Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34

Nel vangelo Marco ci presenta Gesù come un vero pastore il cui sguardo  verso i discepoli e la folla è uno sguardo d’amore e di compassione: al vedere i discepoli che raccontano il risultato della loro missione intravede non solo la gioia ma anche e soprattutto la stanchezza e nel vedere la folla, intravede lo smarrimento delle pecore senza pastore, pertanto il vero pastore invita da un lato i discepoli ad andare con lui “in disparte per riposarsi” e  dall’altro comincia ad insegnare alla folla.

Venite in disparte e riposatevi

Dopo l’invio missionario dei discepoli, Marco informa i suoi lettori “essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”. Ora Marco presenta gli inviati alla missione, che appena rientrati, si sono riuniti attorno al maestro. Sia prima della partenza, sia subito dopo, i discepoli “stanno con Gesù”, stanno attorno al maestro.

Come si è già sottolineato, lo stare con Gesù è una delle caratteristiche fondamentali del discepolato la cui missione scaturisce da quello “stare con Gesù”. Essi si trovano con Gesù per narrare prima e anzitutto ciò che hanno fatto e poi ciò che hanno insegnato. È interessante che Marco presenti, in primo luogo, ciò che i discepoli “hanno fatto” e non ciò che hanno insegnato perché Gesù è l’unico maestro per eccellenza ed è lui che insegna.

Mentre essi raccontano, Gesù sa leggere con comprensione la loro stanchezza e bisogno di riposo: “venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. La reazione di Gesù al racconto è la chiamata oppure l’invito ad allontanarsi dalla folla, dalla confusione ed andare “in disparte”. Gesù non dice “andate”, non li invia, ma usa lo stesso verbo della chiamata: “venite”. Mentre per la chiamata Egli disse “venite dietro a me” adesso dice “venite in disparte” … in ambedue le realtà Gesù è al centro per essere seguito, questa volta deve essere seguito, affinché siano da soli per riposare. I discepoli sono invitati ad andare in disparte per riposarsi in Gesù.

La frase “Riposatevi un poco” è una frase divina che ci fa uscire dall’affanno e ci fa entrare nel riposo messianico, nello shalom, nella pace, nella tranquillità; il sabato è per gli ebrei il giorno del riposo, il giorno della libertà: nessuno deve essere schiavo, neppure del proprio lavoro,  neppure  del lavoro missionario.

All’inizio di questa difficile estate facciamo tesoro degli insegnamenti di Gesù “riposatevi un poco”:

Riposarsi in Cristo: lo stesso imperativo Gesù lo aveva usato per invitare tutti quelli che erano stanchi a riposarsi in Lui: “venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28-29). Gesù chiama a seguirlo persone semplici e gravate da una vita difficile, che hanno tanti bisogni e promette loro che in Lui troveranno riposo dalle fatiche, la liberazione dalle oppressioni di qualunque tipo.  È al fianco di Gesù, ascoltandolo, dialogando con lui, godendo della sua intimità, che i discepoli ritroveranno le forze. Se i discepoli non confrontano frequentemente i loro piani e progetti pastorali con Gesù e la Sua Parola, la missione sarà un fallimento.

Riposarsi dall’attivismo: quello di Gesù è una forma d’invito alla tranquillità e al riposo: è il momento di fermarsi, Egli riconosce la stanchezza. Gesù ha il coraggio di “appartarsi dalle tante faccende e preoccupazioni quotidiane, per gustare interiormente quella comunione con Gesù, nella quale possiamo trovare il senso e i criteri del nostro agire”. Tutto per essere in pace e nella calma con Gesù.

Riposarsi per andare verso se stessi: se i discepoli erano stati invitati ad andare verso gli altri, per potere uscire da sé verso gli altri, quella che Papa Francesco chiama una Chiesa in uscita, dall’altra Gesù riconosce un altro movimento contrario al precedente, quello di rientrare nell’io, nel raccogliersi. Ed ecco perché si rifugiarono in un luogo deserto per esprimere ciò che veramente se stessi, ciò che si è e non solo ciò che si fa.

