A Cali, ma in quasi tutte le città dell’America Latina ci sono quartieri che nascono e crescono senza un piano di urbanizzazione e servizi pubblici essenziali. Sono espressione di povertà, urbanizzazione disordinata conseguenza in molti casi di processi violenti che producono intere famiglie o villaggi sfollati.
In Colombia e in molti Paesi dell'America Latina e del mondo, un gran numero di famiglie è costretto a lasciare la propria terra e a migrare verso le città, dove non ha altra scelta se non quella di occupare terreni in luoghi inadatti all'abitazione. Costruiscono le loro baracche in modo improvvisato, senza sapere quanto tempo rimarranno lì prima di essere rimosse dalle forze dell'ordine urbano, spesso l'unica presenza del potere pubblico a "visitarli".
Mentre cercano altri spazi vanno nelle strade e nelle piazze e si impegnano in una economia informale che è una semplice espressione di lotta per la sopravvivenza in contesti scandalosamente diseguali che scartano i più poveri e miserabili.
Purtroppo le rappresentazioni sociali che collegano la povertà alla criminalità generano comportamenti che rafforzano i pregiudizi e contribuiscono ad aumentare l'esclusione e la negazione di questa popolazione.
Quando manca una presenza pubblica, emerge l'autodeterminazione dei leader e gruppi che organizzano la convivenza. È quello che abbiamo potuto costatare in tre insediamenti nella periferia della città di Cali (Colombia), che abbiamo visitato accompagnati da agenti di Pastorale afroamericana.
Con loro abbiamo camminato per vicoli, calpestando fango o terreno polveroso e superando come potevamo le macerie e i detriti edili scaricati sui pendii. Così abbiamo raggiunto il quartiere "Valladito" dove abbiamo incontrato Joana, una leader locale che, con il sostegno della pastorale sociale e afro dell'arcidiocesi di Cali, ha consegnato cesti di beni di prima necessità alle madri.
Abbiamo potuto conoscere la “mensa dei poveri", un vero miracolo di condivisione e solidarietà: una cucina comunitaria nella quale alcune signore preparano il cibo con gli ingredienti forniti dalla diocesi e con i quali si sostengono soprattutto le donne e i bambini di Valladito e Mojica.
Le sfide sono enormi, ma c'è tanta arte e musica, colori e vita, sapori e conoscenza. "L'arte parla dove le parole non riescono a spiegare" recita un mural a Valladito.
Malgrado tanta povertà, ben visibile, non dobbiamo dimenticare che tutto contribuisce alla promozione umana integrale, al recupero dell'identità culturale, all'emancipazione delle donne, allo sviluppo dei talenti e alla condivisione delle conoscenze.
In questo luogo, invisibile alla società, l'unica consolazione è la gioia e la forza che è nel sangue della popolazione afro, perché la vita non è facile lì ed è necessario lottare per sopravvivere.
In questo contesto si sviluppa l'impegno della pastorale afro dei Missionari della Consolata nella città di Cali e, in modo analogo, anche in quella di Buenaventura, sulla costa del Pacifico, a meno di due ore da questa. Nella zona, le urbanizzazione disordinate e abusive continuano a crescere con l'arrivo di sempre nuove famiglie e l'insufficiente o cattiva alimentazione, la mancanza di alloggi decenti e di servizi igienici di base rendono i bambini, gli anziani e le donne più vulnerabili e soggetti alle malattie.
È una risposta concreta ed evangelica all'opzione dell'Istituto per le periferie urbane ed esistenziali.
* Jaime C. Patias, IMC, è consigliere generale per l'America.
