Is 6,1-2,3-8; Sal 137; 1 Cor 15,1-11; Lc 5,1-11
La disponibilità e la prontezza a collaborare, anche attraverso un cammino non facile, nel progetto salvifico di Dio sono il tema conduttore delle tre letture di questa domenica. Nella prima lettura davanti alla domanda, “chi manderò e chi andrà per noi”, il profeta Isaia si mette a disposizione dicendo “eccomi, manda me”.
Nel Vangelo, Simon Pietro, sebbene abbia passato tutta la notte senza successo nella pesca, scommette sulla proposta e si rimette in servizio, seguendo il mandato del Maestro, solo sulla Sua parola: “abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. È in base a questa disponibilità e fede che riceve la sua vocazione e missione: “d'ora in poi sarai pescatore di uomini”.
La prima Lettura racconta di un’impressionante visione ove Isaia vede i Serafini che proclamano la grandezza e la santità di Dio: “Santo, Santo, Santo il Signore degli eserciti”. Dio è tre volte Santo, questa ripetizione è un modo superlativo di esprimere la santità di Dio, in ebraico quando si ripete un aggettivo due volte è un comparativo; quindi, tre volte Santo esprime un superlativo: Dio è super santo e anche questi esseri celesti ne riconoscono la santità. Allora, Dio che è santo interviene per purificare il profeta: le sue labbra vengono toccate, da questo punto Isaia si sente pronto per la missione, colui che aveva detto “ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito”, ora si mette a disposizione per la missione: “eccomi, manda me”.
È bello contemplare come Isaia davanti alla grandezza e alla santità di Dio riconosca se stesso e si senta “perduto” a causa non solo del suo peccato ma anche di quello del suo popolo con cui egli abitava: “io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito.” Bisognerà però attendere l’intervento del Serafini che lo rendano un uomo nuovo, affinché Isaia possa rivolgersi a Dio, tre volte santo e dichiarare la sua totale disponibilità nel mettersi al suo servizio: “Eccomi, manda me”. Nella risposta si notano l’affidarsi di Isaia, non solo alle sue forze, ma anche e soprattutto sulla santità di Dio, la cui misericordia è senza limiti, pertanto Isaia manifesta l’atteggiamento tipico del servo pronto a eseguire gli ordini del suo Re.
Gesù arriva al lago di Gennèsaret, trova due barche, entra in esse, comincia a insegnare, quando finisce di parlare, dice a Simone: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Simone risponde: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti". Anche se i pescatori hanno passato tutta la notte a pescare senza successo, Simone accetta la proposta e si rimette al lavoro, seguendo il comando del Maestro: “sulla tua parola getterò le reti”. Solo a questa condizione la pesca si rende generosa, “presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano”.
La pesca miracolosa ha provocato un’impressione molto profonda simile a quella del profeta Isaia. Simone come Isaia si accorge non solo della santità di Dio ma anche della sua potenza e nel contempo della propria impurezza e piccolezza, Simone prova spavento e dice: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Da quell'esperienza di riconoscere la grandezza e santità di Dio, da una parte, e la propria piccolezza umana, dall’altra, nasce una chiamata al discepolato: “Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini”.
Il lago e la barca sono luoghi abituali per Simon Pietro, Giacomo e Giovanni. Gesù entra nella loro vita ed entra in un momento di frustrazione per il fallimento della pesca della sera prima. È in quella solitudine causata dal fallimento, dall'insuccesso, quando tutto sembra essere inutile, che Gesù propone un nuovo inizio: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”; “fatti coraggio e ricomincia da dove hai finito”; ricomincia dalla delusione, riprova ancora”. Ma per quei pescatori professionisti, pescare dopo una notte di lavoro inutile era certamente una follia, tanto più che tale istruzione veniva dal figlio di un falegname.
