La crisi multidimensionale verso il punto di non ritorno

Da aprile 2023, il Sudan è dilaniato da una sanguinosa guerra civile. A scontrarsi sono l’esercito governativo guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan – leader ufficiale del Paese – e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, rivale di al-Burhan.

Mentre i due si contendono il controllo del Sudan – il più delle volte ignorando i tentativi di dialogo portati avanti dalla comunità internazionale – i civili sudanesi pagano le conseguenze di un conflitto sempre più violento. Gli sfollati interni sono oltre dieci milioni, mentre più di due milioni di persone si sono rifugiate negli Stati vicini. Gli aiuti umanitari faticano a entrare nel Paese: entrambe le fazioni in conflitto ostacolano l’accesso di operatori e organizzazioni internazionali. Tant’è che, negli ultimi mesi, tra coloro che non avevano cibo a sufficienza, solo una persona su dieci ha ricevuto l’assistenza necessaria. Secondo le Nazioni Unite, quindi, il Sudan sta vivendo la peggiore crisi alimentare della sua storia.

Per valutare le condizioni alimentari di un Paese, a livello internazionale è stato introdotto un sistema condiviso di monitoraggio, l’Integrated food security phase classification (Ipc). Un meccanismo che si articola su cinque livelli, dove il primo descrive una condizione di sufficiente disponibilità di cibo mentre l’ultimo corrisponde alla carestia. Passando per situazioni di «stress alimentare» (livello 2), «crisi» (livello 3) ed «emergenza» (livello 4).

Nel caso del Sudan, le ultime rilevazioni (pubblicate a luglio) mostrano che, tra giugno e settembre 2024, oltre 25 milioni di persone (su una popolazione di quasi 50 milioni) si sono trovate, o saranno, in una condizione di «crisi», se non peggio. E la situazione è in rapido deterioramento. Infatti, rispetto alle precedenti stime di dicembre 2023, il numero di sudanesi in situazione di «crisi» è cresciuto del 45%, raggiungendo i 16,3 milioni. Mentre il livello successivo, quello emergenziale, riguarda ormai 8,5 milioni di persone (con un incremento del 74%).

A preoccupare, però, sono soprattutto i dati relativi all’ultima fase, la carestia. Se a dicembre 2023 nessun sudanese era a rischio, ora 755mila persone – sparse in dieci località del Paese – soffrono di insicurezza alimentare estrema. Cioè un’insufficienza severa, prolungata e diffusa di cibo, tale da causare malnutrizione, fame ed elevata mortalità tra la popolazione. Già a febbraio, le Nazioni Unite avevano avvertito che nei mesi successivi sarebbero potuti morire fino a 220mila bambini per la mancanza di generi alimentari. Più recentemente, il Clingendael institute, un ente di ricerca olandese, ha stimato che entro ottobre 2,5 milioni di sudanesi potrebbero perdere la vita a causa dell’insicurezza alimentare.

Attualmente, le aree del Paese più a rischio di carestia sono 14 tra province (Greater Darfur, Greater Kordofan e Al Jazirah) e località che accolgono sfollati e rifugiati (soprattutto a Khartoum, la capitale). Ufficialmente, le Nazioni Unite non hanno ancora dichiarato uno stato di carestia ma, allo stato attuale, l’intersecarsi di diversi fattori – conflitto, ciclici disastri naturali e devastazione economica – rende la prospettiva sempre più possibile e vicina.

Secondo l’Ipc infatti, se gli scontri non cesseranno – o quantomeno non allenteranno la propria presa sui civili -, l’insicurezza alimentare si diffonderà sempre di più nel Paese. La violenza ha costretto molti sudanesi a lasciare abitazioni e attività economiche per rifugiarsi nei campi di sfollati. Dove però gli aiuti umanitari faticano ad arrivare a causa dei blocchi e dei saccheggi degli attori armati.

Diverse reti stradali e vie commerciali sono diventate impercorribili. La produzione agricola è crollata: campi, mezzi di produzione e catene di approvvigionamento sono andati distrutti. Quindi i prezzi dei generi alimentari – sia di produzione interna sia d’importazione (diventata sempre più difficile) – sono schizzati alle stelle. L’Unocha (l’agenzia delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) ad esempio stima che i prezzi delle commodities siano aumentati dell’83% rispetto all’inizio del conflitto.

I disastri naturali – come le recenti inondazioni – si vanno a sommare a un contesto socioeconomico già estremamente fragile e non fanno altro che acuire la vulnerabilità della popolazione. Soprattutto nel caso di sfollati e rifugiati che spesso vivono in campi di fortuna.

Il Sudan – dilaniato da una guerra di potere – è sempre più vicino al baratro.

