“Fare bene il bene. E quali sono i modi per fare bene tutte le cose? S. G. Cafasso offre alcuni suggerimenti. Il primo è di fare ogni cosa come la farebbe il Signore. Conformiamoci a Gesù, facciamo tutto come farebbe Lui, in modo che sia Lui a vivere e operare in noi. Domandiamoci perciò: «Se Gesù fosse al mio posto, come farebbe? Penserebbe così? Parlerebbe così? Agirebbe così?». Vorrei proprio che ciascuno di voi fosse un’immagine vivente di nostro Signore. Tutti i santi cercarono di configurarsi al Signore.” (Così vi Voglio n.6)

“Siamo chiamati a riscoprire la bellezza della vocazione missionaria come un cammino di conversione per diventare “discepoli missionari” alla scuola di Gesù, centro della nostra vita e della nostra missione” (cfr. Linee guida della Direzione Generale, Messaggio Programmatico all’Istituto dopo il XIII CG, pag. 11).

La mediocrità spirituale è una tentazione particolarmente subdola, sottile, non facile da individuare. Si insinua nella nostra vita, cresce nell’aridità dello spirito e germoglia sul terreno di una vita di preghiera stanca e monotona. La possiamo esprimere con le parole di Gesù Risorto alla chiesa di Efeso: “Sei constante e hai molto sopportato per il mio nome senza stancarti. Ho, però, da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ravvediti!” (Ap. 2,3ss). Con altre parole il profeta Osea rimprovera il popolo di Israele: “Il vostro amore è come nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce” (6,4).

E’ il rischio di servire la causa del Regno con grande generosità e dedizione, ma lasciando annebbiare il rapporto personale con Gesù, senza accorgerci togliamo gli occhi da Lui, come sorgente e fine della missione, e così piano piano iniziamo ad affondare. Il primato non è più la persona di Cristo, il suo amore, ma il servizio a lui. E’ chiaro che i due aspetti sono inseparabili, ma la distinzione è fondamentale, perché solo l’amore di Cristo riempie la vita, rendendoci testimoni del suo amore. Il servizio, il lavoro, le attività che facciamo, nella misura in cui non sgorgano da una comunione di fede e di amore con Lui, diventano aride perdendo il profumo del Vangelo.

Spesso ci chiediamo perché la missione? È una domanda giusta ma interrogarsi troppo sul perché della missione può significare che non è più evidente l’esperienza dell’incontro con Cristo, che sta alla radice di ogni tensione missionaria. Quando si affievolisce la tensione, si amplificano le tensioni. 

Il papa Francesco lo sottolinea con molta forza: “Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo ‘discepoli’ e ‘missionari’, ma che siamo sempre ‘discepoli-missionari’. Se non siamo convinti, guardiamo ai primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù, andavano a proclamarlo pieni di gioia: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41)” (EG 120). 

Dobbiamo recuperare l’innamoramento a Gesù Cristo, come l’investimento totale della nostra vita, perché il Signore non può essere ridotto ad una frangia, un’appendice al panneggio della nostra esistenza. L’amore per Cristo se non ha il marchio della totalità, è ambiguo. Il part-time, il servizio a ore con Cristo non è ammissibile.

Innamorarsi di Gesù Cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequenza diuturna nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, metterlo al centro della nostra vita.

Discepoli come nei vangeli

Nei sinottici, la conversione al Regno s’incarna nella radicalità di un lasciare tutto (lavoro, beni, relazioni originarie, famiglia) per seguire Gesù (cfr. Mc 1,16-20; 2,13-14), per stare con lui nell’itineranza missionaria (cfr. Mc 3, 13-19), per causa sua e per causa del Vangelo (cfr. Mc 10,28-30). Questo tipo di sequela qualifica in maniera eminente il gruppo dei Dodici (cfr. Mc 3, 14) ed il Risorto afferma che soltanto ritornando alle sorgenti dell’incontro con lui e della chiamata che ha fatto di noi dei discepoli-missionari potremmo sperimentare la potenza della sua resurrezione nella nostra vita: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16,7). La Galilea di una quotidianità in cui ci siamo sentiti guardati, amati e chiamati dalla sua Parola, dalla sua presenza, dal suo passaggio (Pasqua!) nel cuore della nostra vita così com’era, così com’è. 