“Visto che lo dici, getterò le reti” Simon Pietro che con grande coraggio e umiltà obbedisce a Gesù, ora non più come semplice figlio di un falegname, ma come “Maestro” e “Signore”. Simon Pietro non riparte dal fallimento e dall'insuccesso umano, ma dalle parole e dal comando di Gesù. È dunque la fiducia e l'obbedienza, cioè la fede di Simon Pietro nella parola di Gesù, che ha reso efficace la pesca miracolosa. Non tanto per le capacità e abilità di Pietro, ma perché questi ha seguito il comando di Gesù, Maestro e Signore. Solo nell'obbedienza alla parola del Signore si può ottenere ciò che è impossibile con le forze umane, la fede non ha altro sostegno che la parola di Dio.
Sono dunque la fede, la disponibilità e l'obbedienza le basi della nuova missione: “Non avere paura. D'ora in poi sarai un pescatore di uomini”. Gesù dice a Simon Pietro di non aver paura del suo passato e dei fallimenti della vita e lo invita ad essere un “pescatore di uomini”, cioè a preoccuparsi della vita, della salvezza, della dignità, della salute e della libertà di tutti, a cominciare dai più deboli.
Siamo tutti indegni, ma siamo tutti chiamati dal Signore, che non teme le nostre indegnità, a diventare missionari il Regno di Dio, seppur con compiti diversi. Siamo chiamati ad andare avanti sempre e comunque, nonostante tristezze, fallimenti e delusioni, fidandoci dalla Sua chiamata.
Il discepolo missionario, come sottolinea Papa Francesco, è consapevole che “la logica che guida la missione di Gesù e la missione della Chiesa è andare alla ricerca, “pescare” gli uomini e le donne [...] per restituire a tutti la piena dignità e libertà, mediante il perdono dei peccati. Questo è l’essenziale del cristianesimo: diffondere l’amore rigenerante e gratuito di Dio, con un atteggiamento di accoglienza e di misericordia verso tutti, perché ognuno possa incontrare la tenerezza di Dio e avere pienezza di vita”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Ml 3,1-4; Sal 23: Eb 2,14-18; Lc 2,22-40
Nonostante la straordinaria esperienza dello Spirito che i genitori di Gesù hanno avuto, in particolare sua madre, essi sono ancora ancorati alla tradizione del popolo che vede il rapporto con Dio basato sull’ osservanza, sull’obbedienza della sua legge.
L’evangelista in questo episodio vuole anticipare, raffigurare, la difficoltà che avrà Gesù nel proporre al suo Popolo, una diversa relazione con Dio, non più basata sull’obbedienza alle sue leggi, ma sull’ accoglienza del suo Spirito, del suo amore.
Ecco allora che l’evangelista, nell’episodio conosciuto come la presentazione di Gesù al Tempio, presenta due comitive contrarie.
Una raffigurata dai genitori di Gesù che portano il bambino per adempiere un inutile rito, perché essi intendono fare figlio di Abramo quello colui che è invece è già Figlio di Dio.
E dall’altra parte, l’uomo dello Spirito, Simeone, intenzionato ad impedire l’inutile rito.
I genitori vanno per la purificazione della madre – perché la nascita di un bambino rendeva impura la madre e quindi la donna doveva purificarsi attraverso un’offerta, e qui è l’offerta dei più poveri, di una coppia di tortore - e soprattutto per pagare il riscatto del figlio.
Ogni primogenito maschio che nasceva, infatti, il Signore lo voleva per sé.
Se i genitori lo volevano, dovevano pagargli l’equivalente di venti giornate di lavoro, cioè cinque sicli.
Ebbene l’evangelista, mentre Maria e Giuseppe con il bambino si dirigono verso il Tempio per compiere questo rito, ci presenta con sorpresa - l’evangelista adopera un’espressione che indica la meraviglia “Ecco, a Gerusalemme c’è un uomo di nome Simeone”, Simeone (che significa “il Signore è ascoltato”), è l’uomo dello Spirito, che tenta di impedire l’inutile rito.