La nomina di Francia Márquez come vicepresidente della Colombia rappresenta un momento importante per il popolo afrodiscendente del paese e di tutto il continente. Francia è la prima donna di colore a diventare vicepresidente del suo Paese, la seconda in America Latina e la terza nel continente dopo Epsy Alejandra Campbell Barr, in Costa Rica, e Kamala Devi Harris, negli Stati Uniti. Pochi giorni dopo l’ingresso ufficiale del nuovo esecutivo, che si è tenuto a Bogotà il 7 agosto, Francia è stata protagonista di un nuovo ingresso, più di carattere culturale, nel quale ha ricevuto il bastone che rappresenta l’autorità ancestrale afro americana.
Il luogo di questa celebrazione è stato il centro sportivo municipale del municipio di Suárez (al sud occidente del paese, nella regione del Cauca), luogo dove è nata la nuova vicepresidente colombiana. Erano presenti diversi sindaci dei comuni vicini, il governatore della provincia e delegazioni di organizzazioni sociali, indigena, afro e contadine oltre che parenti e amici.
Al centro dell’arena del campo sportivo era stata preparata la Mandala, lo spazio sacro e il luogo della spiritualità: un cerchio fatto di semi di riso, mais e fagioli, che rappresentava Mesoamerica; le lenticchie come simbolo di prosperità dell'universo arabo; il sale come simbolo di incorruttibilità e buon governo. Nella parte centrale della Mandala tutta la frutta che rappresenta la ricchezza di questa terra: avocado, pannocchie, papaie, arance, zapote, frutti della passione, banane e platani e un grande tamburo, un Yembé, simbolo di tutti i tamburi e del legame ancestrale con l'Africa. Su di lui un vaso di terracotta che ricordava le parole di San Paolo: “abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2 Cor 4,7).
Padre Venanzio Mwangi, Missionario della Consolata e delegato della Pastorale Afro dell’Archidiocesi di Cali, accompagnato da diversi agenti pastorali, ha presieduto questo momento di spiritualità.
padre Venancio benedice Francia Márquez
Dopo aver introdotto solennemente Francia Márquez al centro del Mandala, Padre Venancio ha spiegato che quest’atto è un atto simbolico, spirituale e ancestrale nel quale si vuole evocare la memoria delle eroine e degli eroi che hanno attraversato la storia e il dolore del popolo afro: Wiwa, Benkos Biojó, Juan José Nieto, la guerriera Casilda Cundumí, Nelson Mandela.
Ha poi ricordato una frase che appartiene alla saggezza africana: "Io sono perché noi siamo". Nel ruolo protagonista di Francia Márquez sono comprese persone, terra, acqua, aria, fuoco, vento e memoria. “Oggi siamo ciò che siamo grazie alla lotta e alla resistenza dei nostri antenati, che si incarnano nella persona di Francia”.
Nel rituale si è ringraziato l'Essere Supremo, il Datore di vita, e al popolo che ha visto crescere Francia Márquez. Si è chiesto alla Madre Terra di ascoltare il grido di un popolo con troppi "solchi di dolore", lei è testimone privilegiata di tanto spargimento di sangue, lei stessa è vittima quando viene disboscata e destabilizzata a beneficio di pochi.
Per mezzo di questo rituale sono stati compiuti i primi passi per guarire e riconciliarsi con la natura ferita e si è chiesto di dare alla vicepresidente la forza per "curare altre ferite e per aprire strade di libertà per tutti i popoli".
L'acqua del fiume Ovejas, che attraversa il villaggio di Yolombó dove Francia Márquez è nata e cresciuta, è stata versata a terra come offerta di pace e impegno e lo stesso è stato fatto con semi provenienti da vari luoghi della regione.
Per concludere, al suono di tutti i tamburi presenti, è stato consegnato alla Vicepresidente un bastone come simbolo dell’autorità ottenuta. Intagliata nel legno, nella parte superiore, una figura di una donna con una grande treccia che porta incrostati semi di senape. La figura femminile è seduta su un trono, che è raffigurato da uno sgabello di origine africana. che si appoggia a sua volta su una canoa carica di grani d'oro e dipinta con i colori del panafricanismo. Sotto la barca un tamburo che rappresenta la voce di chi non ha voce, e più in basso un “chumbe”, tessuto caratteristico dei popoli indigeni, che rappresenta la storia di tutti loro tutti i popoli originari alla ricerca della solidità e armonia. Nell’estremo inferiore c'è una gonna che rivela i piedi di una camminatrice.
