La esperienza di Elide Ambrosetti, una giovane donna arrivata in Tanzania quasi per caso, ma che oggi vive con la “Tanzania nel cuore”.
Cosa mi ha fatto partire? Penso sia la bellezza del donarsi all'altro, ho sempre cercato di farlo nel mio piccolo, in tutta la mia vita, perché credo sia la cosa che rende più felici. In famiglia ho avuto tanti esempi al riguardo: mia madre, mio nonno, mio padre, mio fratello... abbiamo sempre cercato, forse sempre abbastanza istintivamente, di seguire questo valore cristiano.
Subito dopo il liceo ho iniziato a fare volontariato e proprio in una di queste esperienze, allora stavamo andando in Bosnia dilaniata dalla guerra, ho conosciuto Alessandro, un amico che apparteneva ad una associazione di Santa Marinella che si chiama "Venite e Vedrete" e che organizza dei viaggi missionari di un mese in Tanzania in cui si vivevano diverse missioni in giro per la nazione.
Tra di loro c'era anche il "Consolata Hospital" di Ikonda. La volta che ci andai, nel luglio del 2016, lo visitammo in una sola giornata ma sufficiente per vedere quel che succedeva e si faceva lì. Io avevo iniziato il percorso di studi di infermieristica e quando mi sono laureata ho chiesto al presidente dell'Associazione di mettermi in contatto con gli amministratori del "Consolata Hospital".
Ho cominciato allora un primo anno di volontariato, che poi sono diventati due e così fino ad oggi. Mi sono convinta che ne valeva la pena e tutto quello che ho sentito, l'amore che ho respirato, la vita semplice che ho vissuto, mi ha fatto davvero felice. Riuscivo a mettere assieme lavoro e servizio al prossimo: non avrei mai potuto chiedere di meglio.
Che cosa volevo portare imbarcandomi in questa esperienza? Nel mio non era una cosa inizialmente complicata... portavo me stessa e le mie competenze professionali, cercavo di rendermi disponibile a tutte le esigenze della comunità. Oggi, con altri volontari, abbiamo formato un’associazione che si chiama “Tanzania nel Cuore” e siamo riusciti a realizzare diversi progetti mirati a rispondere a situazioni concrete. Per Ikonda siamo riusciti a raccogliere i fondi necessari per acquistare un nuovo apparecchio radiologico; attrezzi per rinnovare il servizio di fisioterapia; apparecchi elettromedicali per migliorare l'assistenza in sala operatoria e terapia intensiva.
Lo scopo è quello di collaborare con lo staff locale affinché ogni decisione sia finalizzata alle necessità dell'ospedale.
Ad ogni modo penso che sia di più quello che mi sono portata a casa... forse la prima cosa che mi son portata a casa è stata “un’altra casa” perché quello è per me la missione e l’ospedale di Ikonda con le persone che ci vivono e ci lavorano. Sono diventati la mia famiglia. Adesso sono in Italia ma a fine settembre si torna in Tanzania.
Ho tutta l’intenzione di continuare ad aiutare questa missione che i Missionari della Consolata hanno costruito: veramente è un piccolo miracolo che garantisce una migliore qualità di vita delle persone che abitano in quella regione.
Mi chiamo Giacomo Rabino, sono Missionario della Consolata e sono originario della città di Asti in Piemonte. Fra i ricordi della mia infanzia. Ho conosciuto i Missionari fin dalla mia più tenera infanzia: quando andavo all’asilo frequentavo una scuola dell’infanzia diretta dalle Missionarie della Consolata e così, ascoltandole che ci parlavano delle missioni dell’Africa ho sognato che un giorno anch’io sarei potuto essere Missionario della Consolata.
Ho frequentato la scuola elementare sempre ad Asti e ho maturato ancora un po’ la mia vocazione missionaria fino al giorno in cui decisi di entrare al seminario minore della Consolata per la formazione. Tutti gli studi li ho fatti a Torino fino alla mia ordinazione nel 1967.
Dopo l’ordinazione ero stato inviato a Londra per imparare l’inglese e prepararmi così per la mia prima missione: il Tanzania dove ho lavorato per tre bellissimi anni. Ero molto felice nella parrocchia di Mdabulo nella diocesi di Iringa impegnato nell’animazione e formazione giovanile.
