61ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni

At 4,8-12
Sal 117
I Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

La quarta Domenica di Pasqua è considerata la “Domenica del Buon Pastore”, perché ogni anno, in questa domenica, viene proclamato il brano del capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni, che presenta Gesù come il “Buon Pastore". È questo, dunque, il tema centrale che la Parola di Dio suggerisce oggi per la nostra riflessione.

La prima lettura (At 4,8-12) presenta una catechesi rivolta ai credenti per mostrare loro come i discepoli di Gesù devono essere testimoni della fede.

La prima indicazione che Luca offre, riguarda Pietro, che era «pieno di Spirito Santo» (v. 8). I discepoli di Gesù non sono soli, abbandonati al loro destino, quando affrontano difficoltà e mettono a repentaglio la loro vita, per annunciare la salvezza. Infatti, è lo Spirito che li guida nella loro missione, li sostiene nella loro testimonianza e infonde in loro il coraggio necessario per affrontare le ostilità del mondo. Si realizza così la promessa che Gesù aveva fatto ai suoi discepoli: «quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di quello che direte in vostra difesa, perché “lo Spirito Santo vi insegnerà, in quel momento, ciò che bisogna dire” (Lc 12,11-12).

Nel discorso di Pietro emerge il coraggio e l'audacia (Luca usa la parola greca “parresia”) che vince la paura e che spinge l'apostolo verso una testimonianza radicale, (cfr. At 4,13) per testimoniare Gesù, soprattutto in un ambiente ostile. Luca suggerisce che la stessa “parresia” dovrà sempre caratterizzare l’annuncio Gesù da parte dei cristiani.

Nell'introduzione della seconda parte della lettera (1 Gv 3,1-2), l'autore ricorda ai credenti che Dio li ha resi suoi “figli”. E proprio dietro questa iniziativa di Dio si nasconde il suo immenso amore (v.1a). Essere chiamati “figli di Dio” per i credenti non è un semplice titolo onorifico, senza riscontro nella realtà anzi, definisce la situazione di coloro che sono amati da Dio con un amore “audace” e che da Lui hanno ricevuto la vita nuova. È chiaro che per essere “figlio di Dio” bisogna essere in comunione con Lui e vivere in modo coerente con la logica dell’amore verso il prossimo. I “figli di Dio” realizzano le opere di Dio, infatti, poco più avanti, in uno sviluppo che non rientra nella lettura odierna della liturgia, l'autore della lettera contrappone i “figli di Dio” ai “figli del diavolo” – che sono coloro che rifiutano la vita nuova di Dio e non praticano “la giustizia e non amano il fratello” (cfr. 1 Gv 3,7-10).

In quanto “figli di Dio”, vivono in modo coerente con i comandamenti di Dio sulla base di valori contrapposti a quelli che propone il “mondo”. Pertanto, il “mondo” li ignorerà o addirittura li perseguiterà, rifiutando la proposta di cui i “figli di Dio” sono testimoni. Non c’è nulla di nuovo né di sorprendente, perché il “mondo” aveva già rifiutato Cristo e la sua proposta di salvezza (v. 1b).

Il capitolo decimo del 4° Vangelo è dedicato alla catechesi del “Buon Pastore” che l’autore utilizza per spiegare la missione di Gesù: l'opera del “Messia” consiste nel condurre l’umanità verso pascoli verdeggianti e sorgenti cristalline da cui sgorga in pienezza la Vita.

L'immagine del “Buon Pastore” non è stata inventata dall'autore del 4° Vangelo, ma si ispira ad alcuni testi dell’Antico Testamento, in particolare, a Ez 34, dove viene utilizzata la metafora del “pastore” e del “gregge” per parlare del rapporto tra i governanti e il popolo. Il profeta, parlando agli esuli di Babilonia, denuncia che i capi di Israele sono stati, nel corso dei secoli, dei cattivi “pastori”, perché hanno pensato solo a loro stessi e hanno condotto il popolo su sentieri di sofferenza, di ingiustizia e di morte. Per questo, profetizza Ezechiele, Dio stesso verrà e assumerà la guida del suo Popolo, e metterà a capo del suo “gregge” un “Buon Pastore” (il “Messia”), che lo libererà dalla schiavitù e lo condurrà a nuova vita. Questa promessa di Dio – tramandata da Ezechiele – si è realizzata in Gesù cosi come ci racconta Giovanni.