Riposarsi pregando: mentre Gesù li invita ad un luogo solitario, l’evangelista precisa che si trattava di un deserto e anche lì “in disparte”. Per Gesù, le sue giornate si concludevano con un luogo dove trovare tempo per riposare e pregare nel deserto. Egli sentiva il bisogno di pregare, tramite un dialogo interiore con il Padre, Egli avvertiva la necessità di un momento di spiritualità. Ed ecco che invita i discepoli a fare lo stesso.

La folla sente anche la forza e la profondità del comando di Gesù: “venite in disparte – riposate”; la folla avendo notato l’assenza di Gesù precede Lui e i discepoli. Il riposo e la preghiera non sono esclusivamente per i discepoli. Infatti, l’evangelista afferma che “Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero”. Sono come le pecore senza il pastore, Gesù si commuove e inizia ad insegnare loro.

Il discepolo missionario ha bisogno di un retroterra di riflessione, di contemplazione e di preghiera; un momento di raccoglimento intorno a Gesù, per dialogare con Lui, ascoltare i Suoi insegnamenti, confrontarsi costantemente con la Sua proposta.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13

La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata a diventare profeti oppure apostoli è inscindibile dalla missione a cui sono inviati, anzi la chiamata deve necessariamente sfociare nella missione.

Amos è consapevole che il Signore l’ha chiamato per una missione: “profetizzare”, così come gli apostoli, sono chiamati ed inviati “partirono, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”.

Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due

In un primo momento, in Mc 3,14-15, questi sottolinea quali sono le due funzioni dei dodici: essere con Lui e predicare.  Dice infatti che Gesù chiamò e “ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare”. La prima funzione dei Dodici è quella di costituire la comunità di Gesù, di creare una relazione d’amicizia: “essere con lui” e la seconda è quella di partecipare alla Sua missione, attraverso il mandato missionario di predicare, annunciare la venuta del regno di Dio.

Ora ritorna non solo il concetto della chiamata in sé, ma anche della dimensione comunitaria della medesima: vengono chiamati ad essere con lui, a fare comunità con lui, a vivere con lui e a fare l’esperienza profonda con lui. L’essenza della missione, in questo aspetto, è essere con lui. Per fare un’esperienza di intimità col Signore, un’esperienza d’amore per potere in seguito anche andare a testimoniare quest’amore vissuto insieme. La prima missione, dunque, è testimoniare il “vivere insieme a Gesù”, “il vivere insieme con gli altri”, imparare a vivere insieme. Questo è il valore di “chiamare a sé”. I discepoli sono chiamati ad essere con Gesù e a vivere con Lui e assieme a Lui ed altri a costituire una comunità, comunione di vita con Gesù, quel rapporto personale con lui che ha il primato su tutto il resto

Oltre alla dimensione comunitaria della vocazione, Gesù ne sottolinea un’altra: quella comunitaria della missione, dell’invio: prese a mandarli due a due, in comunità, in un piccolo gruppo. Quelli che erano stati chiamati a vivere insieme con Gesù, ora sono mandati due a due e non solitari poiché l’essere in comunione in Cristo è ciò che conta. Se la vocazione, che ha una dimensione comunitaria è inscindibile dalla missione, essa anche ha una dimensione comunitaria: una chiamata vissuta insieme per sfociare in una missione vissuta insieme.

Inviati due a due non solo perché in due ci si sostiene e ci si difende meglio ma anche perché si possa testimoniare insieme. Una cosa è testimoniare da solo, un’altra è testimoniare in due: una testimonianza comunitaria che rivela una doppia testimonianza: il vivere insieme l’amore ma anche testimoniare la presenza di Gesù in mezzo a loro. Infatti, Egli aveva detto che “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Si esclude dunque l’individualismo e il protagonismo che, secondo Papa Francesco sono due espressioni forti della mondanità spirituale.

Gesù li invia con una missione e con due raccomandazioni per il viaggio missionario: la prima si riferisce all’essenzialità della vita e la seconda è sulla relazione a creare.