Ma poi dopo solo tre anni hanno pensato in me per la formazione e nel 1973, dopo un tempo di preparazione a Roma, ho raggiunto la Spagna dove alla fine rimasi ben 17 anni: come maestro dei novizi -prima a Zaragoza e poi a Valladolid-; poi come superiore provinciale e per concludere ancora una volta formatore nel teologico di Madrid.
Era il 1990 quando sono potuto tornare in Tanzania e ho lavorato ancora nella diocesi di Iringa. Mi sono trovato molto bene nella nuova missione ma poi, qualche anno dopo, mi hanno ancora invitato a lavorare in Europa, ancora una volta in formazione, e questa volta nel seminario teologico di Bravetta.
Ho sempre obbedito a quello che hanno deciso i miei superiore e obbedendo mi ho potuto fare bene e serenamente il mio lavoro.
Attualmente lavoro nella parrocchia di Sadani con la missione particolare di seguire i giovani nelle scuole primarie e secondarie nel territorio parrocchiale. lavoro bene con i giovani e mi sento molto a mio agio condividere con loro un cammino di fede e crescita umana.
In questo corso per missionari anziani ho portato con me il simbolo di una madonna con il bambino sulle braccia: è un regalo che avevo ricevuto in Spagna già un bel po’ di anni fa. Maria è stata colei che ha portato e cresciuto il Salvatore e l’ha consegnato all’umanità perché la salvi. È stata quindi la prima missionaria del Padre che ha portato Gesù al mondo. È lei che ci accompagna in missione dandoci la mano di fare conoscere il suo Figlio Gesù alla gente nella situazione in cui si trovano. Grazie al suo Sì la ricordiamo quotidianamente, come le donne che vedo pregare il rosario nella missione.
In questo corso abbiamo imparato ad affrontare gli anni della vecchiaia serenamente, dando quello che possiamo ancora dare ed accetando una situazione nella quale non possiamo più avere la stessa energia di qualche anno fa. È andato molto bene e sono felice della formazione ricevuta.
* P. Thomas Mushi è Missionario della Consolata, Studente di Diritto Canonico a Roma, e ha intervistato il P. Giacomo Rabino presente al corso dei missionari con 50 anni di ordinazione.
Sono padre Daniel Ruiz, compio non 50 ma 55 anni di ordinazione a dicembre di quest’anno. Sono venuto a Roma perché ero sicuro che questo corso mi sarebbe stato di grande aiuto per trovarmi con la mia realtà, la mia vecchiaia... e così è stato. Il prossimo mese di maggio compirò 78 anni e ho potuto scoprire che la vecchiaia non è, come dicono in swahili, un “mzigo mzito”, un peso noioso da portare, ma è un dono e un valore con il quale, anche se le forze mancano un po’, abbiamo ancora tanto da dare agli altri.
Tutto quello che abbiamo raccolto nella nostra vita è da comunicare agli altri, una saggezza che non va sprecata.
Grazie mille per questo corso, è stato un grande regalo. Torno in Tanzania per continuare a comunicare ed annunciare ai fratelli e lo faccio con maggior fiducia in Colui che mi ha chiamato e continua a dare la vita per noi.
Il simbolo che ho portato è una tartaruga, perché la tartaruga? Perché in Kiswahili ci sono delle favole che hanno come protagonista Mzee Kobe, cioè l’anziano tartaruga. Questi è un animale simpatico, certamente lento, ma ci comunica la pazienza e la saggezza.
La ragione di questo segno che mi sono portato viene da lontano, da quando sono arrivato in Tanzania la prima volta. Avevo trovato p. Giovanni Barra al quale avevo chiesto di consigliarmi qualcosa di importante per la mia nuova missione in quel paese. Lui mi ha risposto con un indovinello che diceva così: “chi non ce l’ha l’acquista e chi ce l’ha la perde... che cos’è?”. Ci avevo pensato un po’ e dopo mi ero arreso. E allora lui mi ha risposto in questo modo: “la pazienza figliolo! Se non ce l’hai la acquisterai, e se ce l’hai la perderai!”.
È la frase che non mi dimentico mai... io in realtà mi sembra di averne ma è pur sempre vero che ogni tanto la perdo e allora la devo riacquistare. È un valore per me e per quelli che convivono con me e da lì il simbolo che ho portato per “presentarmi” in questo corso: la tartaruga, la saggezza di Mzee Kobe.