Gesù è il buon pastore che conosce il suo gregge. Dopo aver definito in questo modo la sua missione e il suo rapporto con il gregge, Gesù spiega chi sono le sue pecore e chi può far parte del suo gregge. Quando afferma che “ho ancora altre pecore che non appartengono a questo recinto e devo radunarle” (v.16a), Gesù chiarisce che la sua missione è universale perché non si esaurisce dentro i confini del popolo di Israele, ma intende donare la vita a tutti i popoli della terra. Così deve essere la comunità di Gesù che per essenza, non si identifica con una specifica istituzione politica, sociale o culturale, perché abbraccia l’umanità senza discriminazioni, confini ed è inviata nel mondo intero. Ciò che è decisivo, per far parte della comunità di Gesù, è accogliere la sua chiamata e seguirlo nel progetto di vita che propone. Ci sarà, allora, un'unica comunità, il cui riferimento è Gesù, che camminerà con Lui verso la Vita vera ed eterna, perché “ascolteranno la sua voce e ci sarà un solo gregge e un solo pastore” (cfr. v.16b).

Avendo Cristo, il buon Pastore, come modello da seguire, preghiamo affinché ogni vocazione nella chiesa abbia come obiettivo di “seminare la speranza e costruire la pace…  infatti, siamo chiamati a riscoprire il dono inestimabile di poter dialogare con il Signore, da cuore a cuore, diventando così pellegrini della speranza, perché la preghiera è la prima forza della speranza.  Tu preghi e la speranza cresce e va avanti.” (Papa Francesco, Messaggio per la 61ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 21 aprile 2024)

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

At 3,13-15.17-19
Sal 4
1 Gv 2,1-5
Lc 24,35-48

Gesù è veramente risorto? Possiamo ancora incontrarlo? Come mostrare al mondo che Gesù è vivo e continua a offrire la salvezza agli uomini? È a queste domande che, fondamentalmente, le letture della terza domenica di Pasqua cercano di rispondere.

La prima lettura (At 3,13-15.17-19) è ambientata a Gerusalemme, presso la “Porta Bella”, situata sul lato orientale della città, dava accesso al Tempio per chi proveniva dal Monte degli Ulivi. Nelle figure di Pietro e Giovanni ci viene presentata la testimonianza della prima comunità cristiana di Gerusalemme, impegnata a continuare la missione di Gesù e a annunciare il progetto salvifico di Dio. L'autore degli Atti è convinto che questa testimonianza si concretizza non solo attraverso la predicazione, ma anche attraverso i gesti degli apostoli.

Pietro, rivolgendosi agli «uomini d'Israele» che lo ascoltano nel portico di Salomone, spiega che la guarigione dello zoppo è avvenuta nel nome di Gesù. Pietro e Giovanni erano, in questo caso, semplicemente intermediari della salvezza che Gesù è venuto ad offrire a tutti gli uomini. Di che cosa c’è bisogno affinché la perenne offerta di salvezza diventi efficace in noi anche oggi? È necessario “pentirsi” e “convertirsi”. Questi due verbi definiscono il movimento di riorientamento della vita affinché Dio torni ad essere al centro della nostra esistenza e la Sua Parola possa essere ascoltata.