Il discepolo in viaggio non deve prendere nient’altro che il bastone. Non è permesso avere dei bagagli, sarebbero un impedimento, dei pesi inutili. Solo il bastone, nessuna scorta di viveri e di denaro, sandali e una sola tunica. Gesù raccomanda di prendere il bastone in riferimento al bastone di Mosè con cui ha aperto il mar Rosso per la traversata del popolo eletto, per la sua liberazione; il bastone anche in riferimento alla croce di Gesù. Infatti, Egli stesso aveva detto che chi voleva seguirlo deve rinnegare se stesso e prendere la propria croce, strumento della morte dell’uomo mondano e della sua liberazione.

Il discepolo non deve avere sicurezze umane, fiducia nei propri mezzi: appunto né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa. Deve avere fiducia solo in Cristo, nella sua Parola, ma devo essere un uomo libero. Ecco perché non può nemmeno indossare due tuniche e deve solo calzare i sandali, che nell’Esodo, erano il simbolo degli uomini liberi. Si può anche dire che “il fatto di non portare niente nel viaggio, dà la possibilità ai discepoli di creare relazioni con le persone che va a incontrare … non hai cibo, non hai riparo e questo crea una condizione di bisogno dell’altro”.

Il discepolo è inviato nelle case e come ben comprendiamo, la casa “è un luogo di vita, incontri e di relazioni”. Gesù invita i discepoli ad avere degli atteggiamenti di relazione, essi dovevano rimanere ospiti nella prima casa in cui fossero stati accolti e dovevano vivere insieme in modo stabile e creare delle relazioni che coinvolgano e non andare di casa in casa. Inoltre, “la casa è un luogo intimo” e Gesù ci chiede di essere in intimità con lui ma anche con i fratelli. Infatti, Gesù afferma che “dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì”. Il verbo rimanere rinvia non solo fermarsi ma anche e soprattutto sostare, prendersi del tempo in quella casa.

Il discepolo è invitato ad entrare nelle case non per un suo bisogno o bisogno di chi incontra ma per sostare con l’altro, per esserci davvero con chi incontra. In una società di molta fretta non rimaniamo con gli altri. C’è il bisogno di rimanere, di esserci nelle relazioni ed esserci è anche costruire, alimentare.

Il discepolo missionario deve focalizzare l’attenzione su che cosa vuol dire oggi annunciare il Vangelo, che è sempre annuncio di pace, deve essere consapevole che il Maestro lo ha chiamato ad andare e raccontare, magari anche solo nella parrocchia vicino a casa e che infine lo vuole libero, leggero, senza appoggi e senza favori, sicuro solo dell’amore di Colui che lo invia ad essere forte solo della Sua parola che deve annunciare. Deve, inoltre, sapere rimanere sia nelle case che nelle relazioni.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Ez 2, 2-5; Sl 122; 2 Cor 12, 7-10; Mc 6,1.6

Sia Gesù, sia il Profeta, sia San Paolo si trovano, nel loro percorso missionario, ad affrontare delle realtà e delle persone difficili ed ostili al loro impegno apostolico. Addirittura, molte di esse sono loro connazionali che dovrebbero sapere “che almeno un profeta si trova in mezzo a loro” e cioè che Dio ha parlato e che continua a parlare tramite i suoi inviati. Quest’incredulità è motivo di meraviglia anche in Gesù che infatti, afferma l’Evangelista, “si meravigliava della loro incredulità”.

Tornare nella sua patria, tra i suoi

Dopo un periodo di evangelizzazione incentrata sul mare e le sue rive, mentre Gesù è circondato dalle folle e dai suoi discepoli, ritorna nella sua città, il piccolo villaggio di Nazaret. Già in Mc 1,9, l’evangelista aveva presentato questo villaggio come il luogo di origine di Gesù. È straordinario che l’evangelista preferisca usare il termine solenne e ricco di evocazioni “patria” riferendosi ad un piccolo paese, ad una borgata. Con esso, l’autore vuole indicare che la reazione di rifiuto non era circoscritta solo ai suoi, ma all’intero popolo d’Israele, a quella “genia di ribelli” di cui aveva parlato Dio nella prima Lettura. Dunque Gesù arrivato nella sua patria, come ogni sabato, si reca nella sinagoga e si mette ad insegnare.