Ai missionari giovani consiglierei prima di tutto d’avere un forte senso di appartenenza. Loro hanno lasciato le loro famiglie ma non le hanno abbandonate: continuano ad amarle come prima. Pero adesso hanno una nuova famiglia: la famiglia dei missionari della Consolata, la nostra congregazione, il nostro istituto. È qui che ci dobbiamo donare tutto, “hali na mali”: cuore e anima.
I giovani devono rendersi conto che se siamo fragili se non abbiamo la fede salda, la missione sarà dura. Quindi fede in Gesù che ci chiama e ci invia, prima veri cristiani e poi missionari.
* P. Thomas Mushi è Missionario della Consolata, Studente di Diritto Canonico a Roma, e ha intervistato il P. Daniel Ruiz presente al corso dei missionari con 50 anni di ordinazione.
Mi ha sempre impressionato fratel Paolino con il suo silenzio operativo... Ci siamo conosciuti quando lui aveva un’età già avanzata, e per quello la sua foto da giovane sull’altare con una cazzuola in mano mi ha colpito molto. Era una foto presa durante la consacrazione del cattedrale di Iringa nel momento in cui si mette la reliquia sull’altare.
Paolino nasce a Roncola San Bernardo (Bergamo) il 13 Aprile 1937. Si avvicina all’Istituto molto giovane e fa la prima professione il due ottobre del 1956 nella Certosa di Pesio con solo 19 anni e i voti perpetui ad Alpignano, nella casa di formazione dei fratelli, lo stesso giorno di tre anni dopo, nel 1959. Dopo di allora in Italia rimase solo due anni e nel 1962 raggiunse la Tanzania e visse fra di noi per ben 61 anni, fino alla sua morte avvenuta il 15 Febbraio 2023.
Era forse piú tanzaniano lui che molti di noi! Lasciare quindi la sua sepoltura in mezzo alla sua gente a Tosamaganga è stata forse la scelta più opportuna.
Quella sua immagine sull’altare con una cazzuola descrive bene la sua storia e personalità. Raccontava lui stesso che quando era venuto in Tanzania sperava di continuare a lavorare come falegname, era quella la sua attività professionale, ma ha finito per fare il muratore. In una occasione il Vescovo di Iringa, Mons. Beltramino, gli chiese di accompagnarlo in Seminario per costruire una scala...
–Eccelenza non posso farlo, disse al vescovo, io sono un falegname!
–Non ti preoccupare, rispose in vescovo, io ti insegno come si fa.
Certamente erano altri tempi, ma era anche ben rappresentata la volontà di servizio e la disponibilità di fratel Paolino... e così la sua professione di falegname si trasformò in una professione di muratore. Si unirono l’altare, la sua consacrazione religiosa, con la cazzuola il suo nuovo lavoro che l’accompagnò per anni.
Prese l’avvio in questo modo l’avventura missionaria di Paolino, che girava dappertutto costruendo chiese, altari, scuole, case per comunità religiose, dispensari, seminari... quelli di Morogoro e Mafinga, il centro di Spiritualità di Bunju, il Monastero delle suore Camaldolesi di Mafinga.
Che patrimonio ci lascia questo grande missionario? La prima cosa è la fedeltà alla missione e alla sua consacrazione come fratello, una chiamata particolare diversa da quella del sacerdote. Lui era sempre presente: se non si trovava nelle missioni per qualche impegno concreto lo si trovava sempre attivo nella casa regionale sottolineando, con la sua presenza, l’importanza della comunità pwer la vita consacrata.
Senza tanta chiacchiere fratel Paolino faceva bene il suo lavoro: silenzioso, come insegna il Beato Giuseppe Allamano per il quale “il bene va fatto bene e senza rumore”, era perfino poco conosciuto dalla gente per questo motivo. Non sbandierava mai i lavori compiuti con maestria e faceva tutto per il Signore.
Nel suo silenzio operativo, fratel Paolino ci ha insegnato che quello che importa è la gioia di aver fatto bene il tuo dovere. Quando si vede una opera terminata non si sa niente del lavoro pesante che si è dovuto realizzare prima di cominciare ad edificare. Eppure tutto questo è assolutamente importante... e questo è stato il lavoro di Paolino e di molti fratelli: umili, nascosti, magari anche dimenticati ma indispensabili.
