Il Festival della missione 2025 si terrà a Torino. Preceduto da eventi pre festival durante il 2025, si svolgerà tra il 9 e il 12 ottobre nelle piazze della città.
In un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali, il tema della kermesse sarà «Il volto prossimo». Non sarà una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza nel quale ascoltare il racconto di molte esperienze di pace, resistenza e trasformazione.
Sarà Torino la città ospite del prossimo «Festival della Missione», occasione di riflessione e, soprattutto, di incontro con molti protagonisti della «Chiesa in uscita» nelle periferie del mondo.
Un evento che, come spiegano i promotori, non sarà solo una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza e un invito a tutti ad aprirsi al mondo.
Dal 9 al 12 ottobre 2025, la terza edizione della kermesse promossa da Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani) e Fondazione Missio Italia, avrà come location l’area tra piazza Castello e piazza Carlo Alberto. Si interfaccerà con il programma del Festival dell’Accoglienza, evento diffuso promosso dalla Pastorale migranti dell’arcidiocesi di Torino tra settembre e ottobre, e avrà come tema di fondo «Il volto prossimo», collegandosi alla riflessione sul «Vivere per-dono» iniziata nella scorsa edizione del 2022 a Milano. Si inserirà, inoltre, nel contesto del Giubileo del 2025 promosso dal Papa con il tema «Pellegrini di speranza».
L’interrogativo sul volto del prossimo, e sul rendere prossimo il nostro volto all’altro, ha una sua urgenza particolare oggi, in un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali.
Festival della Missione 2022 a Milano. L’incontro «Missione tra vecchie e nuove vie». Da sinistra: p. Carlos Reynoso Tostado, saveriano; Elisabetta Grimoldi, laica saveriana; suor Dorina Tadiello, comboniana della comunità di Modica; il giornalista Paolo Affatato; i coniugi Marangoni della comunità di famiglie Bethesda di Padova; Fabio Agostoni, laico a Ginevra. Foto: Luca Lorusso
Alla conferenza stampa di presentazione del Festival, tenutasi martedì 19 novembre presso l’Arcivescovado di Torino, sono intervenuti monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, Agostino Rigon, direttore generale del Festival (insieme a Isabella Prati), e Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica dell’evento (insieme al regista e documentarista Alessandro Galassi).
Per loro, Torino, città con una forte vocazione missionaria che ha visto nascere le missioni salesiane di don Bosco e l’Istituto Missioni Consolata di san Giuseppe Allamano, canonizzato lo scorso 20 ottobre, diventerà il cuore pulsante di una riflessione universale.
Il legame tra il Festival della Missione e il Festival dell’Accoglienza, come sottolineato da monsignor Repole, sarà un’occasione per allargare gli orizzonti, connettendo l’attenzione ai più fragili (del secondo) con la prospettiva internazionale (del primo).
Agostino Rigon ha definito il Festival «una risposta al movimento dello Spirito e della storia», sottolineando l’urgenza di camminare insieme come Chiesa e società.
In un momento in cui le forze del mondo missionario sembrano ridursi, l’obiettivo dell’iniziativa non è solo quello di unire risorse, ma di costruire alleanze e ponti con realtà civili e religiose.
Tra piazza Castello e piazza San Carlo, ha aggiunto il direttore generale del Festival, si allestiranno «tavoli di ascolto» dedicati alla ricerca delle tracce del divino nella realtà contemporanea.
Il centro di tutto, ha spiegato Lucia Capuzzi, sarà la narrazione. Non la speculazione teologica sulla missione, ma il racconto dei protagonisti della missione.
Le storie saranno il fulcro del programma, coinvolgendo missionari e comunità di tutto il mondo per raccontare esperienze di annuncio, di pace, giustizia e trasformazione.
Il Festival della Missione 2022 a Milano si è tenuto prevalentemente all’aperto. La gran parte degli incontri sono stati alle Colonne di San Lorenzo.
Tra i progetti più significativi che faranno parte degli eventi «pre festival», quelli che verranno organizzati in città nelle settimane che precederanno il Festival, vi sarà un focus su Haiti, paese «invisibilizzato» dai media internazionali e attualmente sconvolto da violenza e povertà, e un altro su una periferia come Brancaccio, a Palermo, dove la memoria di don Pino Puglisi continua a ispirare progetti di rinascita.
