLo.

Nella prima parte, davanti alla richiesta del giovane ricco sul come fare per avere in eredità la vita eterna, Gesù risponde: “Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. In un secondo momento, dopo che il giovane si è mostrato un vero osservatore dei comandamenti, Gesù va oltre la pura osservanza dei comandamenti e propone che venga fatta una scelta inconsueta e sfidante: “va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi”. Se davanti alla prima proposta, quella abituale e tradizionale – osservanza dei comandamenti - il giovane ne era uscito felicissimo perché grande osservante della legge, dei precetti: “tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”; nella seconda proposta, invece, abbiamo un finale piuttosto amaro.

Davanti alla proposta di rinunciare a tutto, distribuire ai poveri le ricchezze e seguire Gesù, il giovane rimane triste e si vede un uomo fallito. Infatti, l’evangelista conclude che egli “fattosi scuro in volto se ne andò rattristato”.  L’uomo se ne va triste, perché la proposta di Gesù è al di là delle sue aspettative. Dall’aspettativa dell’osservanza all’aspettativa della solidarietà con i poveri e della sequela. Il giovane se ne va triste, perché incapace di fare una scelta radicale: vendere tutto, distribuire ai poveri e seguire il Maestro. Tale scelta esige di riconoscere a Cristo il valore-primato, a cui le cose, i beni, le ricchezze vanno sottomesse. Bisogna, come dicevamo nella prima Lettura, stimare, preferire ed amare Gesù e la sua vita.

Infatti, come tanti cristiani, il nostro giovane ricco si è mostrato un credente religiosamente impegnato, sincero, onesto senza segno di orgoglio e di autosufficienza ma con una avidità, una inquietudine sincera verso una ricerca del vero cammino per avere in eredità la vita eterna. È dalla sua giovane età che egli è un vero osservatore: ho osservato tutte queste cose, quindi, ho diritto alla ricompensa che mi viene da Dio.

Gesù che non si accontenta della pura e genuina osservanza dei comandamenti va oltre all’osservanza e decide di invitare il nostro giovane osservatore a salire ad un altro livello in questo cammino verso la vita eterna: invitandolo a unirsi alla comunità dei discepoli. Si tratta di vendere tutto, non per immagazzinare dei soldi da lasciare in banca, ma per distribuirli, non ai famigliari e amici, ma ai poveri e, in conclusione, seguire il Maestro nel cammino di amore, di solidarietà con i poveri. Questa è la fase della perfezione evangelica, o la condizione di chi è discepolo di Gesù: lasciare tutto e seguirLo e far diventare la vita una vera e genuina carità, uno strumento di amore e di solidarietà.

Il discepolo missionario è, secondo Papa Francesco, chiamato a passare dai precetti osservati per ottenere ricompense all’amore gratuito e totale. Al discepolo missionario “Gesù chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore e ostacola l’amore. Quello che Gesù propone non è tanto un uomo spoglio di tutto, quanto un uomo libero e ricco di relazioni. Se il cuore è affollato di beni, il Signore e il prossimo diventano soltanto cose tra le altre. Il nostro troppo avere e troppo volere ci soffocano il cuore e ci rendono infelici e incapaci di amare”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

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