Infatti Simeone prende il bambino tra le braccia mentre i genitori volevano adempiere ad ogni cosa della legge e pronuncia una profezia che lascia sconcertati i genitori.
Infatti di Gesù dice che sarà “gloria del suo popolo, Israele”, e questo Maria e Giuseppe lo sapevano, era il compito del Messia, del Figlio di Dio, ma, la novità,” luce per rivelarti alle genti” , cioè ai popoli pagani.
L’amore di Dio, annunzia Simeone, è universale, non è più per un popolo - il popolo eletto -, ma è per tutta l’umanità.
Pertanto i nemici di Israele, cioè i pagani, non dovranno più essere - come essi credevano, come la tradizione presentava - essere dominati, ma accolti da fratelli.
Poi Simeone, a Maria dà una benedizione, che finisce in una maniera abbastanza sinistra.
Dice che Gesù – e lo raffigura a quello che poi Luca più avanti nel suo vangelo presenterà come “una pietra”, una pietra che può essere angolare, che serve per la costruzione, o una pietra che fa inciampare
le persone, le fa sfracellare- ed infatti dirà di Gesù che “Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele” e, come segno di contraddizione, “anche a te” ,quindi si rivolge a Maria, la madre di Gesù, “una spada trafiggerà l’anima”, cioè la tua vita.
Qual è il significato di questa spada che trafigge l’intera vita di Maria?
La spada, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è figura della Parola di Dio, che è efficace come una spada, dirà l’autore della lettera agli Ebrei, che “la parola di Dio è come una spada che arriva fino alle giunture e alle midolla e al punto di divisione dell’anima e dello Spirito”.
Quindi Simeone a Maria, che raffigura il popolo di Israele, le annuncia che la parola di questo Figlio per lei sarà come una spada che la costringerà a fare delle scelte, e delle scelte molto dolorose.
Infatti, nel prossimo episodio che l’evangelista presenterà, quello del ritrovamento di Gesù nel Tempio, farà sì che le prime e uniche parole che Gesù rivolgerà alla madre, saranno parole di rimprovero.
È ancora lungo il cammino di Maria. Maria dovrà comprendere che da madre del Figlio, dovrà trasformarsi in discepola.
Un cammino lungo e doloroso, come una spada che trafigge l’anima.
* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).
VI Domenica della Parola di Dio
Ne 8,2-4a.5-6.8-10; Sal 18; 1Cor 12,12-30; Lc 1,1-4; 4,14-21
Con la Lettera Apostolica “Aperuit illis”, “aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture”, Papa Francesco istituì la Domenica della Parola di Dio – celebrata ogni III Domenica del Tempo ordinario – al fine di “riscoprire il senso pasquale e salvifico della Parola di Dio”. Questa domenica sarà dunque dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio.
Le letture che ci vengono proposte mettono in rilievo l’importanza della Parola di Dio; nella prima lettura Esdra, funzionario del re di Persia, e gli ebrei, tornati dall’esilio già da molto tempo, leggevano il libro della legge e ne spiegavano il senso. Nel Vangelo, invece, è Gesù che entra di sabato nella sinagoga dove si trovavano riuniti gli ebrei per la preghiera, l’ascolto della parola di Dio e il commento. Anch’Egli legge un brano della Torah e dà senso a quanto letto: “oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
La pagina del libro di Neemia è un racconto commovente sulla centralità della parola di Dio in mezzo al popolo d’Israele dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia. Esdra aveva fatto costruire “una tribuna di legno”, posta in alto, aveva convocato l’assemblea, portato la legge, cioè la Torah sulla tribuna e letto tutto il libro, dall’alba “fino a mezzogiorno”. Tutti stavano ad ascoltare. È impressionante notare come il popolo fosse attento, nonché affascinato dalla Parola: esso si metteva in piedi mentre si intronizzava il libro e tutti tendevano l’orecchio al libro. La parola era letta, poi seguiva la spiegazione del suo senso. Nelle nostre assemblee domenicali non tutti sono capaci di “tendere l’orecchio alla parola”.