Il Festival proporrà durante l’anno scolastico anche un programma educativo sulla pace, elaborato in collaborazione con il Centro studi Sereno Regis, che mira a mostrare i meccanismi della violenza e a promuovere la nonviolenza e giustizia riparativa. L’11 ottobre, in Piazza Castello, si terrà un grande evento dedicato alla pace.
Durante la conferenza stampa, per dare un assaggio di cosa sarà il Festival, sono intervenuti anche tre missionari per dare la loro testimonianza: suor Angela Msola Nemilaki, superiora generale delle Madri Bianche, le suore missionarie di Nostra Signora d’Africa, ha acceso i riflettori sul dramma della tratta di esseri umani. La religiosa ha raccontato la storia di Lulu, una giovane vittima di tratta e tortura. La missione, per suor Angela, è ridare dignità a chi se n’è visto privato, attraverso piccoli gesti di presenza e gentilezza, nella consapevolezza che, come affermato da papa Francesco, «solo aprendo il cuore agli altri scopriamo la nostra umanità».
Padre Dario Bossi, missionario comboniano in Brasile, ha parlato delle sfide globali legate al cambiamento climatico e del «razzismo ambientale», per cui capita sovente che le prime e principali vittime dei cambiamenti climatici siano i più poveri. «La missione oggi è costruire alleanze dal basso», ha detto, invitando a riflettere sul debito di giustizia che il Nord del mondo ha nei confronti del Sud.
Infine, Cristian Daniel Camargo, giovane missionario laico della Consolata e artista argentino, ha presentato il suo progetto «Murales por la Paz», una proposta artistica e teologica che invita comunità di tutto il mondo a dipingere insieme, costruendo pace e dialogo attraverso l’arte.
Dal 2018, il suo progetto «teo artistico» ha realizzato oltre 60 murales in luoghi come Colombia, Guatemala, Italia, Salvador e Argentina, e Camargo spera di proseguirlo in Kenya e Uganda, e poi di tornare in Italia nell’ottobre prossimo per partecipare al Festival della Missione.
«Se la Chiesa sparisse, è come se non ci fosse più cielo sulla terra», ha concluso monsignor Repole, citando il sociologo Hans Joas. Il Festival della Missione 2025 promette di essere uno «squarcio di cielo» su Torino, un’occasione per riflettere sulla dimensione umana e trascendente della missione, intrecciando storie di fragilità e speranza, per fare del mondo una sola famiglia.
* Luca Lorusso è giornalista della rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it
Immerso nelle tranquille Southern Highlands del Tanzania, a quasi 2050 m sul livello del mare, l’Ospedale della Consolata di Ikonda è stato un faro di speranza e guarigione sin dalla sua fondazione nel 1963. Fondato dai Missionari della Consolata, l'ospedale è stato inaugurato dal padre fondatore del Tanzania, Mwalimu Julius K. Nyerere, il 7 ottobre 1968.
Originariamente progettato per soddisfare le esigenze sanitarie di base di una popolazione rurale, nel corso degli anni l'ospedale è cresciuto in modo esponenziale, sia in termini di infrastrutture che di servizi. Registrato presso il Ministero della Salute nel 1997, l’Ospedale della Consolata di Ikonda è riconosciuto come istituzione caritativa e ha ottenuto l'iscrizione al National Health Insurance Fund (NHIF) e alla Christian Social Services Commission (CSSC). Oggi, con una capacità di 404 posti letto, l'ospedale riceve tra 300 e 350 pazienti ambulatoriali al giorno, con pazienti che arrivano dai vari distretti e regioni della Tanzania.
Attualmente ci sono cinque missionari della Consolata che lavorano nel team ospedaliero: Padre William Mkalula, Padre Marco Turra, Padre Isaack Mdindile, Padre Luis Zubia e Fratel Nahashon Njuguna.
L’Ospedale della Consolata di Ikonda è orgoglioso di offrire una gamma completa di servizi sanitari. L'ospedale dispone anche di cliniche specializzate per la tubercolosi e la cura dell'HIV. Il reparto chirurgico dell'ospedale gestisce sei sale operatorie principali ed è in grado di eseguire grandi e piccoli interventi chirurgici. Il reparto di maternità è uno dei reparti più importanti dell’ospedale, che garantisce un’assistenza al parto di qualità. L'ospedale offre alloggio gratuito alle madri della zona, nonché servizi di parto a basso costo. L'ospedale è impegnato in programmi di sensibilizzazione della comunità, offrendo servizi medici gratuiti ai bambini sotto i dieci anni del distretto di Makete.