* Aurora Guainazzi, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

"Non si tratta più del Paese e della sua leadership, ma del popolo del Sud Sudan che sta lentamente morendo", afferma il vescovo Eduardo Hiiboro Kussala della diocesi di Tombura Yambio ribadendo che la situazione è disastrosa e richiede quindi un intervento urgente.

In una dichiarazione dell'8 marzo, citata dall'agenzia CISA, il vescovo Kussala, in qualità di presidente della Commissione per lo Sviluppo Umano Integrale della Conferenza Episcopale del Sudan e del Sud Sudan (SSSCBC), fa appello all'assistenza umanitaria della comunità internazionale, delle persone di buona volontà e delle reti Caritas per alleviare le sofferenze della popolazione del Sud Sudan, che, a suo dire, è “sull'orlo della miseria”.

Monsignor Eduardo Kussala ha precisato che la popolazione sta soffrendo a causa di emergenze e sfide complesse, tra cui la fame, le inondazioni, la siccità e l'insicurezza crescente in alcune parti del Paese, aggravata da un'economia fragile e prossima al collasso.

"Il nostro popolo continua a subire gli effetti di emergenze complesse che si stanno ancora verificando in molte parti del Paese, comprese quelle che in precedenza erano in una situazione considerata normale. Di conseguenza, il numero di sfollati interni che vivono in condizioni deplorevoli e muoiono di fame è aumentato enormemente in tutto il Paese, e i più colpiti sono le donne, i bambini, gli anziani e le persone con disabilità", sottolinea il vescovo.

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Mons. Eduardo Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio nel Sud Sudan. Foto: Vatican Media

"Quelli che vivono ancora nelle loro case rischiano di morire di fame, poiché la maggior parte di loro ha dovuto, abbandonare le proprie fonti di sostentamento nel tentativo di salvarsi la vita. La maggior parte dei bambini che frequentano la scuola ha dovuto abbandonarla a causa dell'insicurezza e della paura di essere reclutati con la forza per servire come soldati nei conflitti", osserva. Questa triste realtà ha portato a un aumento del numero di bambini non scolarizzati che si sono dati alla strada per sopravvivere.

"Non si tratta più del Paese e della sua leadership, ma del popolo del Sud Sudan che sta lentamente morendo. A meno che non venga protetto da questi disastri, temiamo che il nostro popolo non sopravviverà, soprattutto perché la maggior parte della popolazione (64%) è costituita da giovani indifesi che non hanno alcuna fonte di reddito, mentre la maggior parte del restante 36% è costituita da persone anziane. La situazione è disastrosa e necessita quindi di un intervento urgente", ha dichiarato.

"Esorto ciascuno di voi” afferma il vescovo della diocesi di Tombura Yambio facendo appelo alle grandi organizzazioni internazionali, “a usare questa opportunità per mettere in pratica le visioni e missioni proprie delle vostre organizzazioni che affermano come proprio compito di mitigare la sofferenza umana nel mondo. Pensate alla madre sud sudanese che vede morire il suo bambino a causa della malnutrizione causata dalla fame, al giovane che muore in ospedale perché non ci sono medicine per curarlo, alla bambina di 9 anni che, per un pezzo di 'bambe' (patata), è costretta a vendere il suo corpo, e all'anziana emaciata che giace all'interno del suo sgabuzzino ma che aspetta che la morte porti via la sua sofferenza",

Fonte: CISA

Fame, la grande domanda

  • , Mag 20, 2015
  • Pubblicato in Notizie

Perché 800 e più milioni di uomini soffrono la fame? È la grande domanda che molti si fanno, ma non c’è una risposta semplice e univoca. Nei miei numerosi viaggi in Paesi extra-europei ho visto quanto è difficile risolvere questa tragedia. Nel 1969 a Moroto, capitale della regione dei Karimojon nel nord dell’Uganda, nella vasta area cintata dei Comboniani si erano rifugiati più di mille indigeni, seduti per terra in attesa di avere acqua e cibo. Un anno di siccità e quasi senza raccolto, li aveva portati a soffrire fame e sete.

I pozzi della missione davano acqua e le riserve di mais e grano permettevano di sfamarli. Centinaia di uomini, donne e bambini scheletriti e sconvolti da dolori atroci, fino a non aver quasi più aspetto di persone umane. Ho pensato a Gesù crocifisso. Tutti quei miei fratelli e sorelle, quei bambini per i quali le mamme non avevano più latte, erano crocifissi e io mi sentivo impotente, quasi colpevole. Ricordo indimenticabile, vista anche in India, Bangladesh, Somalia, Namibia, Mozambico, Burkina Faso…. Pregavo e mi chiedevo: Perché, o Signore?