Spesso siamo distratti da mille ed una cosa, siamo presenti solo fisicamente e nessuno si lascia commuovere dalla parola ascoltata. Viceversa, abbiamo sentito che durante la lettura il popolo era commosso, la parola lo faceva entrare in contatto con Dio e con la loro realtà personale ciò che non succede nelle nostre vite. Il popolo piangeva di gioia e di dolore. Quanti di noi piangono davanti all’ascolto? Il popolo piangeva di gioia per la gratitudine del dono della Parola e di dolore perché la Parola letta lo rendeva consapevole sia dei propri peccati, sia del bisogno di pentimento e conversione. La parola lasciava un segno nel cuore come dice Dio nel libro del profeta Isaia: “così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”.
Il popolo era consapevole che la Parola letta era la Parola di Dio; era Dio stesso che, di propria iniziativa, parlava al suo popolo perciò “tutto il popolo pregava, mentre ascoltava le parole della legge”. Pregava perché quella Parola era un dono di Dio, perciò essi erano disponibili all’ascolto della Parola ed erano desiderosi di saperne il senso.
La prima parte del testo del Vangelo (1,1-4) è un prologo letterario in cui Luca presenta la sua opera come il frutto di ricerche personali accurate su ogni circostanza accaduta "in mezzo a noi"; un'opera destinata "all'illustre Teofilo" perché abbia una conoscenza sicura, solida di ciò che gli è stato insegnato su Gesù (nel Vangelo) ma anche sulla sua Chiesa (Atti degli Apostoli). Infatti, negli Atti scrive: “Teofilo, nel mio primo libro ho scritto di tutto ciò che Gesù ha cominciato a fare e a insegnare”.
Il nome Theophilus deriva dal greco theophilos "Theo = Dio", "philos = amico o amore fraterno". Questo nome può essere tradotto come "amato di Dio" o "amico/amante di Dio". Anche se è possibile che la persona con questo nome Teofilo sia esistita perché Luca scrivesse la sua opera, vorrei sottolineare il valore simbolico del nome: esso indica tutti i credenti considerati non solo amati da Dio ma anche amanti di Dio. L'informazione che Luca ci offre è perché siamo amati da Dio e vuole rafforzare la nostra esperienza dell'amore che Dio ha per noi. Essendo coscienti di questo amore di Dio, siamo chiamati ad amare Dio, ad essere amanti di Dio. Per lasciarci commuovere dalla Parola di Dio, affascinare da essa, dobbiamo essere “teofilo”. Leggere la Parola di Dio essendo consapevoli che siamo amati e amanti di Dio.
Siamo chiamati a riconoscere, allo stesso tempo, il privilegio dell'amore che Dio ha per l'umanità, ma anche a scoprire la missione che deriva da questo amore: amare Dio. Amare Dio prima di tutto per poi amarlo intensamente: "chi ama Dio si accontenta di piacergli, perché il premio più grande che possiamo desiderare è l'amore stesso. L'amore, infatti, viene da Dio, tanto che Dio stesso è amore" (San Leone Magno).
La seconda parte del Vangelo ci racconta il ritorno di Gesù a Nazareth quando, un sabato, si reca in sinagoga per leggere la Parola. Gli fu dato il libro e lesse il passo dal rotolo di Isaia (Is 61,1-2) in cui si racconta la vocazione e la missione del profeta. Mentre so gli astanti aspettano un commento di Gesù, egli si limita a dire loro che quello che avevano appena ascoltato, da quel giorno, si sarebbe compiuto: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato” (Lc 4,21). In Gesù, quella parola letta e Gesù diventano una sola cosa. Gesù è il messia atteso e tutte le Scritture ci parlano di Cristo e tutto è stato scritto in vista di Lui. Non si possono dunque ignorare le scritture poiché, come dice San Girolamo “Ignorare le Scritture è ignorare Cristo”.