L’Ospedale si distingue non solo per la sua vasta gamma di medici professionisti, ma anche per il suo incrollabile impegno nel fornire assistenza sanitaria compassionevole e di qualità.
L’Ospedale della Consolata di Ikonda è composto da un team dedicato di medici e sanitari delle varie specialità mediche, per garantire un'assistenza completa al paziente. Ciò riflette l'impegno dell'ospedale nel fornire servizi medici diversificati e di alta qualità alla comunità. Il team medico dell'ospedale è completato da specialisti volontari provenienti dall'Europa, che forniscono un supporto inestimabile ai sanitari locali.
Al centro delle attività dell’Ospedale della Consolata di Ikonda c'è un approccio incentrato sul paziente. L'ospedale è impegnato a curare con compassione, assicurando che ogni paziente sia trattato con dignità e rispetto. Nel 2023, l'ospedale ha registrato oltre 17.000 ricoveri, con migliaia di visite ambulatoriali e interventi chirurgici eseguiti. La reputazione dell'ospedale per l'assistenza di qualità è evidente nel feedback costantemente positivo dei pazienti e delle loro famiglie. Molti pazienti esprimono gratitudine per l’assistenza ricevuta, indicando il personale dell'ospedale come un elemento significativo della loro guarigione. Mentre l'ospedale continua a evolversi e ad ampliare i suoi servizi, rimane saldo nel suo obiettivo di fornire un'assistenza sanitaria eccellente per tutti. "Prendersi cura della salute, per un futuro migliore".
* Padre Isaack Mdindile, IMC, Ospedale della Consolata di Ikonda, Tanzania.
Una riflessione sulla prima giornata di Papa Francesco in Papua Nuova Guinea il 7 settembre 2024
Come si fa a trasmettere ai giovani l’entusiasmo della missione? «Non penso che ci siano “tecniche” per questo...». Nella domanda di James, catechista, e nella risposta che ha ricevuto dal Papa si può cogliere uno dei temi più cari a Francesco. Che cosa c’è all’origine dell’essere missionari? Come si annuncia il Vangelo?
Sono domande valide per ogni luogo e ogni tempo, ma qui, in Papua Nuova Guinea, Paese dove si parlano 841 lingue diverse, sono destinate ad avere un’eco particolare. Incontrando le autorità e la società civile a Port Moresby, il Successore di Pietro aveva ripetuto di essere molto affascinato dalla straordinaria ricchezza culturale e umana di questo arcipelago costellato di isole, dove i collegamenti sono complicati e la catechesi deve fare i conti con una quantità di idiomi differenti che non ha pari al mondo: «Immagino che questa enorme varietà sia una sfida per lo Spirito Santo, che crea l’armonia delle differenze!».
Un bimbo cieco offre un dono al Papa durante incontro con i missionari nella Holy Trinity Humanistic School a Baro
Alla domanda di James, durante l’incontro con i vescovi, il clero, le religiose e i catechisti, il Papa ha risposto riproponendo l’essenziale della testimonianza cristiana, cioè «coltivare e condividere la nostra gioia di essere Chiesa». Francesco ama citare spesso le parole dette dal predecessore Benedetto XVI ad Aparecida nel 2007: «La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”». E nel libro intervista con Gianni Valente (“Senza di Lui non possiamo far nulla”, Lev 2020) ha spiegato che «la missione è opera Sua. È inutile agitarsi. Non serve organizzare noi, non serve urlare. Non servono trovate o stratagemmi. Serve solo chiedere di poter rifare oggi l’esperienza che ti fa dire “abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi”...
Il mandato del Signore di uscire e annunciare il Vangelo preme da dentro, per innamoramento, per attrazione amorosa. Non si segue Cristo e tanto meno si diventa annunciatori di lui e del suo Vangelo per una decisione presa a tavolino, per un attivismo autoindotto. Anche lo slancio missionario può essere fecondo solo se avviene dentro questa attrazione, e la trasmette agli altri».