Già nella profezia di Ezechiele, Dio aveva detto: “dice il Signore Dio” cioè il Signore è un Dio che “dice”, che parla, che ha qualcosa da dire al suo popolo, che desidera un interlocutore. Gesù, figlio di Dio, l’Emmanuele, Dio con noi, sta cercando un interlocutore tra i suoi. Ma come ha ben espresso Giovanni, “venne tra i suoi e i suoi non l’hanno ricevuto”, così fu tra la sua gente. Marco afferma che gli ascoltatori ed interlocutori di Gesù erano  pieni di stupore, per quello che Gesù insegnava ma, dalle domande che si facevano, dimostrano che sia l’insegnamento, sia Gesù erano motivo di scandalo. Loro sono passati dunque dallo stupore allo scandalo. Due atteggiamenti opposti: mentre lo stupore è un atteggiamento di partenza  che può sfociare sia nella fede sia nell’incredulità, lo scandalo, invece, che significa inciampo, è un ostacolo, un impedimento alla fede. Gesù suscita stupore, ammirazione, tutto questo dovrebbe sfociare nella fede e invece  suscita l’incredulità dei suoi connazionali.

Chi è costui? Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi  compiuti dalle sue mani? A queste domande, Marco aveva già dato la risposta: “inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”. I compaesani di Gesù, scandalizzati, non lo riconoscono come connazionale; il suo linguaggio è ben lontano dalla loro comprensione. Quegli ascoltatori dovevano arrivare a riconoscere che Gesù viene da Dio, ma  come è possibile venire da Dio se è un semplice carpentiere e i suoi famigliari vivono in mezzo a tutti noi? Ed è giustamente questo che non  aiuta a riconoscerLo come proveniente da Dio. Loro cercano la risposta in quello che conoscono e non in quello che non conoscono. Loro conoscono che Egli è “falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi” ma non erano in grado di cogliere la manifestazione di Dio nella quotidianità di Gesù; in quella sapienza straordinaria e in quei prodigi mai visti. Non sono capaci di cogliere la presenza del profeta in mezzo a loro. Gesù si meraviglia e chiama con termine preciso il loro atteggiamento “incredulità”. Non solo cogliere ma anche accoglierlo.

Mentre noi cerchiamo sempre altri segni, altri prodigi, non ci accorgiamo che il vero Segno è Lui, Dio fatto carne, è Lui il più grande miracolo dell’universo: tutto l’amore di Dio racchiuso in un cuore umano, in un volto d’uomo, un volto della quotidianità. Questo ci fa pensare che “credere nel Dio dell’ordinario è importante perché possiamo realizzare lo straordinario”.

È quest’uomo che si meraviglia per il disprezzo e la non accoglienza, Egli si meraviglia della loro chiusura, la loro cecità di cuore, una chiusura che impedisce di vivere, e che condurrà il Figlio dell’Uomo a essere l’uomo dei dolori che ben conosce il patire (Is 53,3). L’incredulità dei connazionale di Gesù crea in Lui stupore e meraviglia. Gesù si meraviglia sia per la fede, sia per la non fede, si meraviglia della nostra incredulità davanti ai fatti. La nostra mancanza di fede è così  incredibile che il Signore stesso si meraviglia. Sebbene fosse uno di loro e avessero ascoltato i suoi insegnamenti e visti i prodigi che compiva… neppure con questi segni, hanno creduto… sono proprio testardi e con un  cuore talmente indurito che non si apre neppure alla vista delle meraviglie di Dio.

Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando

La Sua missione sembrava, con l’incredulità dei suoi, un fallimento. Invece è stata motivo per una ripartenza ad annunciare la buona notizia. Si trasforma dunque in una felice diffusione: “percorreva i villaggi insegnando”. La chiesa per secoli  ci ha insegnato un Dio degli  altari e non delle case e delle strade … un Dio, come  ha ben detto Papa Francesco, della sacrestia. Gesù si è fatto uno di noi e passava di villaggio in villaggio.

Non è stato accolto ma non ha tralasciato di compiere ancora guarigioni, anche di pochi, anche di uno solo. È stato respinto dai suoi ma non si è depresso, chiuso ma ha continuato a mostrare il suo amore. Non si è mai arreso. 