Due le cause del sottosviluppo africano. La prima è l’arretratezza dell’agricoltura e la corruzione delle elites locali. I Paesi poveri non producono abbastanza cibo.Il senegalese Jacques Diouf, segretario della Fao, nel 2008 affermava: “Servono circa 44 miliardi di dollari l’anno per sconfiggere la fame”. Ma poco prima avevo intervistato a Ouagadougou (capitale del Burkina Faso) l’arcivescovo card. Paul Zoungrana che diceva: “I soldi sono necessari, ma dati ad un popolo che non ha la mentalità e la capacità di produrre con tecniche nuove, non creano sviluppo ma corruzione”.

Infatti, molti Paesi africani hanno più del 50% di analfabeti, spendono il 2% del bilancio nazionale nell’agricoltura e il 20% nelle armi, ecc. In Africa sono aumentati gli abitanti (oltre un miliardo), ma in proporzione non la produzione agricola. Europa e Stati Uniti producono troppo cibo di base e le leggi limitano la produzione, ma l’Africa nera produce troppo poco cibo. I due motori dello sviluppo sono l’agricoltura e l’educazione.

Da mezzo secolo visito le missioni, il ritornello che spesso sento ripetere da missionari e volontari italiani tra i contadini meno istruiti è questo: “Qui si produce troppo poco per mantenere un Paese la cui popolazione aumenta rapidamente”.Il rapporto annuale della FAO del 2001 scriveva che l’Africa nera importa circa il 30% del cibo di base che consuma (riso, grano, mais). Ecco la mia significativa esperienza: a Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro (in Sardegna di più perché c’è più sole), nell’agricoltura africana a sud del Sahara (escluso il Sud Africa e in passato lo Zimbabwe) 5 quintali! La differenza tra 80 e 5 è l’abisso che c’è tra ricchi e poveri del mondo. E la minor produzione non è data dalla mancanza di macchine, ma dalla poca istruzione del contadino. Le campagne africane sono un cimitero di trattori che non funzionano, di pozzi da cui non si sa più tirar su l’acqua, di “progetti” fatti dall’Occidente, che i locali non hanno imparato a mantenere.

La seconda causa vede le responsabilità dell’Occidente cristiano, storiche e attuali, che sono certamente tante. Lo sviluppo dell’Europa viene da Gesù Cristo e dal Vangelo che hanno cambiato il cammino dell’uomo, con il precetto dell’amore al prossimo e del perdono e tanti valori nuovi: il monoteismo, la monogamia, tutti gli uomini creati ad immagine di Dio e la natura a servizio dell’uomo, i Dieci Comandamenti e la Beatitudini del Vangelo, la certezza che dopo la morte ci attende il giudizio di Dio e il Paradiso, ecc. Molti dicono che lo sviluppo viene invece dall’Illuminismo, ma l’ipotesi è ridicola. L’Europa era molto più avanti degli altri continenti già nel Medio Evo e poi nei secoli seguenti: i cristiani hanno colonizzato gli altri continenti e non viceversa. La colonizzazione ha aperto i popoli al mondo moderno, ma era fatta non per sviluppare i popoli, ma per arricchire l’Occidente.

La radice del sottosviluppo è storico-culturale-religiosa, prima che economica e tecnica. Nel Congresso di Berlino (1884-1885), le potenze europee si spartivano il continente nero. I popoli dell’Africa nera (senza lingue scritte), vivevano più o meno in un’epoca preistorica. Il ritardo storico è evidente e non è possibile che popoli interi (non le loro élites) abbiano potuto, in cento anni, cambiare radicalmente le loro culture e religioni e introdursi nel mondo moderno! Ecco la radicale colpa storica dell’Occidente! Luci e ombre che conosciamo. Lo schiavismo, con decine di milioni di africani portati nelle Americhe per lavorare da schiavi; la scarsa istruzione data ai locali: quasi ovunque in Africa le scuole (specialmente superiori) erano quelle dei missionari cattolici e protestanti. Quasi tutti i capi politici dell’Africa nera che hanno ottenuto l’indipendenza venivano dalle scuole missionarie! 

Ma anche dopo l’indipendenza negli anni sessanta, ancor oggi, l’Occidente continua a sfruttare quei popoli con un sistema economico ingiusto: prezzi delle materie prime che penalizzano le risorse dei poveri, corruzione delle classi dirigenti africane favorita dall’Occidente; la vendita di armi; il “land grabbing”, acquisto di terreni agricoli africani da parte dei Paesi ricchi per produrre cibo che viene esportato; il disboscamento delle foreste africane, la rapina di oro, diamanti, metalli preziosi, ecc. Perché “rapina”? Perché privano l’Africa di queste ricchezze e poi i dollari, lo sanno tutti, vengono divorati dalla corruzione delle classi dirigenti. All’inizio del 2000, la Nigeria aveva un debito esterno di 92 miliardi di dollari, ma i depositi delle élites nigeriane nelle banche occidentali erano pari a circa 130 miliardi!