I semi di senape, incastonati nella parte superiore del bastone, sono un primo riferimento biblico, che descrive il Regno di Dio: piccolo ma è chiamato a crescere per dare rifugio a tutti gli uccelli del cielo (cfr. Mt 13,32). Sull’altro estremo, i piedi della camminatrice ricordano il profeta Isaia: "è bello vedere i piedi del Messaggero di pace che scendono dalla montagna" (52,7). Padre Venancio ha unto il bastone con olio e lo ha consacrato come segno di protezione e saggezza, affinché il vicepresidente sappia guidare la Colombia sui sentieri della pace.
L'evento è culminato con lo slogan "finché la dignità non diventerà una consuetudine", così sia!
"Ve l’ho detto e ve lo ripeto: io non mi attendo che questa sia la casa dei miracoli, piuttosto voglio che facciate il miracolo di adempire sempre bene il vostro dovere, vincendo voi stessi. Di miserie ne abbiamo tutti un sacchetto se non un sacco” (G. Allamano, VS 359)
Ogni volta che c'è un cambio di governo, tanto nel paese, come è accaduto in Colombia lo scorso 19 giugno, come nell’Istituto con l'elezione della nuova Direzione Regionale, si generano aspettative, incertezze, timori e speranze.
Il fatto che per la prima volta nel nostro Paese sia stato eletto un candidato che rappresenta una corrente politica di sinistra è davvero una novità e un evento storico. Indubbiamente il presidente Gustavo Petro e la vicepresidente Francia Márquez rappresentano un cambiamento nel modo in cui questa nazione è stata governata da partiti politici tradizionali per la maggior parte della sua esistenza repubblicana. Almeno questo è ciò che loro stessi hanno proclamato in tutta la campagna presidenziale. Sebbene alcuni settori della società abbiano espresso molti timori sul fatto che questo nuovo governo genererà abusi e persecuzioni nei confronti di certe persone e gruppi economici, la società colombiana in generale non smette di sperare che i cambiamenti previsti saranno per il bene della maggioranza. Anche se vari stanno già prevedendo che si tratta di un sogno idilliaco e che tra pochi mesi si tornerà agli affari di sempre, noi in ogni caso non perdiamo la speranza: come qualcuno ha detto: “Se Petro fa bene, facciamo bene tutti”.
Anche nel nostro Istituto c'è stato anche un cambiamento nella Direzione Regionale. Non è un caso che ciò avvenga in un momento in cui la Chiesa è chiamata a un cammino sinodale, che vuole essere soprattutto un cammino di conversione, fatto con l'impegno di tutti e bisognoso di molta pazienza perché si tratta di “camminare insieme” per testimoniare il Regno.
Il servizio affidato alla nuova Direzione Regionale è proprio quello di promuovere e prendere la guida del cammino che facciamo come Regione, offrendo a ciascuno la possibilità di esprimere la propria opinione e di sentirsi protagonista nel compito che svolgiamo di annunciare il Regno con l'impronta del nostro carisma di consolazione. È vero, non mancano paure, dubbi, incertezze ma non può mancare la speranza che, come Regione, continueremo a crescere nella nostra identità e nel nostro lavoro di Missionari della Consolata.
Sappiamo che abbiamo molte sfide e cose da fare davanti a noi, e forse questa è l'occasione per confidare ancora di più nella Grazia e nella Provvidenza Divina, nei doni e nelle potenzialità che il Signore ha messo in ognuno di noi e nell'Istituto per continuare a rispondere alla vocazione "ad gentes" a cui siamo stati chiamati. Non saremo probabilmente in grado di fare grandi cambi o inedite proposte di trasformazione, ma siamo anche certi che, come dice il nostro Beato Fondatore, “abbiamo molte miserie, ma dalle miserie si possono fare miracoli”.