Vivere con coerenza è il forte richiamo che proviene dalla seconda lettura (1 Gv 2,1-5). L'autore della lettera di Giovanni ci invita a prendere coscienza della nostra condizione di peccatori, ad accogliere la salvezza che Dio ci offre, a confidare in Gesù, l'“avvocato” che ci comprende (perché è venuto incontro a noi, ha condiviso la nostra natura umana e ha sperimentato la nostra fragilità) e che ci difende da ogni male. Riconoscere la nostra realtà di peccatori non deve gettarci nella disperazione, ma portarci ad aprire il cuore ai doni di Dio, ad accogliere umilmente la sua salvezza e a camminare con speranza verso Dio ricco di bontà e di misericordia che ci ama e ci offre, senza condizioni, la vita eterna. Riconosco la mia condizione di peccatore, che a volte dice “no” a Dio e sceglie strade di egoismo e di autosufficienza? Sono disposto ad avvicinarmi di nuovo a Dio e ad accettare le sue proposte? La mia vita, i miei atteggiamenti verso gli altri, i sentimenti che custodisco nel cuore, i valori che guidano le mie azioni, devono essere coerenti con la mia fede.

L’evangelista Luca, nel brano del Vangelo, mostra come i discepoli riconoscono progressivamente Cristo risorto. In questo brano (Lc 24,35-48) gli undici riuniti a Gerusalemme poco dopo la risurrezione di Gesù, sono già venuti a conoscenza di un'apparizione del Risorto a Pietro (cfr Lc 24,34), e dell’esperienza dei due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,35). Ciò malgrado, gli apostoli sono ancora impauriti, turbati e pieni di dubbi, molto probabilmente perché la maggior parte di loro non aveva ancora fatto l’esperienza di un incontro personale con Gesù risorto.

La catechesi di Luca suggerisce alcuni elementi che è importante rimarcare perché aiutano i discepoli di ogni epoca a comprendere e contestualizzare l’incontro con Gesù risorto.

Notiamo innanzitutto il modo in cui Gesù appare ai discepoli (v.36). È un'apparizione che sorprende i discepoli e che avviene per una iniziativa esclusiva di Gesù. È sempre Lui che “muove il primo passo” per venirci incontro, senza preavviso e in modo imprevedibile. Questa è la modalità con cui il Risorto continuerà ad apparire nella vita dei suoi discepoli pellegrini nel mondo.

È importante notare anche il luogo dove Gesù si trova quando si presenta ai discepoli: è «in mezzo a loro» mentre augura loro la pace. Sì perché, il suo posto è sempre al centro della comunità, ed è intorno a Lui che la comunità si costituisce e organizza la sua vita. Per questo lo sguardo di tutti i discepoli dovrà sempre essere fisso su di Lui e la comunità dovrà nutrirsi e vivere di Lui. Sempre Gesù vivo e risorto dovrà essere il riferimento costante della comunità cristiana!

Luca allude anche ai dubbi e al turbamento dei discepoli davanti a Gesù risorto. Questa allusione rivela la difficoltà che i discepoli sentivano nell’imboccare il cammino della fede. Perché, per i discepoli, la risurrezione non è stato un fatto immediatamente evidente, ma un percorso di maturazione nella fede, fino a giungere all'esperienza del Signore risorto (v. 38). Questo è l’itinerario della fede che anche noi siamo chiamati a percorrere.

Facciamo notare che Luca arricchisce il suo racconto con elementi “sensoriali” e tangibili che sembrano, fin dall'inizio, andare oltre l'ambito della Vita nuova di cui Gesù gode, dopo la risurrezione, per esempio: l'insistenza nel “toccare” Gesù per vedere che non era un fantasma (vv.39-40) e l'indicazione che Gesù aveva mangiato “un pezzo di pesce arrostito” (vv.41-43). L'utilizzo di questi elementi è, innanzitutto, un modo per sottolineare che l'esperienza dell'incontro dei discepoli con Gesù risorto non è stata una allucinazione nemmeno il frutto della loro fantasia, ma un'esperienza reale molto forte e suggestiva, quasi palpabile. Gesù risorto non è assente e distante dal mondo nel quale i discepoli devono continuare a camminare, ma Egli continua, nel tempo, a sedersi alla mensa con il suo popolo, a stabilire con loro legami di intimità e di comunione, a condividere i loro sogni, le loro fatiche, le loro speranze, le loro difficoltà e le loro sofferenze. Infine, viene il mandato missionario di predicare la conversione e il perdono dei peccati, offrendo a tutti la possibilità di abbracciare la vita nuova generata dall’incontro con il Cristo risorto. In questo dovrà sempre consistere la missione della comunità di Gesù.