Tutti noi che desideriamo essere Teofilo dobbiamo metterci all’ascolto della Parola di Dio affinché possiamo conoscere Cristo e vivere come Lui ci ha insegnato.
Il discepolo missionario, ora chiamato anche Teofilo, è consapevole che la sua fede “si fonda sulla Parola viva, non su un libro, come ha affermato Papa Francesco. Egli sa che, quando la Sacra Scrittura è letta nello stesso Spirito con cui è stata scritta, permane sempre nuova. Così, egli si nutre ogni giorno della Parola di Dio e si fa, come Gesù, contemporaneo delle persone che incontra; non è tentato di cadere in nostalgie sterili per il passato, né in utopie disincarnate verso il futuro” ma afferma: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Is 62,1-5; Sal 95; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11
La liturgia della Parola, nel parlare del disegno dell’alleanza tra Dio ed il suo popolo, ci fa sostare su due pagine bibliche ricchissime d’insegnamento sulla suddetta alleanza.
Nella prima Lettura Dio, attraverso la profezia d'Isaia, rinnova l'alleanza-matrimoniale con il popolo d'Israele e a seguito di tale rinnovamento, Israele non verrà più chiamata “abbandonata” ma sarà chiamata la gioia di Dio: mia gioia. Nel racconto del Vangelo, Giovanni presenta il primo dei “segni”: le nozze di Cana, simbolo nuziale dell’incontro tra Dio e l’umanità. Gesù dà il nuovo vino, il vino dell’amore per stabilire la nuova Alleanza poiché il vino è simbolo dell’amore felice tra uomo e donna, tra l’umanità e Dio. Il racconto si colloca nell’ambito della tradizione profetica: Gesù moltiplica il vino, come Elia la farina e l’ olio per la vedova di Serepta, come Eliseo l’olio per una vedova e i pani per il popolo.
Gerusalemme è la città simbolo di Israele e il suo popolo è caratterizzato per l’infedeltà all’alleanza con Dio. Ma Dio il cui amore è fedele vuole restaurare la sua relazione di amore con il suo popolo dandogli una nuova vita, con un matrimonio nuovo, immacolato e totalmente purificato. Questa nuova vita viene rappresentata dal cambiamento di nome che sta ad indicare una svolta nella vita di una persona.
Israele sarà chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Non più l’abbandonata, persona lasciata senza cure, protezione e amore; ma verrà chiamata piuttosto “la mia gioia”, “il mio compiacimento”. Ci fa ricordare Dio quando disse a Gesù: in te ho posto il mio compiacimento. Non si tratta solo del cambio di nome ma anche di relazione: un nuovo rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo. Infatti, la sua terra non sarà più detta devastata ma sposata e avrà un nuovo sposo. È ben chiaro che lo sposo è Dio come è scritto: “come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. Siamo dunque chiamati ad accettare questa nuova relazione con Dio e non ci dobbiamo far trascinare dagli altri dei, ma dobbiamo sostenere la nuova relazione con Dio che è sempre fedele e misericordioso, è Lui che afferma: “ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”, (Os 2,21-22). La nuova relazione viene coronata con il vino nuovo.
L’Evangelista Giovanni è l’unico che fece iniziare la sua carriera di rabbi a Gesù inaugurando il suo ministero pubblico con le nozze a Cana, un piccolo villaggio della Galilea. Cana, in ebraico, significa creare oppure fondare. È in Cana, dunque, che Gesù opera il suo primo segno, cioè il primo miracolo che è il fondamento della nuova creazione e della nuova fondazione. A Cana, con il nuovo e buon vino, si realizza la fondazione della nuova alleanza.
Il centro del racconto non è dunque un semplice matrimonio, dove non compare la sposa e solo di passaggio, ma un espediente per conoscere più a fondo Gesù, per rispondere alla domanda che attraversa tutto il quarto Vangelo: chi è Gesù?