L’Occidente materialista non capisce l’Africa, perché ignora i fattori culturali, educativi, religiosi dei popoli, che danno all’uomo la sua identità, il senso di appartenenza, le motivazioni per vivere e agire. Non mi è possibile entrare nei particolari, ma chi vive e lavora in Africa (come i missionari che danno la vita per i loro popoli) ritengono che le cause storico-culturali-religiose sono fondamentali per spiegare il mancato o il troppo lento sviluppo dell’Africa nera. Ma la culture europea le ignora o le considera ininfluenti . C’è un abisso fra cosa pensiamo noi europei degli africani, delle loro culture e religioni, e le realtà dell’Africa.

Ora bisogna chiedersi quali sono le nostre responsabilità attuali verso i fratelli africani? Cosa fare? Due punti:

1)La ferma convinzione che il maggior dono che possiamo fare all’Africa è l’annunzio di Cristo e del Vangelo. Nella “Redemptoris Missio” di Giovanni Paolo II (1990, l’ultima enciclica missionaria) si legge (n. 59): “Lo sviluppo dell’uomo viene da Dio, dal modello di Gesù uomo-Dio e deve portare a Dio. Ecco perché tra annunzio evangelico e promozione dell’uomo c’è una stretta connessione”. Alla radice del sottosviluppo ci sono mentalità, culture e religioni fondate su visioni inadeguate di Dio, dell’uomo e della donna, del creato. La santa Madre Teresa di Calcutta diceva: “La più grande disgrazia dell’India è di non conoscere Gesù Cristo”.

Nella “R.M.” si legge: “Il Vangelo è il primo contributo che la Chiesa può dare allo sviluppo dei popoli ….E’ l’uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La Chiesa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che non conoscono… il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (R.M. 58). Questa la realtà: fra i popoli arretrati: i cristiani, a parità di condizioni, si sviluppano prima e meglio di altri. Il cristiano ha questo ideale: non essere egoista ma altruista, imitare Gesù Cristo e i missionari che danno la vita per gli altri. Padre Giuseppe Fumagalli del Pime,  dal 1968 nella tribù dei Felupe in Guinea-Bissau, mi diceva: “Sono i cristiani che pensano al bene pubblico e non solo della propria famiglia e tribù: parlano di pace e portano la pace, tengono apèrte le strade in modo che la nostra auto-ambulanza possa andare in tutti i villaggi, combattono contro i capi-villaggio e gli anziani corrotti, danno l’esempio di famiglie monogamiche e di figli educati bene, accettano per primi le nuove tecniche dell’agricoltura,ecc.

2) Cosa posso fare per aiutare i poveri? Giovanni Paolo II risponde: “Contro la fame cambia la vita” (R.M. 59). Per essere fratello dei poveri, devo cambiare il mio “stile di vita”, secondo il comando di Gesù: “Il vostro superfluo datelo ai poveri” (Luc. 11,41). “Chi ha più ricevuto deve dare di più” diceva l’industriale Marcello Candia che ha venduto le sue fabbriche a Milano andando in Amazzonia a spendere la sua vita e i suoi capitali per i poveri.

Il cristiano deve testimoniare un “modello di sviluppo” alternativo. Cambiare la convinzione che sviluppo è uguale alla continua crescita economica e ricerca di un benessere più opulento, mentre è dare a tutti gli uomini il necessario alla vita. Ecco l’impegno politico del cristiano, convinto che Gesù e il suo Vangelo indicano l’ideale di una umanità nuova secondo le volontà di Dio e che la “Dottrina sociale della Chiesa” traduce al meglio cosa dicono il Vangelo e la Tradizione cristiana riguardo ai problemi dell’uomo. Però non bastano soldi e macchine, leggi e giustizia internazionale, ci vogliono persone, perché lo sviluppo è  problema di educazione, di formazione delle mentalità, di evoluzione delle culture, di condivisione.

Il nostro modello attuale è materialista, volto all’avere sempre di più, al migliorare il nostro livello di vita e di consumi. Impossibile, con questo ideale, essere fratelli dei poveri. Un giovane che crede in Cristo deve interrogarsi su cosa può fare nella vita. Se Dio ti chiama a dare tutto te stesso agli altri, specialmente ai più poveri e abbandonati, non dirgli di no: sappi che è bello fare il prete o la suora, perchè il Signore Gesù ti chiede sacrifici e rinunzie, ma ti dà il cento per uno di gioia e di realizzazione personale, già in questa vita e poi nella vita eterna in Paradiso.

Fonte: AsiaNews

 

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