La canonizzazione di Giuseppe Allamano è una occasione per “approfondire il senso più profondo del nostro esse missionari della Consolata”
“Beato il popolo scelto dal Signore”. Partendo dal ritornello del Salmo 32 proposto dalla liturgia, all’omelia della Messa presso la Casa Generalizia a Roma, sabato 31 agosto, il cardinale Giorgio Marengo, IMC, ha riflettuto sul breve tempo che ci separa dalla canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, il prossimo20 ottobre 2024.
Il cardinale e Prefetto Apostolico di Ulaanbaatar (Mongolia) era a Roma per partecipare alla Plenaria del Dicastero per l'Evangelizzazione che includeva un'udienza con Papa Francesco.
Possiamo dire: “Beato sono io, beati siamo noi, per essere figli di San Giuseppe Allamano”, ha sottolineato il cardinale nella sua omelia. Poi, riflettendo sulla parabola dei talenti nel Vangelo di Matteo (Mt 25,14-30) ha posto alcune domande: “Se l’Allamano fosse qui con noi oggi, cosa direbbe? Come lui vedrebbe i nostri istituti? Ci considererebbe tra quelli che hanno fatto fruttare questa grazia che lui in qualche modo ha vissuto nella Chiesa, questa grazia di essere missionario della Consolata? L’abbiamo fatta fruttificare oppure l’abbiamo nascosta? Abbiamo fatto un buco e l’abbiamo sepolta lì? Questo interrogativo ci può accompagnare in questo periodo di preparazione”.
Sempre a proposito della canonizzazione dell'Allamano, Mons. Marengo ha invitato ad “entrare nel senso più profondo, più autentico di questo evento per potere anche noi come ci ha invitato San Paulo (prima lettura 1Cor 1,26-31), vantarci nel Signore. Questo sacro vanto – ha spiegato il cardinale - che non ha niente a che vedere con qualcosa di umano o di mondano, ma è Dio che sceglie il nulla, che siamo noi, per fare compere il suo disegno di salvezza”.
“Allora, possiamo continuare questa Eucaristia con questo senso di grande e profonda gratitudine e anche con un desiderio, in queste poche settimane che ci separano della canonizzazione, di approfondire il senso più profondo del nostro essere missionari della Consolata come voleva il Fondatore. Amare come amava lui, usare dei beni materiali come ha usato lui. Riscoprire la bellezza della nostra vocazione per farla fruttificare. È questo quello che vogliamo chiedere in questa Eucaristia. Affidiamo questo nostro desiderio alla Vergine Consolata”, ha concluso il cardinale.
Mons. Giorgio Marengo, il primo porporato dei Missionari della Consolata, nato il 7 giugno 1974 a Cuneo (Italia), è il più giovane cardinale del Collegio. Dal 1993 al 1995 ha studiato Filosofia presso la Facoltà teologica dell'Italia Settentrionale e dal 1995 al 1998 Teologia nella Pontificia Università Gregoriana (Roma). Nel 2006 ha conseguito la Licenza e il Dottorato in Missionologia. Ordinato sacerdote il 26 maggio 2001 a Torino, dal 2003 in Mongolia. Il 2 aprile del 2020 viene nominato Prefetto Apostolico di Ulaanbaatar e l’8 agosto dello stesso anno ha ricevuto la consacrazione episcopale. Nel Concistoro del 27 agosto 2022 il Papa Francesco lo ha nominato cardinale, all’età di 48 anni.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Segretariato per la Comunicazione.
Il porporato, della congregazione dei Missionari della Consolata, ragiona sugli aspetti positivi e di gratitudine suscitati dall’esperienza missionaria. «Si vede all’opera lo Spirito Santo»
«Una delle parole chiave del cristianesimo, forse la prima, è “grazia”, il ricevere, in Cristo, qualcosa di non dovuto, addirittura la vita divina, la comunione con Dio. Per questo la nostra esistenza diventa graziosa e si accompagna al rendimento di grazie, movimento del cuore che riconosce la grazia originaria, che ci precede». Inizia con queste parole la riflessione sulla gratitudine del cardinale Giorgio Marengo, missionario della Consolata, residente dal 2003 in Mongolia dove per 14 anni è stato parroco nel villaggio di Arvaiheer.