Alle nozze, Maria si accorge della mancanza del vino, quello che, secondo la tradizione profetica, indica un elemento tipico del banchetto messianico. Nelle nozze manca l'essenziale; manca quello che rappresenta l'abbondanza del banchetto e la gioia della festa. Tutto sta per finire. Tutto è triste. Maria va da Gesù e lo informa “ non hanno più vino”. Gesù, nella sua risposta, sembra indifferente alla mancanza del vino: “Donna, che vuoi da me?”. Immediatamente, Gesù aggiunge “non è ancora giunta la mia ora”, però “Sua madre disse ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Maria è obbediente al Figlio e chiede che la sua parola sia ascoltata e realizzata, infatti, i servitori furono davvero obbediente al Maestro. Su sua richiesta i servitori riempirono d'acqua le anfore e le portarono a Gesù, appena assaggiato, non era più acqua ma vino: un vino nuovo e buono.
Nella nuova relazione tra Dio e il suo popolo si deve ascoltare Maria che continua a dire “non hanno più vino”. Maria è una presenza silenziosa ma significativa; una presenza osservante che nota ogni singola mancanza. Maria si accorge della necessità della gente e interviene presso il figlio. Maria è obbediente e raccomanda l'ascolto e l’obbedienza: “qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Infatti, i servitori ubbidiscono. Se si obbedisce a Gesù, ci sarà un nuovo vino, una nuova e vera felicità, nella nuova alleanza, nella nuova relazione tra Dio e il suo popolo.
L’intervento di Gesù che muta l’acqua in vino “ fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui” (Gv 2,11)
Dunque, anche per Papa Francesco, in queste nozze Gesù lega a sé i suoi discepoli con una Alleanza nuova e definitiva. A Cana i discepoli di Gesù diventano la sua famiglia e a Cana nasce la fede della Chiesa. A quelle nozze tutti noi siamo invitati, perché il vino nuovo non verrà più a mancare.
Il discepolo missionario si sente invitato “a riscoprire che Gesù non si presenta a noi come un giudice pronto a condannare le nostre colpe, né come un comandante che ci impone di seguire ciecamente i suoi ordini; si manifesta come Sposo dell’umanità: come Colui che risponde alle attese e alle promesse di gioia che abitano nel cuore di ognuno di noi”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).
Is 40,1-5.9-11; Sal 103; Tt 2,11-14;3,4-7; Lc 3,15-16.21-22
Nella festa del Battesimo del Signore che conclude il tempo del Natale, la liturgia della Parola ci parla del battesimo di Gesù, nel Vangelo di Luca e del nostro nella Lettera di San Paolo a Tito: “Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo … affinchè, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.” Si tratta dunque di un passaggio: dal battesimo di Gesù al nostro.
Il profeta Ezechiele disse ad Israele che, dopo il peccato verso Dio, aveva meritato l’esilio e che se desiderava rivivere nuovamente con Lui e ricevere il suo Spirito, doveva essere totalmente purificato, pronunciando il simbolismo dell’acqua, “Vi aspergerò con acqua e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli”.
È nell’ambito di questa purificazione che la narrazione del battesimo di Gesù è inserita nel contesto della missione di Giovanni il Battista che, predicando la conversione del cuore, la venuta del regno di Dio e il portare frutto con le buone opere, annunzia colui che battezzerà “in Spirito Santo e fuoco”. Mentre il popolo si faceva battezzare “con acqua” cioè il battesimo di conversione e di pentimento, entra in scena Gesù che, tra la folla, viene anche lui per essere battezzato.