Il Quarto Vangelo usa un linguaggio diverso. Non basta “convertirsi”: è necessario nascere dall’alto, rinascere (cfr. Gv 3). Non è più sufficiente un “andare dietro”: occorre un’intimità maggiore, una radicalità diversa. Bisogna rimanere in, “vivere dentro” (cfr. Gv 15;17). La novità della sequela è una vita nuova, l’inabitazione trinitaria: “noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23)! Paolo direbbe: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20; cfr. Fil 1, 21)! 

Un momento di gratitudine

Il 27 novembre 1903 Giuseppe Allamano scrisse una lettera ai missionari in Kenya nella quale dava importanti indicazioni di carattere spirituale e pratico. Di quello che lui scriveva vorrei riflettere sulla gratitudine che non è una virtù che si sviluppa automaticamente in noi stessi ma una qualità che si coltiva attraverso un duro lavoro su se stessi.

Nella sua lettera il Beato Allamano invitava i suoi missionari a guardare indietro per vedere la trasformazione avvenuta nell'Istituto, quando, dopo la partenza dei primi missionari che lasciarono letteralmente vuota la prima casa dell’istituto e sembrava quasi che tutto fosse finito. Ma l’Istituto non è morto –diceva l’Allamano– perché ispirato, guidato e protetto da Dio.

Rivolgete o cari il pensiero a quel tempo in cui la nostra casa accoglieva nel suo seno pochi alunni, e per un anno quale germe nascosto sotto terra non dava sentore di se, e pareva agli occhi umani che dovesse morire prima di nascere. Pero l’esito non poteva mancare perché l’opera era ispirata da Dio e da Lui protetta. (Lettere ai Missionari e Missionarie della Consolata, 40)

Nella sua riflessione l’Allamano diceva ai missionari in Kenya che anche loro avevano motivi per essere grati: in primo luogo Dio li aveva protetti durante il viaggio verso un luogo in cui non avevano mai messo piede e Maria Consolata li accompagnava mentre si recavano nella terra che lei aveva preparato per loro. L’accoglienza in Kenya da parte del Vicario Apostolico e dei Padri dello Spirito Santo era stata a tal punto calorosa che sembrava che il Signore li stesse aspettando ancora prima di lasciare Torino. Avevano trovato anche le autorità civili ben disposte; la gente del luogo disponibile e perfino il clima, quello di Nyeri, temperato e salubre. Nessuna di quelle cose era da ignorare o dimenticare.

Anche Lui personalmente aveva molti motivi per essere grato:  nel tempo del bisogno aveva sentito prossima la presenza di Dio e della comunità cristiana; riconosceva le tante grazie che aveva concesso ai suoi missionari e alla sua umile opera.

Questo ci mostra che la gratitudine è frutto della fede perché solo chi è attento al proprio rapporto con Dio è in grado di individuare la sua azione gratuita nella vita.

La gratitudine è poi anche un frutto dell'umiltà. Gli umili si rendono conto di essere benedetti non perché siano migliori ma perché scelti dell'Onnipotente. Inoltre non dobbiamo mai dimenticare che la gratitudine è la capacità di riconoscere e apprezzare i sacrifici che gli altri fanno per noi, anche se piccoli. Come uomo grato, il Fondatore Giuseppe Allamano doveva essere uomo di grande fede e insieme di umiltà.

Oggi noi figli dell'Allamano ci stiamo preparando al 14° Capitolo Generale, che si svolge a cento anni dal primo capitolo avvenuto tra il 10 e il 24 novembre 1922. Abbiamo molti motivi per essere felici e grati. Mentre il primo capitolo si era concentrato in particolare sull'approvazione delle Costituzioni, che avrebbero governato la vita di un gruppo piccolo di missionari che al morire il Fondatore nel 1926 era presente solo in Kenya, Tanzania, Etiopia e Mozambico, oggi il prossimo Capitolo Generale interessa la vita di un numero molto maggiore di missionari, provenienti e presenti in quattro continenti. 