Qual è il centro vitale, il riferimento fondamentale nelle nostre comunità cristiane? Siamo tutti concentrati su Gesù, oppure siamo distratti da altre figure, altre preoccupazioni, altri interessi, altre priorità e altri valori? Pace a voi!

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

Domenica della Divina Misericordia

At 4,32-35
Sal 117
1 Gv 5,1-6
Gv 20,19-31

L'itinerario della gioia pasquale tracciato dalla liturgia odierna ci porta a contemplare la prima comunità cristiana inviata nel mondo a testimoniare la vita nuova sprigionata dalla risurrezione di Gesù.

Quali sono le caratteristiche di questa comunità cristiana? Nella prima lettura (At 4,32-35) Luca descrive la comunità cristiana di Gerusalemme composta da persone diverse, che vivono la stessa fede con un cuore solo e un un'anima sola; una comunità dove l’amore fraterno si vive concretamente con gesti di condivisione e di solidarietà e che, per questo, testimonia Gesù risorto.

D’altra parte, in altri brani degli Atti degli Apostoli Luca racconta alcune difficoltà e tensioni vissute dentro la comunità cristiana. Questo vuol dire che l’intenzione di Luca è quella di descrivere la comunità di Gerusalemme come un ideale verso cui ogni comunità, che vuole dirsi cristiana, dovrebbe tendere, un modello verso cui aspirare, confidando nella forza dello Spirito.

Gli abitanti di Gerusalemme non avevano incontrato Gesù risorto, ciò che invece potevano vedere e “toccare con mano” era una sorprendente trasformazione nella vita dei discepoli, in grado di superare l'egoismo, l'orgoglio e l'autosufficienza per vivere l'amore, la condivisione e l’aiuto reciproco. È proprio questa testimonianza, nei fatti e nella vita, il modo migliore per dire a tutti che Gesù è vivo in mezzo a noi.

Quali sono per noi oggi le caratteristiche fondamentali della comunità cristiana? Prima di tutto, al centro ci deve essere il Cristo dell'amore, del servizio e del dono della vita. Per questo il cristiano non può vivere chiuso nel suo egoismo ed essere indifferente alla sorte degli altri fratelli e sorelle. Infatti, Luca parla della condivisione dei beni... Una comunità dove alcuni sprecano oppure accumulano dei beni per sé e dove altri, invece, vivono nell’indigenza, non è una comunità che testimonia la novità dell’amore che Gesù è venuto a portare. Un cristiano che, pur andando in chiesa, si mostra indifferente ai drammi e alle sofferenze dei più poveri è lontano dallo spirito e dalla prassi della comunità ideale. Altrettanto un cristiano che fa donazioni per i bisogni materiali della parrocchia, e che, nello stesso tempo, sfrutta i lavoratori e compie soprusi verso i più deboli è decisamente fuori dal modello della comunità ideale.

La seconda lettura (1 Gv 5,1-6) ricorda ai membri della comunità cristiana i criteri che definiscono un’autentica vita cristiana: il vero credente è colui che ama Dio, che aderisce a Gesù Cristo e alla proposta di salvezza che, attraverso di Lui, il Padre fa all’umanità e che vive amando i suoi fratelli e sorelle. Chi vive così va oltre la logica di questo mondo e diventa parte della famiglia di Dio.

Anche per l’autore della Prima Lettera di Giovanni, amare Dio, aderire a Gesù sono inseparabili dall’amore per il prossimo. Pertanto, chi non ama ed è indifferente ai bisogni degli altri, non adempie i comandamenti di Dio e non segue Gesù.