* Juan Pablo de los Rios è Superiore Regionale in Colombia
Padre Clovis Audet, Missionario della Consolata, è nato nel 1935 in Quebec (Canada); ha emesso la prima professione religiosa nel 1959 ed è stato ordinato sacerdote nel 1963. La sua vocazione missionaria l’ha portato a lavorare 22 anni in Colombia; altri 17 in Africa (fra Costa d'Avorio e Congo) e poi, inarrestabile, in anni recenti ha raggiunto il Messico dove si trova tutt’oggi. Un mese fa ha pubblicato in Canadà il suo libro di memorie “Qui m’a appelé. Une vie missionnarie” (Chi mi ha chiamato. Una vita missionaria). Pubblichiamo un estratto del prefazio di questo libro, firmato dal padre Stefano Camerlengo, superiore Generale dei Missionari della Consolata, che fa una lettura del significato della missione nella vita di un missionario.
Molte volte mi sono domandato come la mia esperienza missionaria abbia influito sul mio modo di percepire gli altri, sul mio rapporto con il mondo delle cose, sulla mia relazione con Dio. Detto in altro modo: quali percorsi mi hanno condotto a essere quello che sono? In quale modo i contatti con gente di diversa cultura e sensibilità mi hanno cambiato? In che modo la vita in comune con confratelli, segnati da esperienze positive ma anche tragiche, mi ha cambiato? Come situazioni dense e difficili hanno affinato la mia sensibilità missionaria?
Nel racconto che fa padre Clovis della sua vita e missione ho trovato risposte interessante a queste domande. Leggendo il suo racconto conosciamo la missione non come qualcosa di perfetto e stupendamente unico, ma come un camminare passo dopo passo con l’umiltà di quello che siamo, la voglia di non mollare, il desiderio di andare avanti.
Raccontare la missione non è allora solo riportare fatti e problematiche missionarie e non si tratta nemmeno di esporre "criteri missionari" che forse solleticano la mente ma non il cuore. Raccontare la missione è soprattutto "ricordare" gli eventi fondanti che hanno segnato la vita, nel senso più ampio del termine e nei quali ci siamo sentiti accarezzati dalla mano invisibile di Dio. Lo ricorda anche il Papa Francesco quando dice che solo grazie all'incontro con l'amore di Dio siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall'autoreferenzialità; solo quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi, giungiamo ad essere pienamente umani oltre che disposti ad annunciare l'amore che ridona valore alla nostra stessa vita. (cf EG 8)
Il padre Clovis in una foto recente, con un carissimo amico dei Missionari della Consolata: Jacques Pelletier
Nel libro di padre Clovis mi sembra si possano identificare tre tipi di eventi che sono quasi paradigmatici e diventano insegnamento perché esprimono le costanti, gli atteggiamenti e le dimensioni fondamentali del nostro vivere la missione.
1. La narrazione dei dettagli della sua vocazione e del suo impegno missionario: i posti dove ha vissuto, le persone con cui ha condiviso. Nel suo suo racconto si mettono in evidenza azioni che, per quanto apparentemente insignificanti, innescano trasformazioni e mettono in movimento persone che, a loro volta, diventano strumenti di cambio. Le situazioni e le persone che si intrecciano con la missione di tutti i giorni, e la fanno crescere nella dimensione dell’annuncio, descrivono perfettamente la missione che non ci appartiene mai pienamente perché è di Dio.
2. La narrazione delle sconfitte, gli sbagli, le difficoltà. Questa è pure missione! Questa è la difficile strada della vita, e lui la presenta così com’è senza camuffare o barare! Ecco allora un richiamo a ritornare all’essenziale, a “Colui che ci ha chiamati". Anche la tragedia, le sconfitte, la perdita, l’annullamento delle nostre certezze mondane diventano appello alla conversione, si trasformano in eventi fondanti che ci riportano alle radici della nostra identità e missione.