Attraverso l’accompagnamento di uomini, donne, bambini che si volgono al Signore provenendo da esperienze molto lontane dal cristianesimo, si ha la grande grazia di vedere lo Spirito Santo all’opera nella vita delle singole persone e di interi gruppi umani. La considero un’esperienza bellissima, impagabile, che per me è motivo di gratitudine profonda. Il fondatore dei missionari della Consolata, il Beato (presto santo) Giuseppe Allamano, riteneva che la missione ad gentes fosse qualcosa di “eminentissimo”: usava il superlativo proprio per indicare il grado di intensità con cui si coglie lo Spirito all’opera e si assiste allo sbocciare della fede nel cuore delle persone. Vi è anche un secondo speciale motivo per cui essere sommamente riconoscenti: la vita missionaria allarga gli orizzonti del cuore e della mente. Ci si immerge in culture, tradizioni, usi, costumi diversi e ciò costituisce un enorme arricchimento sul piano umano.
Chiesa rotonda a forma di ger a Arvaikheer in Mongolia. Foto: Archivio IMC
Sì: quando le persone incontrano Gesù e cominciano a seguirLo, rileggono tutta la loro vita alla luce del Vangelo e si rendono conto di come il Signore le ha aspettate, come ha preparato le condizioni affinché venissero a Lui, come riscrive il loro sguardo sul futuro. Diventano persone estremamente luminose e infinitamente grate. Ricordo una signora di Arvaiheer, una delle prime a ricevere il battesimo: aveva abbracciato la fede con grande entusiasmo e riconosceva – con immensa gratitudine – come, grazie alla fede, tutto per lei fosse cambiato, come, ad esempio, non temesse più come prima la morte perché ora sapeva Chi e cosa l’attendeva. La riconoscenza spontanea e gioiosa di chi inizia la propria storia con Gesù ci può insegnare a rammentare la reale grandezza del dono della fede.
Penso di sì. Quando si vive con intensità il momento presente riconoscendo in esso il dono della fede e la presenza del Signore, è possibile superare il senso di sconforto e di smarrimento che può nascere per il fatto di essere pochi. Bisogna però riscoprire la profondità, la bellezza, la forza del dono della fede, e la felicità e la gratitudine per averlo ricevuto: così sapremo poi trovare le forme più adatte per adeguarci a una diversa condizione storica. Penso inoltre che sarebbe opportuno ricordare un fatto: quanti patiscono per essere diventati una minoranza rimpiangono un passato di grandi numeri che è stato un fenomeno circoscritto, in Italia, a un periodo determinato, caratterizzato dall’abbondanza di vocazioni sacerdotali, dalla nascita di numerose diocesi e di strutture assistenziali e sociali. Ma nei suoi duemila anni di storia, la Chiesa – nel mondo – è sempre stata realtà piccola, è sempre stata lievito nella pasta. L’importante, appunto, è essere lievito, è la fedeltà al Vangelo.
Sì, la tentazione esiste, specie nel contesto occidentale, dominato dall’efficientismo, che inevitabilmente condiziona la mentalità di tutti. Sono convinto però che questa sia una tentazione radicale che può maturare in qualsiasi contesto sociale: c’è infatti sempre il rischio, nell’opera di evangelizzazione, di concentrarsi sui passi successivi da compiere perdendo così la capacità di apprezzare la pienezza e la ricchezza del momento presente e tutte le abbondanti grazie e consolazioni che il Signore dà ad ogni passo compiuto, anche quando esso è molto faticoso. Inoltre c’è sempre il rischio di trasformare la propria dedizione in un idolo e di credere dunque che tutto dipenda da noi. Per mettersi al riparo dal rischio di perdere la letizia della semina e la gratitudine per l’essere inviati penso sia necessario percorrere una strada: cercare e ritrovare la verità più profonda di noi stessi recuperando e riscoprendo il valore di esperienze come, ad esempio, quella della vera amicizia, della preghiera o di una vita semplice, anche un po’ spartana. Queste esperienze di base aiutano a cogliere la verità più profonda della nostra vita: tutto ciò che siamo lo abbiamo ricevuto, tutto è grazia, è dono.