Gli ultimi capitoli del Quarto Vangelo (Gv 20,19-31)), ci presentano la comunità della Nuova Alleanza. L’indicazione che siamo nel “primo giorno della settimana” rimanda ancora una volta al tempo della nuova creazione inaugurata dalla morte/risurrezione di Gesù,

Nel cenacolo, a Gerusalemme, è raccolta la comunità creata dall'azione creatrice e vivificante del Risorto, che però è ancora insicura e spaventata perché circondata da un ambiente ostile, ma soprattutto perché non ha ancora fatto l'esperienza diretta dell’incontro personale con il Cristo risorto.

Nel brano della liturgia odierna, Giovanni ci presenta una catechesi sulla presenza di Gesù, vivo e risorto, tra i discepoli nel loro cammino nella storia. Non gli interessa tanto fare un resoconto giornalistico delle apparizioni di Gesù risorto ai discepoli, quanto piuttosto affermare per i cristiani di tutti i tempi che Cristo è vivo ed è presente accompagnando la missione della Chiesa nel mondo. Di questo incontro con il “Signore risorto” ogni credente può fare esperienza ogni volta che celebra la fede con la sua comunità.

La comunità cristiana è costruita attorno a Gesù da cui riceve vita, amore e pace. Senza Gesù siamo condannati all’aridità e alla sterilità, incapaci di vivere pienamente la nostra vita; senza di Lui siamo come un gruppo di persone spaventate e, soprattutto, incapaci di affrontare i drammi e le sfide di questo mondo con un atteggiamento costruttivo e trasformativo; senza di Lui al centro, tra noi nascono divisioni, conflitti e rivalità, che ci allontanano dall’ideale di una comunità di fratelli e sorelle che vivono “con un cuore solo ed un’anima sola” … Allora è opportuno chiederci: è Cristo veramente al centro della vita della comunità? È a Lui che tutto tende e da cui tutto proviene?

Nella risurrezione, Gesù dona ai suoi discepoli un nuovo vincolo di unità, più forte di prima, che non è il risultato di sforzi umani, ma semplicemente dono gratuito della incommensurabile misericordia divina.

È dunque l'amore misericordioso di Dio che unisce saldamente, oggi come ieri, la Chiesa e fa dell'umanità un'unica famiglia.

San Giovanni Paolo II, ha voluto chiamare questa domenica, la seconda di Pasqua, Domenica della Divina Misericordia, e ha indicato Cristo Risorto come fonte di fiducia e di misericordia, accogliendo il messaggio spirituale trasmesso dal Signore a Santa Faustina Kowalska, che si riassume nell'invocazione “Gesù, confido in te!”

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

Ger 21,31-34
Eb 5,7-9
Gv 12,20-33

Un’ alleanza nuova scritta nel profondo del cuore

Il tema dell’alleanza è stato oggetto della meditazione nella prima domenica di Quaresima quando Dio, nel libro della Genesi, dopo il diluvio, stabilisce la sua alleanza.  Partendo dalla profezia di Geremia, il Signore promette di concludere una nuova alleanza molto diversa di quella che aveva stabilito con i padri.

Sarà un’alleanza nuova caratterizzata dall’obbedienza, dalla fedeltà, in contrapposizione a quella della disobbedienza e dell’infedeltà del passato. La Nuova Alleanza verrà scritta da Dio dentro il cuore dell’essere umano. Come è noto, nella Bibbia, “il cuore è la sede più intima della persona, delle sue decisioni: organo del pensare, del volere, del discernere, del percepire, del sentire”. La nuova alleanza verrà osservata e vissuta perché Dio stesso interiorizzerà la sua legge e scriverà sul cuore dell’uomo questa alleanza e dal cuore scaturirà la volontà di viverla, di obbedire. Essendo scritto nel cuore della persona umana tutti potranno conoscere il Signore; ognuno potrà sentire dentro di sè il desiderio di conoscere il Signore. Dice il Signore Dio “non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: ‹Conoscete il Signore›, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande”. Ci sarà dunque “una connaturalità” con la volontà di Dio. È in questo che consiste la Nuova Alleanza.