Non possiamo dimenticare la buona accoglienza che abbiamo sempre ricevuto dalla Chiesa locale ogni volta che abbiamo aperto una missione in un'altra diocesi o Paese. Questa è una cosa molto incoraggiante. È un chiaro segno che la Chiesa e il popolo di Dio, sono in grado di vedere la mano di Dio attraverso le nostre attività missionarie. 

Non possiamo inoltre ignorare la buona volontà dimostrata da molti missionari nel loro lavoro, e gli evidenti sacrifici di molti altri, che lavorano in aree difficili e talvolta pericolose nel loro servizio all'umanità e in risposta alla chiamata di Cristo. 

Chi può dimenticare la testimonianza silenziosa dei nostri missionari in tante parti del mondo, che senza dire una parola, sostengono la missione con la loro esemplare vita di preghiera, i saggi consigli e il contributo materiale? Queste cose incarnano la nostra comune offerta a Dio e la nostra comune partecipazione al mistero pasquale di Cristo.

Al termine di quella lettera il Beato Allamano disse due cose importanti. La prima, nelle sue stesse parole, è questa: "Appena ricevuta questa lettera, in ogni stazione si canti il “Te Deum”, possibilmente con la Benedizione del Santissimo Sacramento, e si reciti per nove giorni sette Ave Maria ed una  Salve Regina".

Detto in altro modo Giuseppe Allamano chiedeva ai suoi missionari di celebrare una novena in segno di gratitudine per quanto Dio aveva fatto per l'istituto. 

La seconda cosa era la sua preghiera. E anche in questo caso ascoltiamo le sue parole: "Se però (le tribulazioni) alla gloria di Dio e al maggior nostro bene saranno convenienti, io prego che queste provengano dal mondo o dal di fuori dell’istituto, non dall’interno e dai suoi membri per mancanza nei medesimi della virtù proprie del nostro stato. Non avvenga che nei soggetti manchi lo spirito di fede, di carità, di sacrificio e di umiltà, virtù indispensabili al vero missionario".

Lui in modo molto realista riconosceva che le difficoltà e le sfide erano in qualche modo necessarie alla vita, ma se dovessero capitare all'Istituto considerava che fosse meglio che provenissero da fuori e non dalla poca formazione spirituale dei missionari che, diceva, dovevano essere tutti uomini di prima qualità. 

Ringraziando il Signore per le tante grazie che ci ha concesso, chiediamo la grazia di essere uomini di preghiera. Senza dimenticare il detto che dice “Nessuno può distruggere il ferro, ma la sua stessa ruggine sì”, impariamo ad essere grati per il dono reciproco ed evitiamo di diventare causa della rovina l'uno dell'altro. Che la preghiera del nostro Fondatore diventi realtà tra noi. Amen.

* Padre Jonah M. Makau, Missionario della Consolata (Roma)

 

“Nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco io mando su di voi colui che il Padre ha promesso” (Lc 24,47-49). 

Espansione geografica

Queste sono le ultime parole di Gesù nel vangelo di Luca. Parole riprese in Atti 1,8, come le ultime parole di Gesù prima dell’Ascensione: “Riceverete la forza dello Spirito Santo e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra”. “Tutti i popoli”, “fino ai confini della terra”. 

Queste parole sono come l’indice del contenuto del libro degli Atti. Gli Atti degli Apostoli, infatti, descrivono come questa testimonianza si allarga geograficamente da Gerusalemme a tutta la regione della Giudea, alla Samaria, regione semi pagana e in cattivi rapporti con Gerusalemme, e si chiude con l’arrivo di Paolo prigioniero a Roma. A Roma Paolo arriva dopo un ampio “girovagare” in Asia, in Grecia, nelle isole di Cipro, Malta, Sicilia. La grande transizione non è però solo geografica ma anche sociale e religiosa, dai Giudei ai pagani (Greci, Licaoni), sempre più ad gentes, cioè verso tutti.