3. La narrazione delle tensioni, dei cambi, dei problemi, dei conflitti. Anche tutto questo fa parte della missione, del camminare lento e quotidiano alla ricerca del meglio che sta sempre più avanti.
Il conflitto non si dissimula; tanto meno vi si rimane prigionieri gettando sugli altri le proprie “confusioni e insoddisfazioni”; semplicemente si accetta, si risolve, ci trasforma. Va affrontato nell’orizzonte della propria identità carismatica e missionaria e a partire dal criterio dell’accettazione dell'altro. Così le occasioni di conflitto sono trasformate in potenzialità a vantaggio della missione.
Il libro di padre Clovis chiede a tutti noi, nessuno escluso, di far fruttare questo talento: fare della comunicazione, del racconto, uno strumento per costruire ponti, per condividere la bellezza dell'essere fratelli in un tempo segnato da contrasti e divisioni. I primi destinatari di un messaggio così impegnativo siamo noi, Missionari della Consolata come lui.
* p. Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata.
Clovis bambino e la sorella Rita nella terra di famiglia a Maria, suo paese natale.
Mons. Luis Augusto Castro Quiroga, colombiano, missionario della Consolata, arcivescovo emerito della città di Tunja, è morto in una clinica di Chía, vicino a Bogotá, dove era ricoverato da venerdì scorso. Una figura nota in tutta la Colombia per il suo impegno sociale e la sua ferma leadership a favore della pace nel Paese. Con la sua narrazione ha fatto della missione, intesa in molti modi, un modo gentile e coinvolgente di essere in contatto con il mondo intero. Aveva 80 anni. "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9).
Mons. Luis Augusto è stato prima di tutto un uomo con una profonda sensibilità umana che ha amato l'umanità e la Chiesa, lavorando sempre per adempiere al comando del Signore: "Andate in tutto il mondo e proclamate la Buona Novella a tutta la creazione" (Mc 16,15). Importanti e significativi sono stati i suoi contributi nel campo della missionologia, che come educatore ha saputo far conoscere con una serie di pubblicazioni e scritti, piacevoli e di facile lettura, che sono costantemente usciti dalla sua penna e nei quali traspariva il suo buon umore e la sua sagacia. Ricordando la sua nomina a vescovo ha scritto: "È un fatto assodato che se si chiede a un santo se vuole essere un vescovo, dice subito di no. Quando mi è stato chiesto se volevo diventare vescovo, ho risposto subito di sì".
Oltre a essere un prolifico narratore e autore di numerosi libri, ha promosso la musica, l'arte e i media: a Tunja ha fondato un giornale e un canale televisivo. Si è occupato molto dell'educazione dei leader laici, dei seminaristi e del clero e con il suo carisma ha promosso la fondazione di più di un centro di istruzione superiore.
Eppure, nelle chiese in cui ha prestato servizio, ma anche al di fuori di esse e in gran parte della società civile colombiana, Mons. Castro sarà ricordato come un artigiano della pace determinato, perseverante, insistente e caparbio. L'ha seminata, difesa, sostenuta aprendo continuamente spazi di dialogo e negoziazione.
Come vescovo di San Vicente del Caguán e Puerto Leguizamo, un territorio dove il conflitto e la violenza erano pane quotidiano, nel 1997 ha svolto un ruolo chiave nell'assicurare il rilascio di 60 soldati rapiti dai guerriglieri delle FARC.