La legge, iscritta nel cuore della persona umana, dev’essere vissuta ed ubbidita. L'ideale di Ger 31,31-34 è diventato piena realtà umana nel cuore e nella vita di Gesù, come ha ben detto l’autore della Lettera agli Ebrei. Cristo “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”. Tutti gli uomini devono imparare ad ubbidire come fece Gesù. Egli imparò ad obbedire all'interno di un'esperienza drammatica, nel momento della sua sofferenza e in presenza di tanti dolori. Anche in quei momenti, Gesù obbedì. Avrebbe potuto ritornare indietro, chiedere di essere liberato ma scelse di ubbidire fino in fondo, si addentrò totalmente nel progetto della salvezza dell’uomo, ubbidienza imparata attraverso la sofferenza. Avendo imparato l'ubbidienza con la sofferenza, Gesù era perfettamente qualificato per essere il sacrificio e Sommo Sacerdote per la garanzia della nostra salvezza. Se Gesù ha imparato l’ubbidienza, a maggior ragione dobbiamo imparare noi, impariamo a vivere l’ubbidienza per vivere da figli nella logica della Nuova Alleanza.

Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo

Il brano evangelico si apre con la domanda che rivela un grande desiderio di vedere e conoscere l’identità profonda di Gesù: ‘Vogliamo vedere Gesù’. Coloro i quali fecero la richiesta erano un gruppo di greci che credevano in Dio e nella sua Alleanza.  A tale domanda segue un lungo discorso di Gesù: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto per terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Gesù parla del chicco di grano che deve morire, parla cioè dell’ora della sua morte: “è giunta l’ora”.

L’ora in cui, nonostante le difficoltà e la sofferenza, ubbidirà al Padre per la salvezza dell’umanità. È l’ora dell’ubbidienza. Quell’ora in cui i pagani, i greci, gli stranieri vanno a cercarlo per conoscerlo.  La semente gettata deve dunque morire per dare frutto. È l’ora in cui si capirà il vero senso della Sua esistenza: dare la vita per gli altri. È l’ora dell’angoscia e, paradossalmente, è l’ora della gloria: “Ecco il Figlio dell’uomo sta per essere glorificato” (Gv 12,22). Spogliamento ed esaltazione. È nell’ora della croce che Dio unirà il cielo e la terra, facendo cose nuove di ogni cosa. È l’ora della nuova ed eterna alleanza. Infatti, nell’ora della morte, Gesù dirà “Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te”. L’alleanza nuova che Dio stabilisce con il suo popolo, una alleanza di perdono per ogni uomo, si realizza nella passione di Cristo, il chicco di grano che muore per produrre il frutto del perdono. Dobbiamo imparare da Cristo l’ubbidienza.

Il discepolo missionario è quello che sceglie di ascoltare ed obbedire Dio. Infatti, come afferma Papa Francesco, “«obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l’altro. Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica. L’obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi». In questa scelta di obbedienza a Dio e non al mondo, senza cedere al compromesso, il cristiano non è solo”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Introducendo la liturgia con la seguente antifona d'ingresso: “rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l'amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell'abbondanza della vostra consolazione”  (cf. Is 66,10-11), ci troviamo nell’ambiente della gioia che è elemento caratteristico della IV domenica di Quaresima, appunto domenica della gioia. Gioire perché Dio è amore e ricco di misericordia, il suo amore verso di noi è la sorgente della nostra gioia. La chiave di lettura è dunque la significativa affermazione di Gesù: “Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”

Rallegrarsi perché Dio è ricco d’amore e misericordia

Il brano biblico tratto dal libro delle Cronache ci narra la storia drammatica del popolo di Israele che consiste nella distruzione del tempio e la deportazione del popolo di Israele verso Babilonia, terra di schiavitù. Viene sottolineata l’infedeltà da parte del popolo di Israele per avere dimenticato tutto quanto Dio è stato per loro a lungo la loro storia più antica a quella più recente. L’infedeltà del popolo è la causa della rottura relazionale tra Dio e il suo popolo, il quale moltiplica la sua infedeltà imitando gli abomini di quelli che non conoscono Dio. Il male, dunque, consiste nell’imitare gli altri che si sono creati delle divinità di comodo, fatte su misura d’uomo, quello che funziona a chiamata, fa da tappabuchi e viene invocato e utilizzato in base alle necessità. Questo è anche il male che colpisce la nostra società che si allontana del Dio vero per imitare altre genti che si sono create divinità di comodo.