Il discepolo missionario è consapevole che “la mancanza di fede è un ostacolo alla grazia di Dio. Molti battezzati vivono come se Cristo non esistesse:  ripetono i gesti e i segni della fede, ma ad essi non corrisponde una reale adesione alla persona di Gesù e al suo Vangelo. Ogni cristiano  - tutti noi, ognuno di noi - è chiamato ad approfondire questa appartenenza fondamentale, cercando di testimoniarla con una coerente condotta di vita, il cui filo conduttore sempre sarà la carità”, come ha ben sintetizzato Papa Francesco.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

La narrazione evangelica ci presenta due miracoli incastrati l’uno nell’altro a forma di “sandwich”: il racconto della resurrezione della figlia di Giairo viene intenzionalmente interrotto dalla narrazione della guarigione della donna emorroissa che, viene pienamente narrata e conclusa prima che la resurrezione della figlia di Giairo, sia ripresa e conclusa.

La frase di Gesù Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male” è cerniera tra un racconto e l’altro: ne conclude uno ed è fondamentale per quello che segue.

Figlia, la tua fede ti ha salvata

Quella che Gesù chiama “figlia” è una donna colpita da emorragia interna  continua da ormai dodici anni, ella perde il sangue, la vita e di conseguenza si tratta di una lenta agonia, della perdita inarrestabile ed irreversibile della vita stessa. Sia la malattia, sia gli anni rivelano la precarietà e debolezza radicata nel tempo della donna che, secondo la legge, era una donna impura che non era possibile toccare, né toccare ciò che lei toccava. Non solo  era una donna legalmente e socialmente isolata ed emarginata, ma addirittura, povera poiché aveva speso “tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi era andata piuttosto peggiorando”. Isolata dalle sue relazioni  e dai suoi averi mentre la  vita veniva meno.

L’Evangelista, però, sottolinea che è una donna di fede, anzi di grande fede, ha sentito parlare di Gesù e lo considera la sua ultima speranza. Oltrepassa tutte le barriere culturali, sociali e religiose solo per toccarlo: irrompe tra la folla massiccia di uomini e si avvicina a Gesù per raggiungerlo da dietro, in incognito e discretamente, per un solo e significativo gesto che neppure le sarebbe stato permesso: toccare. In alcuni miracoli è Gesù che tocca per guarire, ma qui succede il contrario. Si tratta di un toccare indiretto: non toccare Gesù, ma toccare solo  il mantello perché la povera donna pensa: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. Si tratta di incontrare Gesù e toccarlo con fede.

È un toccare che è reciproco, come ha ben detto Delorme: “quel del toccare si distingue per la particolarità di essere reciproco. Quando tocco sono anche toccato da ciò che tocco”. La donna, nel toccare Gesù si è anche lasciata toccare da lui, non è dunque un semplice e superficiale toccare. Infatti, i discepoli si chiedono “tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: "Chi mi ha toccato?”. Per Gesù era un toccare particolare, precisamente quello della fede, che fa sprigionare la potenza di Cristo e che salva; non è un toccare della folla che semplicemente opprime, ma un toccare accompagnato da una grande fede.

Da questo “toccare” nasce il vero incontro tra Gesù e la donna. Quando Gesù fissa lo sguardo su di lei e quando lei, che si era precedentemente tirata indietro, avanza, si inginocchia per digli “tutta la verità”. Lei che era stata guarita, ora, dopo questo incontro vero con Cristo,  viene dichiarata salva per la fede. Lei che era stata svuotata dei suoi averi, che non aveva mai ottenuto la guarigione, anzi peggiorava, ha teso la sua mano vuota, senza soldi e riceve gratuitamente non solo la guarigione ma anche e soprattutto la salvezza e da qui che deve riiniziare la sua nuova vita con la pace: “va in pace” che implica, per la sua origine semitica, prosperità e salute.

Non temere, soltanto abbi fede

Giairo, aveva appena sentito dire da Gesù della donna emorroissa che la sua fede l’aveva salvata, quando vennero degli emissari da casa sua, non solo portandogli la triste e irreparabile notizia della morte della figlia ma anche con il tentativo di scoraggiarlo: non vale più la pena d’ importunare il maestro poiché la figlia  è morta, non c’è più alcuna possibilità. L’evangelista ci fa notare che la fanciulla aveva l’età di 12 anni, età in cui avrebbe dovuto prepararsi a diventare una donna.