L’evangelista Luca sottolinea anzitutto che il battesimo di Gesù avviene mentre Egli era insieme a “tutto il popolo”. Non descrive il rituale del battesimo di Gesù, egli Lo mette in scena già battezzato: mentre tutto il popolo veniva battezzato, Gesù riceve anche lui il battesimo. Gesù, figlio di Dio, nell’anonimato, si nasconde in mezzo alla gente che si sente peccatrice ma e bisognosa di conversione e di purificazione. La gente va da Giovanni per fare il battessimo di immersione. Gesù non aveva peccato ma si mescola alla folla peccatrice, non aveva bisogno del battesimo di pentimento e di conversione; eppure, si mette in fila per riceverlo.
È in questo momento e in questo gesto che Luca sottolinea la grandezza e la bellezza del battesimo di Gesù: il quale compie il più grande gesto di umiltà e di abbassamento: facendosi battezzare si mescola e solidarizza con tutto il popolo. Gesù facendosi immergere da Giovanni il Battista nelle acque del fiume Giordano solidarizza con tutti i suoi fratelli e sorelle e si manifesta come Dio in mezzo agli uomini. Ecco un gesto di umiltà, di sottomissione a Dio e di totale solidarietà con i fratelli peccatori. Gesù non ha bisogno del battesimo ma si fa battezzare per indicare la sua vera missione: facendosi simile agli uomini, eccetto nel peccato, prende su di sé i nostri peccati per risorgere a una nuova vita.
Nel battesimo, Gesù si fa accanto all’uomo concreto per salvarlo; mettendosi tra i peccatori, Gesù vuole mostrarsi solidale con il peccatore di tutti i tempi, inserirsi umilmente nel sofferto cammino di tutta l’umanità, abbracciando la condizione della gente povera e vulnerabile, manifestando così una meravigliosa solidarietà con il suo popolo, con gli ultimi, con i peccatori.
Il secondo elemento che Luca annota e che merita la nostra riflessione è che mentre Gesù è in preghiera, dopo il Battesimo, viene consacrato Messia dallo Spirito Santo e riconosciuto dal Padre quale era ed è veramente, cioè il Figlio amato, il Figlio del compiacimento del Padre. Gesù è rivelato da Dio come suo Figlio, come il suo prediletto, come il testimone gradito dell’azione salvifica del Padre verso l’uomo, proprio perché compie già il mistero della volontà di accoglienza, di perdono, di comunione, di salvezza che Dio desidera. Nel momento della solidarietà, Dio rivela la vera identità di Gesù: il Figlio, l’amato.
Con il battesimo di Gesù inizia una nuova era per l’umanità: in cui il Figlio di Dio agirà nella storia. Tutto ciò che Gesù compirà nel corso del suo ministero, sarà molto importante perché sarà fatto dal Figlio di Dio stesso. Un’era nuova è cominciata sotto il potere di Dio e in essa tutti i piani di Dio saranno realizzati. Un’ era di fratellanza perché in Gesù siamo tutti fratelli, Gesù Figlio di Dio si è fatto fratello di ogni uomo immerso nelle acque del peccato, ogni uomo unto dallo Spirito, ogni uomo che ha sentito dire “tu sei il mio figlio”.
Come ha sottolineato Papa Francesco, il Suo Battesimo è strettamente connesso al nostro, Gesù si fa carico delle nostre necessità. Di noi che mendichiamo l’amore di Dio, di nostro Padre. Anche tu e io, afferma papa Francesco, possiamo imitare Gesù, uscire e farci carico delle necessità degli altri, «è anche questo il modo in cui possiamo sollevare gli altri: non giudicando, non suggerendo cosa fare, ma facendoci vicini, compatendo, condividendo l’amore di Dio».
Il discepolo missionario è chiamato a imitare Cristo e un modo concreto di farlo è occuparci dei bisogni degli altri e non tanto dei nostri. “Uscire da noi stessi, guardare il bisognoso, che necessita della nostra attenzione, del nostro tempo, del nostro sorriso, ecc. Imitiamo Cristo sollevando lo sguardo verso il prossimo. Questa è la strada della vera felicità, perché c’è più felicità nel dare che nel ricevere”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).