Dall’altra parte, invece, ci troviamo davanti un Dio che non si arrende mai: la sua essenza è amore e misericordia. Ed è a motivo del suo amore che si ricorda del suo popolo e suscita, in mezzo a esso, degli istrumenti salvifici. Infatti, “il ricordo del Signore, è la gioia per il suo popolo”. Dio che è amore e misericordia, rimane fedele alla sua promessa e si ricorda sempre del suo amore. Manda dei profeti, ma il popolo, infedele, indurisce il cuore ed è resistente a tutti i richiami. Sono stati capaci di beffare i messaggeri di Dio, disprezzare le loro parole e schernirli.  Per tale motivo hanno una vita disperata e triste perché schiavi delle loro divinità di comodo. È impressionante che mentre il Suo popolo si dedica ad imitare altri popoli, causa della loro rovina, Dio è colui che si ricorda della sua essenza e questo ricordare Lo fa agire con amore e misericordia andando incontro al Suo popolo.  Paolo afferma “Dio è ricco di misericordia” e ci ha fatto rivivere con Cristo, da morti che eravamo per le nostre colpe. La bontà e la gratuità di Dio è fonte della nostra gioia e salvezza.

Alzare lo sguardo sulla croce di Gesù per avere la vita e la gioia

Parlando del serpente, Gesù fa riferimento alla narrazione di Nm 21,4-9, il popolo si trovò davanti ai serpenti velenosi, inviati da Dio a causa della loro infedeltà. In questa situazione, il popolo chiese al Signore di allontanare i serpenti. Allora, il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un'asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita. Così, il popolo che era accecato e che guardava solo in basso e alle cose materiali che li distraevano da Dio e causato infedeltà, era chiamata ora ad alzare lo sguardo verso alto, verso Dio che è vita e fonte di vita. Il popolo era chiamato ad avere l’atteggiamento del salmista che afferma: “alzo gli occhi verso il Signore (i monti), perché Egli è il nostro aiuto e la nostra salvezza ed è Lui che ha fatto il cielo e la terra.”

Gesù parlando della sua passione, fa riferimento a questo episodio per dire che bisogna che Egli sia innalzato in croce per essere messo in un punto verso cui tutti devono alzare lo sguardo per avere la vita. È guardando Gesù in croce che scopriamo il vero senso della sua vita: dare la vita per gli altri: morire per gli altri. La croce è segno dell’amore di Dio verso l’umanità, occupata a guardare in basso e alle cose materiali, ma che è invitata a guardare la croce per avere la vita e la gioia.  Dev’essere uno sguardo di fede, dobbiamo credere in lui poiché chi crede ha la vita eterna, non viene condannato ma salvato ed ha la vita. Questa è la vera gioia. Contemplare la misericordia e l’amore di Dio.

Il discepolo missionario è colui che è capace di alzare lo sguardo sulla croce di Gesù per imparare e vivere ciò che essa significa, come ha ben detto Papa Francesco: “Bisogna sempre «guardare la croce di Gesù, ma non quelle croci artistiche, ben dipinte»: guardare invece «la realtà, cosa era la croce in quel tempo». E «guardare il suo percorso», ricordando che «annientò se stesso, si abbassò per salvarci». Anche questa è la strada del cristiano. Infatti, se un cristiano vuole andare avanti sulla strada della vita cristiana deve abbassarsi, come si è abbassato Gesù: è la strada dell’umiltà che prevede di portare su di sé le umiliazioni, come le ha portate Gesù. 

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

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