Mentre per gli emissari tutto era finito, non c’era niente da sperare e nemmeno da fare davanti alla morte, per Gesù, invece, c’è speranza perciò chiede a Giairo di non avere  paura e di  continuare a credere. Davanti alla notizia della morte della figlia, Gesù rassicura il padre angosciato e chiede che mantenga ancora e solo la fede e non si lasci disturbare dalla notizia e dei messaggi di disperazione. L’evangelista non usa il verbo indicando un atto di fede puntuale e momentaneo, ma, invece, usa il tempo corrispondente a un imperativo continuativo, cioè, continua ad avere fede , dunque un “atteggiamento prolungato e abituale”: l’unica cosa che devi fare è continuare a credere.

Infatti, Giairo credeva che bastasse solo imporre le mani sulla sua figlia ed essa avrebbe riacquistato la salute e la vita. “La mia figlioletta sta morendo”, aveva detto e, di seguito, aveva chiesto, “vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. Dunque deve continuare a credere. Anche alla bambina Gesù ha dato la vita toccandola: “Prese la mano della bambina e le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico: alzati”.

Il discepolo missionario, come la donna emorroissa, crede nonostante le barriere storico-sociali e religiose del nostro tempo e continua a credere, come Giairo, anche  dove sembra non esserci più speranza perché a Dio nulla è impossibile. Basta incontrare e lasciarsi incontrare da Gesù.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Gb 38, 1. 8-11; Sal 106; 2 Cor 5, 14-17; Mc 4, 35-41

L’esperienza dolorosa della sofferenza alquanto assurda e ingiustificata di Giobbe, gli fa porre alcune domande esistenziale a Dio: “dove sei durante il periodo dei drammi della mia esistenza? Perché mi hai messo al mondo per poi lasciarmi nella sofferenza e preda dei miei nemici? Perché il tuo silenzio e assenza durante il mio percorso nel mare della vita?”

Anche i discepoli, nel Vangelo, davanti alla grande tempesta del vento, chiedono a Gesù: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?”.  Sia Giobbe, sia i discepoli sono però  invitati a “passare all’altra riva del mare” per assaporare la grandezza e l’onnipotenza di Dio e del suo figlio.

Giobbe invitato a passare all’altra riva del mare

Il potere divino sul mare e sulla tempesta che da esso proviene accomuna la prima Lettura e il Vangelo di questa domenica. La prima lettura ci presenta la risposta di Dio agli interrogativi di Giobbe sull’assenza e il silenzio di Dio. Dio parla direttamente a Giobbe, ponendogli una serie di domande. Giobbe si aspettava delle risposte alle sue domande ecco inaspettatamente  il Signore gli dice: “Ti farò delle domande e tu insegnami” (Gb 38:3).

Dopo aver posto delle domande sulla persona di Giobbe, ad esempio: “chi sei tu? Dove eri e che cosa sai tu?” ora gli pone una domanda sulla sua onnipotenza nei confronti delle forze della natura: “chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno. Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo un chiavistello e porte e ho detto: ‘fin qui giungerai e non oltre, e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde’”.

Mentre le domande di Giobbe erano sul “perché”, quelle di Dio sono sul “chi”. Davanti a queste domande Giobbe non è in grado di rispondere e ammette: “Io sono troppo meschino, che ti potrei rispondere. Io mi metto una mano sulla bocca … Io riconosco che tu puoi tutto e che nulla può impedirti di eseguire un tuo disegno. Chi è colui che senza intelligenza offusca il tuo disegno? Sì, ne ho parlato ma non lo capivo, sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco. Ti prego, ascoltami, e io parlerò ti farò delle domande e tu insegnami! Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto” (Gb 40:4; 42:2-4).