Ringraziamo oggi il Signore che ci ha regalato il carisma e l’impegno di Paolino: il suo servizio perseverante e il suo silenzio operoso. Preghiamo per la vocazione dei fratelli.
* Padre Erasto è superiore provinciale dei Missionari della Consolata in Tanzania
Pochi giorni fa, il 15 febbraio, è morto a Tosamaganga all'età di 85 anni, Fratel Paolino Rota. Bergamasco di origine era arrivato per la prima volta in Tanzania nel 1962, quando di anni ne aveva solo 25 e quindi ha vissuto tutta la sua vita in quel paese che non ha mai abbandonato. Ricordandolo trascriviamo una intervista fatta a gennaio di 2018 che aveva concesso al padre Jaime Patias in visita nella sua missione a Iringa. Ricordava sommariamente tante avventure vissute in quel paese dell’africa orientale; tanti cambi a cui ha potuto assistere; la sua ormai precaria condizione di salute; il suo desiderio di poter rimanere fino alla fine in quella terra che ha amato. È stato esaudito: il giorno prima della festa di Giuseppe Allamano, il Fondatore se l’è portato in cielo dalla sua Tosamaganga dove è anche sepolto.
Sono arrivato in Tanzania nel 1962 e ormai sono 55 anni. Al principio ho lavorato nella falegnameria di Tosamaganga. Poi dopo mi sono dovuto adattare a fare il muratore perché quello non era il mio mestiere.
Ma il vescovo mi aveva chiesto di aiutare a costruire il seminario diocesano di Tosamaganga. da quel momento ho continuato a fare il costruttore in molte missioni del Tanzania, un po’ ovunque... e non solo per i Missionari o le Missionarie della Consolata, anche per altre congregazioni... per esempio sono stato otto anni nel monastero dei Camandolesi per aiutarli a costruire la chiesa ed altre loro strutture.
Ho quindi costruito varie missioni, chiese, cappelle, case di formazione. Per un po’ di tempo ho anche aiutato il procuratore che provvedeva le missioni di quanto avevano bisogno. Per anni la mia sede è stata la casa regionale ma poi partivo tutte le settimane ed andavo a lavorare nelle missioni dove fosse necessaria la mia collaborazione.
Nella mia vita missionaria ho visto come tante cose sono cambiate da quando sono arrivato, posso dire anche di un significativo sviluppo del paese. Il Tanzania è abbastanza cambiato: per esempio prima le strade erano quasi tutte sterrate, adesso sono molte quelle che sono asfaltate e ci si muove abbastanza bene.
È bello anche vedere tanti seminaristi giovani, magari non tutti sono perseveranti... li ho anche accompagnati un tempo nel seminario propedeutico di Morogoro.
Adesso sono nella casa di Iringa, ormai gli anni sono passati, non sto più tanto bene, devo fare attenzione con il cuore che non mi accompagna più come quando ero giovane, non posso più fare come prima gli anni ormai ci sono tutti.
Ringrazio tutti, ringrazio il Tanzania e tutte le persone che mi hanno accolto e mi hanno fatto sentire come a casa. Per adesso cerco di rimanere qui, tornerei in Italia solo se la situazione della mia salute si dovesse aggravare. Ad ogni modo se il Signore mi da la grazia di morire qui... lasciatemi in Tanzania.
La chiesa di Tosamaganga (Foto. JC Patias)
L’Istituto Missioni Consolata è una famiglia fatta di Sacerdoti e di Fratelli che si dedicano per tutta la vita alla causa missionaria. Ora il servizio missionario non è opera esclusivamente clericale, ma comporta anche una varietà di servizi e attività laicali, che sono essenziali al raggiungimento della sua finalità.
Così come ci ricordava Fratel Sandro Bonfanti, anche morto in Tanzania nel 2021: “sacerdoti e Fratelli, come membri della stessa famiglia, nelle varie attività, mansioni ed uffici, collaborano per il fine comune: amore a Dio e servizio ai fratelli, e lo facciamo uniti essendo nelle nostre rispettive responsabilità un cuor solo ed un anima sola”.
Come la vita di Fratel Paolino ci insegna, con spirito di umiltà e di abnegazione tutti indistintamente dobbiamo essere disposti a tutto, anche agli uffici più umili, perché tutto è grande nella casa di Dio.