Il card. Marengo presenta al Papa alcuni malati della Casa della Misericordia in Mongolia.18 settembre 2023. Foto: OSV
Sì. Come si legge in un salmo, noi non potremo mai ripagare il Signore per il dono della vita, non potremo mai onorare completamente quanto riceviamo da Lui, però la forma più adeguata per farlo è cercare di voler bene come, a nostra volta, siamo amati da Dio, quindi con gratuità, fedeltà, perseveranza. E con il per-dono, il super dono che fa realmente rinascere. In Mongolia quando le persone, con la fede, scoprono che la vita non è determinata da un fato immutabile, ma che esiste il perdono, che la vita può sempre ricominciare per la grazia di Dio, provano una grande felicità. Qui il sacramento della confessione è molto amato.
L’icona che mi viene in mente è quella del buon ladrone che sulla croce, con umiltà, dice a Gesù “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. E Gesù risponde: “oggi sarai con me nel paradiso”. Chi sente di non aver onorato come meritavano i doni ricevuti, forse anche di averli sprecati, ha sempre una duplice possibilità: fare questo umile movimento del cuore verso il Signore riconoscendo le proprie mancanze e credere che la Sua misericordia sia più grande degli sprechi fatti. Niente è perduto, finché abbiamo respiro possiamo volgerci al Signore: davanti a Lui un giorno sono come mille anni e mille anni come un giorno. La nostra umiltà e la nostra umiliazione sono la porta aperta al Suo agire, al lasciare che il Signore sia il Signore.
A tre categorie di persone: ai miei genitori, a mia sorella e ai miei familiari, che mi hanno fatto crescere e sostenuto; ai tanti sacerdoti esemplari che ho incontrato e a quanti – insegnanti ed educatori – mi hanno formato; e infine a tutti coloro che, nel corso della vita, mi hanno perdonato. Anche questi ultimi, dandomi una seconda possibilità, hanno avuto un ruolo determinante nella mia vita.
* Cristina Uguccioni, giornalista dell’Avvenire. Originalmente pubblicato in: www.avvenire.it. Mercoledì 24 luglio 2024
Questa riflessione è frutto dell’esperienza vissuta da padre Giorgio Marengo, Missionario della Consolata, con il popolo mongolo. Nato a Cuneo il 7 giugno 1974, cresciuto a Torino dove ha frequentato il liceo classico Cavour, al termine del quale ha intrapreso il percorso di formazione sacerdotale nell’Istituto dei Missionari della Consolata. Dal 1993 al 1995 ha studiato Filosofia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e dal 1996 al 1999 Teologia nella Pontificia Università Gregoriana (Roma). Ha poi compiuto ulteriori studi presso la Pontificia Università Urbaniana, conseguendo la Licenza (2002) e il Dottorato (2016) in Missiologia. Ha emesso la Professione Perpetua il 24 giugno 2000 come membro dell’Istituto ed è stato ordinato sacerdote il 26 maggio 2001. Dopo l’ordinazione sacerdotale dal 2003 ha svolto il suo ministero pastorale in Mongolia ad Arvaikheer dove è stato parroco di Maria Madre della Misericordia e dal 2016 Consigliere Regionale Asia per la Mongolia. Il 2 aprile 2020 papa Francesco lo nomina prefetto apostolico di Ulan Bator e vescovo titolare di Castra Severiana. L’8 agosto viene consacrato vescovo a Torino, nel Santuario della Consolata, dal cardinale Luis Antonio Tagle, Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, creato Cardinale il 27 agosto 2022.
Una bella esperienza di inculturazione del carisma nel nostro apostolato. Buona Lettura.
(Padre Piero Trabucco, IMC, Casa Natale dell'Allamano)