Dal 2005 al 2016 è stato presidente della Commissione Nazionale di Riconciliazione e in questo periodo è stato per due volte presidente della Conferenza Episcopale: ha promosso tutte le occasioni di dialogo, ha mediato nella liberazione di vari ostaggi, ha presenziato ai colloqui dell'Avana tra il governo e le FARC senza smettere di incoraggiare e guidare le parti in dialogo, e si è fatto garante del rispetto degli impegni presi. Ha potuto vedere questa pace sbocciare e portare i primi frutti. Gran parte della sua eredità sarà ciò che la Colombia farà con questo immenso dono, frutto di una costruzione collettiva e comunitaria, in cui ha svolto un ruolo importante.
In un'intervista concessa a Telesantiago, in occasione del suo addio alla diocesi di Tunja, egli stesso, e come sempre a modo suo, ha fatto questa sintesi della sua vita e del suo ministero sacerdotale ed episcopale: "Oggi c'è un numero che mi gira in testa ed è l'85. Ottantacinque sono stati i sacerdoti ordinati a Tunja formati nel nostro seminario diocesano e altrettanti sono stati gli ostaggi che sono riuscito a liberare dalle mani dei guerriglieri, non a Tunja ma a San Vicente del Caguán. Due numeretti uguali che indicano due compiti molto diversi ma positivi. A questo punto della mia vita mi piace ricordarli entrambi".
Intervista di Paolo Moiola a porposito del conflitto in Colombia (2017)
Luis Augusto Castro è nato a Bogotá, la capitale della Colombia, l'8 aprile del 1942. Ha studiato presso il Collegio San Bernardo dei Fratelli Lasalliani e poi presso il seminario minore dei Missionari della Consolata.
Nella sua formazione come Missionario della Consolata ha studiato filosofia presso la Pontificia Università Javeriana di Bogotá; fatto il noviziato a Bedizzole e gli studi di teologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Ha emesso i voti perpetui il 10 marzo 1967 ed è stato ordinato sacerdote a Roma il 24 dicembre dello stesso anno.
Già come sacerdote missionario si è specializzato in counselling all'Università di Pittsburgh e ha ottenuto il dottorato in teologia nella università Javeriana di Bogotá.
Come sacerdote ha ricoperto vari incarichi: viceparroco nella Cattedrale di Florencia (Caquetá, Colombia) e rettore dell'Università dell'Amazzonia nella stessa città (1973-1975); direttore del seminario maggiore di filosofia dei Missionari della Consolata a Bogotá e, allo stesso tempo, consigliere provinciale (1975-1978); superiore regionale della IMC in Colombia (1978-1981).
Dal 1981 al 1986 ha fatto parte del Consiglio Generale dei Missionari della Consolata a Roma.
Il 17 ottobre 1986, Papa Giovanni Paolo II lo ha nominato ordinario del Vicariato Apostolico di San Vicente-Puerto Leguízamo. La sua consacrazione episcopale ha avuto luogo nella Cattedrale Metropolitana di Bogotá il 29 novembre dello stesso anno ed è stata presieduta dai vescovi Angelo Acerbi, Nunzio Apostolico in Colombia; Mario Revollo Bravo, Arcivescovo di Bogotá; José Luis Serna Alzate, vescovo di Florencia e anch'egli Missionario della Consolata.
Mons. castro è stato alla guida del vicariato di san Vicente per dodici anni poi, il 2 febbraio 1998, è stato nominato alla sede metropolitana di Tunja dove è rimasto fino alle sue dimissioni per raggiunti limiti di età che sono state accolte da papa Francesco l’11 febbraio del 2020.
In questi anni è stato vicepresidente della Conferenza episcopale colombiana dal luglio 2002 al luglio 2005 e poi presidente fino al luglio 2008. In questa veste nel 2007 ha partecipato alla Quinta Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano celebrato in Aparecida (Brasile). Ha avuto un secondo mandato come presidente della conferenza Episcopale nel triennio 2014-2017
* Con informazioni provenienti da vari media.
Mons. Luis Augusto Castro durante la celebrazione della festa di Nostra Signora Consolata, il 20 giugno 2022, nella parrocchia del quartiere Vergel, a Bogotà. Foto: Archivio IMC Colombia