Espansione culturale

Interessante anche guardare allo strato sociale delle persone toccate dalla testimonianza cristiana: autorità religiose e civili, gente comune, militari, commercianti, schiavi e carcerieri, poveri e persone agiate. Nella prima comunità cristiana di Gerusalemme si registrano già differenze tra giudei e greci e la crisi comunitaria che porta alla scelta dei “diaconi” (6,1-5). La persecuzione seguita al martirio di Stefano allarga ancora la prospettiva. Il battesimo del funzionario etiope (At 8), già simpatizzante della fede giudaica, si fa opportunità non prevista di arrivare ai pagani. A lui Filippo annunciò Gesù e lo battezzò ed egli “pieno di gioia proseguì per la sua strada” (8,39). L’evento più impensabile della conversione/vocazione di Saulo alle porte di Damasco (9,1-19) apre sviluppi sempre più vasti: il più feroce oppositore di Gesù di Nazaret diventerà il più appassionato testimone di Gesù ai pagani (proprio lui “accanito sostenitore delle tradizioni dei padri”, Gal 1,14) fino ai confini del mondo.

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Alcuni mometi significativi

CORNELIO: Si ritiene, e giustamente, che il battesimo di Cornelio “centurione della coorte detta “Italica”, la narrazione più lunga di Atti (10,1-11,18) sia il centro del libro di Atti. Cornelio, il primo pagano battezzato, riceve lo Spirito prima di essere battezzato da Pietro. Più che di conversione di Cornelio si può parlare di conversione di Pietro, il quale più tardi saprà difendersi a Gerusalemme, davanti alle accuse di essere entrato in casa di un pagano (11,1-18). La conversione di Pietro porta alla conversione della comunità: “Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita”. 

ANTIOCHIA: Subito dopo la conversione di Pietro e della comunità di Gerusalemme, il libro degli atti narra in modo significativo la nascita della comunità di Antiochia (11,19-26) che prende il posto di Gerusalemme come comunità missionaria da cui partiranno e dove faranno ritorno i viaggi missionari di Paolo. “Appena arrivati (ad Antiochia) riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva operato per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede” (14,29). Questa esperienza sarà confermata nel concilio di Gerusalemme (At 15).

GLI ATTI di PAOLO: La seconda parte di Atti (At 13-28) si può chiamare “Atti di Paolo” perché Luca si concentra nel raccontare le sue missioni o viaggi che lo porteranno a Roma prigioniero. Nulla può sostituire l’emozione suscitata dalla lettura di questo stupendo “romanzo” dei viaggi missionari di Paolo, tuttavia uno sguardo sintetico su questi racconti permette alcune osservazioni sulla modalità dell’ad gentes di Paolo stesso.

A. I progetti di Paolo vengono quasi sempre sconvolti (si può dire che son quasi sempre un fallimento e questo ci fa coraggio!): progetta il secondo viaggio con Barnaba, ma poi litigano a causa di Giovanni Marco e fanno due teams (15,36-40). Anche i litigi e gli scontri di personalità fanno parte della missione ad gentes, come tutti ben conosciamo.

B. I suoi soggiorni nelle varie città sono brevi (con le eccezioni di Corinto ed Efeso) e quasi ovunque deve scappare senza aver completato le istruzioni, perché perseguitato e cacciato. E non scappa secondo un suo piano predeterminato, la tappa successiva è spesso determinata dalle circostanze. Paolo, tuttavia, affronta le persecuzioni come cosa normale

C. Notevole la capacità di Paolo di scegliere collaboratori: Timoteo, Sila, Luca, Aquila e Priscilla. La missione è contagiosa, è comunitaria. 

D. I progetti di Paolo vengono sconvolti ma risultano sempre più aperti, ogni chiusura segna un’apertura ad altri, ai diversi, ad gentes 

E. Senza lasciarsi turbare da tutti questi apparenti fallimenti, la preoccupazione costante di Paolo è che Gesù sia conosciuto: questo è particolarmente visibile nell’ultima parte di Atti (21-28) spesso denominata “passio Pauli”: ben quattro anni di prigione due a Gerusalemme-Cesarea e due a Roma. La prigione non chiude le porte della missione.