Solo Dio, con il suo potere e la sua maestà, poteva porre limiti al mare, dargli ordini e liberare gli uomini da queste forze incontrollate, dal caos che il mare racchiudeva. Giobbe è passato all’altra riva dove scopre la sua nudità, i suoi limiti, la sua piccolezza e allo stesso tempo, riconosce la grandezza e l’onnipotenza di Dio. Se tale è il caso, bisogna affidarsi a Lui. Giobbe è passato dal luogo “dove era sicuro di sé”, dov’era conosciuto, dove si considerava uomo giusto ed arriva ad una terra sconosciuta dove necessariamente deve  appoggiarsi a Dio.  Giobbe è stato invitato a percorrere il nuovo cammino della sua vita: un cammino di fede che parte dell’umiltà.

I discepoli invitati a passare all’altra riva del mare

I discepoli sono stati non solo osservatori, ma partecipi dell’attività missionaria del Maestro. Seguivano il Maestro. Dopo una giornata, dove Gesù ha illustrato alle folle lungo il mare il mistero del Regno di Dio in parabole, li invita a passare all’altra riva, alla zona della Decapoli, territorio pagano, considerato dagli ebrei completamente al di fuori delle vie della salvezza; Gesù vuole passare dalla terra santa di Israele, per andare verso una terra abitata dai pagani.

Qualcuno che ha letto la bozza mi ha detto, in riferimento all’invito di Gesù: “mi colpisce questo passare all’altra riva che richiede un cambio di prospettiva… quello che poi vedi dall’altra parte è diverso da come lo vedi da questa riva… Gesù chiede ai discepoli di allargare l’orizzonte, di aprirsi ad altre terre, a nuovi incontri. A volte fare questo è proprio come attraversare una tempesta: scompiglia tutte le tue sicurezze, fai fatica ad incontrare l’altro”.

Notiamo, prima di tutto, l’ambiente in cui Marco ci colloca: in mare, al tramonto (versetto 35). Situare la barca con Gesù e i discepoli ‘in mare’, è collocarli in un ambiente ostile, avverso, pericoloso, caotico, circondati dalle forze che lottano contro Dio e contro la felicità umana. D'altra parte, la ‘notte’ è il tempo dell'oscurità, appare come un elemento legato alla paura, allo scoraggiamento, alla mancanza di prospettive. Il “mare” e la “notte” definiscono una realtà difficoltosa, irta di ostilità, d’ incomprensione. È in questa situazione che arriva la tempesta: grande tempesta di vento e le onde si rovesciano nella barca

I discepoli si trovano in mezzo a tale tempesta, mentre Gesù dorme. L’angoscia e la paura innanzi a quella realtà ha reso impossibile ogni speranza. Ecco la reazione dei discepoli: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?” come a dire “ma dove sei Signore? Perché ci lasci” Sono preoccupatissimi per ciò che entra nella barca, nella loro vita, da ciò che arriva come una tempesta. I discepoli si preoccupano più della forza dell’acqua che entra che della forza e la potenza di Gesù che è presente.

I discepoli Lo conoscevano come taumaturgo potentissimo, nessuna malattia resisteva ai suoi ordini, perciò, niente di male poteva loro succedere, ma la tempesta infuria contro la barca… e l’acqua comincia ad infiltrarsi pericolosamente e loro dubitano. Dubitarono perché hanno creduto piuttosto alla forza di ciò che entra che alla potenza della presenza del Maestro, il quale chiede loro "Perché avete paura? Non avete ancora fede?". Sembra che i discepoli conoscano Gesù e che abbiano fede invece no….

Volevano fare la traversata verso la zona pagana per evangelizzare senza la fede, ma Gesù fa fare loro questa esperienza per accrescere la fede: passiamo all’altra riva, attraversiamo per avere la fede, lasciamo qualcosa di certo per affrontare l'insicurezza della novità. “Passiamo all’altra riva”. Con la fede siamo capaci di passare ad altra riva.

Come afferma Papa Francesco, i discepoli missionari “devono decidersi a passare all’altra riva, scegliendo con coraggio di abbandonare le proprie sicurezze e di mettersi alla sequela del Signore. Questa avventura non è pacifica: arriva la notte, soffia il vento contrario, la barca è sballottata dalle onde, e la paura di non farcela e di non essere all’altezza della chiamata rischia di sovrastarli.”

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

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27-11-2024 Allamano Santo

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