Di fronte allo spaesamento e alla stanchezza che molti cristiani sperimentano in alcune zone del mondo, solo la testimonianza di peccatori perdonati attratti per amore fa la missione. Altrimenti la Chiesa - e sono sempre parole di Francesco - «diventa un’associazione spirituale. Una multinazionale per lanciare iniziative e messaggi di contenuto etico-religioso», perché «si finisce per addomesticare Cristo. Non dai più testimonianza di ciò che opera Cristo, ma parli a nome di una certa idea di Cristo.
L'incontro del Papa con i vescovi della Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone
Un’idea posseduta e addomesticata da te. Organizzi tu le cose, diventi il piccolo impresario della vita ecclesiale, dove tutto avviene secondo programma stabilito, e cioè solo da seguire secondo le istruzioni. Ma non riaccade mai l’incontro con Cristo. Non riaccade più l’incontro che ti aveva toccato il cuore all’inizio».
Nulla è esente da questo rischio: dai progetti pastorali all’organizzazione dei grandi eventi, dalle “tecniche” missionarie per il digitale alla catechesi. Si rischia di dare per scontato l’essenziale, per concentrarsi su modalità, linguaggi, organizzazione.
Ma la risposta più vera alla domanda di James, quella che incarna le parole del Papa, sta nei volti sorridenti e pieni di gioia dei missionari che qui macinano chilometri a piedi, in auto e in aereo, per essere vicini a tutti. Per testimoniare a ogni donna e a ogni uomo di questa terra dalla natura splendida e variopinta, l’amore di Gesù. Perché «se a attirarti è Cristo, se ti muovi e fai le cose perché sei attirato da Cristo, gli altri se ne accorgono senza sforzo. Non c’è bisogno di dimostrarlo, e tanto meno di ostentarlo».
* Andrea Tornielli. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
Ha avuto inizio lunedì 19 agosto il quinto Incontro della Chiesa nell'Amazzonia Legale che riunisce a Manaus, fino al 22 agosto, vescovi e rappresentanti delle 58 comunità ecclesiali della regione brasiliana. "Memoria e Speranza" i cardini della riflessione di quest'anno
L'incontro, organizzato dalla Commissione episcopale speciale per l'Amazzonia e dalla Rete ecclesiale Pan-Amazzonica (REPAM-Brasile), è iniziato con una celebrazione che, secondo il cardinale Steiner, arcivescovo di Manaus e presidente della Regione Nord 1 della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB Nord 1), ha portato grande gioia alla Chiesa locale.
All'apertura dei lavori, Steiner ha dichiarato che "è sempre importante incontrarci per creare più comunione, riflettere insieme sull'evangelizzazione, rimanere fedeli allo spirito missionario della nostra Chiesa e valutare il nostro cammino". Un cammino missionario sinodale che ha "orizzonti molto significativi", ha affermato il cardinale, auspicando che l'incontro sia un'opportunità per "continuare a sognare, per essere una Chiesa profondamente incarnata, prendendo in considerazione i sogni di Papa Francesco", e quindi per "essere una Chiesa che canta veramente la libertà, e nel cantare la libertà, s'incarni nelle culture presenti, per essere veramente segno di speranza".
Da parte sua il presidente del Consiglio indigenista missionario (CIMI) ha ribadito la necessità di "includere sempre di più la vita dei popoli indigeni", menzionando le difficili condizioni ambientali in cui si trova l'Amazzonia.
Mons. Evaristo Spengler, vescovo di Roraima e presidente della REPAM-Brasile
Il cardinale Pedro Barreto, arcivescovo emerito di Huancayo (Perù) e presidente della Conferenza ecclesiale dell'Amazzonia (CEAMA), ha evidenziato la lunga storia della Chiesa in Amazzonia, sottolineando la necessità di "essere consapevoli di aver ereditato una sacra eredità dai nostri predecessori che vi hanno lavorato". Ha ringraziato per "tutto lo sforzo che si sta facendo per camminare insieme nella comunione, partecipando tutti all'unica missione di Cristo".