E. Due volte Paolo racconta in prima persona l’evento della sua vocazione/conversione. Lo fa prima ai Giudei nel Tempio (22,1-19), non per difendersi ma per invitarli a conoscere Gesù e poi più tardi, prigioniero a Cesarea, racconta la sua conversione in un discorso missionario alle autorità romane e giudaiche (26,1-29, il procuratore e il re Agrippa, Berenice, comandanti e cittadini più in vista). Le reazioni al suo discorso appassionato: il procuratore Festo: “tu sei pazzo Paolo, la troppa scienza ti ha dato al cervello”, e Agrippa: “ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano” cui Paolo risponde: “Io vorrei supplicare Dio che non soltanto tu ma tutti coloro che mi ascoltano diventassero come sono anch’io, eccetto queste catene” (26,29). Partendo dalla sua esperienza personale di conversione Paolo vorrebbe che tutti potessero incontrare Gesù. Il vero “ad gentes” è testimoniare Gesù a tutte le persone e in questa avventura Colui che guida, il pilota che trasforma i fallimenti in opportunità è lo Spirito Santo: “riceverete lo Spirito Santo e sarete testimoni’ (1,8).

“La S. Scrittura rende perfetti coloro che la studiano e li prepara a compiere ogni opera buona … È il nostro libro. … Ah, la Scrittura! Più si legge, più si studia e più uno la ama e vi si diletta! Nell’Istituto la S. Scrittura ha sempre avuto il primo posto e sarà così sempre. Questo è il primo studio, il sommo che forma materia di tutti i corsi teologici, e che deve essere continuato. In missione dovrà essere la vostra lettura quotidiana e la vostra consolazione. Nei momenti di sconforto studiate la S. Scrittura. Bisognerebbe studiarla tutta e meditarla. Questa è una scuola che non cessa mai. Amiamola molto la S. Scrittura, specialmente il Vangelo e le Lettere di S. Paolo. Desidero che prendiate affezione alla S. Scrittura!” (Così Vi Voglio 174)

La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione e tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. 

La Bibbia è tutta attraversata da appelli a “non tacere”, a “gridare con forza”, ad “annunciare la parola al momento opportuno e non opportuno”, ad essere sentinelle che lacerano il silenzio dell’indifferenza. Le strade che si aprono davanti a noi non sono ora soltanto quelle sulle quali si incamminava san Paolo o i primi evangelizzatori, ma quelle dei bassifondi ove si annidano sofferenze e povertà, umiliazioni e oppressioni, emarginazioni e miserie, malattie fisiche e psichiche e solitudini. 

Anche nella moderna città secolarizzata, nelle sue piazze e nelle sue vie –ove sembrano dominare incredulità e indifferenza, ove il male sembra prevalere sul bene, creando l’impressione della vittoria di Babilonia su Gerusalemme– un anelito nascosto, una speranza germinale, un fremito d’attesa. Come si legge nel libro del profeta Amos, «ecco verranno giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore» (8, 11). A questa fame vuole rispondere la missione evangelizzatrice della Chiesa. 

Nel suo testamento apostolico (At 20,32), Paolo non affida la Parola ai ministri, ma affida i ministri alla Parola! I destinatari del testamento dell'Apostolo hanno la missione di predicare, di diffondere, di tenere viva la Parola in mezzo alla gente, ma - cosa sorprendente! - qui Paolo affida i ministri alla Parola. Prima che la Parola sia loro affidata, sono essi stessi affidati alla Parola; prima di essere portatori della Parola, essi stessi sono portati dalla Parola di Dio! Noi portiamo la Parola agli altri solo se siamo portati dalla Parola.

Il missionario per primo deve sviluppare una grande familiarità personale con la Parola di Dio: non gli basta conoscere l’aspetto linguistico o esegetico, che pure è necessario; gli occorre accostare la Parola con cuore docile e orante, perché essa penetri a fondo nei suoi pensieri e sentimenti e generi in lui una mentalità nuova.

Solo se per primi abbiamo ascoltato la Parola che dobbiamo annunciare, solo se in primo luogo ha risuonato così nel nostro cuore, questa si trasmetterà in un modo o nell’altro alla gente, perché “la bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Mt 12,34).

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Dio sulla mangiatoia

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