A nome della presidenza della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB), il vescovo ausiliare di Brasilia e segretario generale della CNBB, mons. Ricardo Hoepers, ha ricordato il cammino della Chiesa in Amazzonia, iniziato con il primo incontro inter-regionale nel 1952, e sottolineando che "la perseveranza ci insegna che vale la pena continuare con entusiasmo questo processo". Hoepers ha riflettuto sui retrocessi che avvengono ogni giorno nella regione amazzonica, come la deforestazione, e ha mostrato la preoccupazione dell'episcopato brasiliano per i popoli indigeni, "i più colpiti", denunciando "la gravità delle cose che stanno accadendo" nel Paese a cui si cerca di rispondere. Ha ricordato il tema della Campagna della Fraternità del 2025 incentrata sull'ecologia integrale, "un'opportunità per sensibilizzare tutto il Brasile".
Suor Carmelita Conceição, vicepresidente della Rete ecclesiale Pan-amazzonica (REPAM), che compie 10 anni, ha citato la realtà della siccità che sfida a "dar segni di vita e speranza nell'Amazzonia", vedendo l'incontro come un aiuto per "capire cosa fare e come posizionarci di fronte a così tante sfide".
Kenarik Boujikian, rappresentante del governo brasiliano in qualità di segretaria nazionale per i dialoghi sociali e l'articolazione delle politiche pubbliche della presidenza della Repubblica, ha sottolineato il ruolo della sua istituzione nel mantenere il dialogo tra il governo e la società civile e i movimenti sociali, ricordando la centralità dei movimenti popolari per Papa Francesco. Ha evidenziato l'importanza dei "quaderni di risposte" presentati in risposta alle richieste della Chiesa brasiliana, affermando che non intendono fornire soluzioni definitive ma sono uno strumento di lavoro, suddiviso in quattro assi: emergenza climatica; diritti dei popoli delle acque, della campagna e delle foreste; regolarizzazione fondiaria; denunce e violazioni dei diritti nei territori.
Mons. Gilberto Pastana, arcivescovo di São Luis e presidente della Commissione episcopale speciale per l'Amazzonia
In questo contesto, "la REPAM-Brasile vuole essere un servizio ecclesiale, articolato con molti movimenti e organizzazioni della società civile - ha affermato il suo presidente, il vescovo di Roraima, dom Evaristo Spengler -, con l'obiettivo di preservare i diritti dei nostri popoli e dei nostri territori". Rispondendo ai "quaderni", il vescovo ha affermato che "le nostre azioni supportano e danno visibilità alle iniziative pastorali delle comunità e organizzazioni ecclesiali, basate su una spiritualità incarnata, nella difesa della vita dei popoli e della biodiversità amazzonica per costruire il buon vivere". Dom Spengler ha ricordato le visite effettuate a 13 ministeri e altre entità per portare al governo i risultati dell'ascolto ai popoli, e che ha portato alla formulazione dei "quaderni di risposte".
L'arcivescovo di São Luis e presidente della Commissione episcopale speciale per l'Amazzonia, Gilberto Pastana, ha riaffermato la volontà "di essere fedeli alle sfide del Signore”, invitando a “dare continuità a tutta questa ricchezza raccolta e osservata nei progressi e nelle difficoltà della nostra azione evangelizzatrice”. Monsignor Pastana ha anche chiesto di rafforzare l'impegno missionario e di “individuare i passi concreti che lo Spirito Santo sta rivelando alla Chiesa in Amazzonia per realizzare e far crescere la comunione, la missione e la partecipazione”.
* Originalmente pubblicato in www.vaticannews.va.www.vaticannews.va. Con informazione di Luis Miguel Modino, comunicazione CNBB Nord1
Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.
I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.
La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone. Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.
Parrocchia Maria Speranza Nostra a Torino
Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.
Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.
Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.
Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.
Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.
Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.
La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.
La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.
Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.
Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.
Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».
Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità IMC che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, padre Nicholas, padre Samuel Kabiru, keniano, e padre Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».
Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».
Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».
In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».
Volantini del gruppo di mutuo aiuto Narcotici anonimi formato da almeno 40 persone.
Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.
Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.
Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.
Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.
Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.
Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».
L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni, che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.
Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.
Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.
Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».
Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.
Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».
Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».
A 50 metri dalla parrocchia, le strutture abbandonate della ex Gondrand in via di abbattimento dopo l'ultimo sgombero dei giovani senza tetto del novembre 2023
Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.
«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.
Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».
«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».
Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».
Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».
Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».
Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma IMC in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come IMC, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».
* Luca Lorusso è giornalista della rivista Missioni Consolata. Pubblicato originalmente in: Missioni Consolata, Marzo 2024 (www.rivistamissioniconsolata.it)