In questi giorni è stato con noi, nella Casa Generalizia dei Missionari della Consolata, monsignor Ismael Rueda Sierra, arcivescovo di Bucaramanga. Amico personale di Luis José Rueda Aparicio –arcivescovo di Bogotá e creato cardinale nell’ultimo concistoro convocato da papa Francesco lo scorso 30 settembre– ha voluto essergli vicino nei giorni del concistoro ma ha approfittato della presenza in Roma anche per sbrigare alcune pratiche presso le congregazioni vaticane e una riguardava da vicino i Missionari della Consolata che da anni lavorano nella sua diocesi. Un giorno prima di ritornare in Colombia ci ha dato la notizia di aver ricevuto dal Dicastero del Culto Divino l'autorizzazione a dedicare al Beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, una nuova parrocchia. Gli abbiamo chiesto di raccontarci per che motivo aveva fatto questa richiesta alla congregazione romana.
–Quante parrocchie ha Bucaramanga?
–Sono centodieci in totale, questa sarà la centoundicesima. Un numero curioso e significativo!
E la verità è che sono molto felice che nella nostra diocesi ci sia una parrocchia dedicata al Beato Giuseppe Allamano.
Per ottenere il permesso è stato necessario fare un processo abbastanza elaborato; quelli del Dicastero del Culto Divino mi hanno fatto capire che è una cosa insolita, in una chiesa locale, dedicare una parrocchia a un santo, in questo caso un beato, senza che la sua memoria sia presente nel calendario liturgico diocesano.
Tuttavia, nel caso del Beato Giuseppe Allamano mi è sembrato importante, come ho scritto nel decreto di indulto, perché "l'Istituto dei Missionari della Consolata è presente nella nostra Chiesa particolare da oltre 60 anni con una meritoria influenza apostolica e missionaria che ha generato la fondazione di diverse parrocchie nei suoi dintorni, Riteniamo giusto e spiritualmente opportuno che quest'ultima sia intitolata al loro Beato Fondatore".
– Qual è stato il lavoro dei Missionari della Consolata in tutti questi anni?
– Si occupavano della cura delle comunità cristiane in un settore che all'epoca era periferico e nelle vicinanze del vecchio aeroporto della città che si chiamava Gómez Niño. In questo settore la città ha avuto un notevole sviluppo urbanistico e. come spiego nel documento presentato in Vaticano, dalla vecchia parrocchia della Consolata sono nate diverse parrocchie. Oggi abbiamo una intera zona pastorale che porta il nome di Nostra Signora della Consolata e dietro c'è tutto il lavoro dei missionari che hanno servito nella parrocchia madre di tutte, quella della Consolata. È stato notevole l'impegno che hanno messo nella creazione e nella formazione di comunità cristiane e l'influenza positiva e missionaria che hanno avuto nell'arcidiocesi.
–E nel caso del quartiere di Monterredondo?
–Bucaramanga è costruita su un altopiano che termina in zone scoscese che sembrano avere la forma di dita... La nuova parrocchia si trova su una di queste dita, quella precisamente del quartiere di Monterredondo. Quel settore, che non ha altre possibilità di estendersi a motivo della sua geografia, attualmente ha circa 5000 abitanti, ma lì succede qualcosa che abbiamo visto in altre parti della città: dove prima c'erano case familiari, ora si stanno costruendo condomini. Quindi, a medio termine, è facile prevedere un aumento significativo della popolazione.
Questo giustifica la presenza di una parrocchia. Dopo che mi è stato presentato il progetto, ho chiesto al Vicario giudiziale, che si occupa dei confini, di determinare il perimetro della nuova giurisdizione e lui lo ha fatto. Pensate un po'! Oggi si fa con il GPS, non indicando strade o avvallamenti come si faceva prima! Ad ogni modo il limite territoriale non è così importante come il lavoro di evangelizzazione che è stato fatto: questa parrocchia è nata quasi adulta. Ha già una chiesa, una casa parrocchiale con opportuni spazi di catechesi e, la cosa più importante, è già composta da comunità cristiane organizzate e consapevoli della loro vocazione missionaria e del loro impegno. Questo lavoro lo dobbiamo ai missionari della parrocchia della Consolata, in particolare al padre Manuel Dias, che per anni ha accompagnato da vicino questo sviluppo comunitario e pastorale, con una presenza che è stata costante, permanente e silenziosa ma allo stesso tempo efficace e ben mirata.
–E l'Allamano, perché?
–Ho visto la statua del vostro Fondatore nel cortile della Casa Generalizia: è raffigurato in abito talare! Lui era un sacerdote diocesano, ma con un grandissimo cuore missionario, attento non solo alle esigenze della sua Chiesa locale, ma anche a quelle della Chiesa universale.
Lo stile dei Missionari della Consolata, attento alle dinamiche pastorali della Chiesa locale, è stato un grande contributo anche per i sacerdoti diocesani e coerente con gli orientamenti che Papa Francesco sta dando. È bello che i sacerdoti diocesani si interessino e offrano parte del loro tempo e della loro vita per la missione "ad gentes".
La missione è un'esperienza preziosa e non solo per chi ci va. È una occasione per vedere la chiesa che nasce mossa dall’annuncio ma allo stesso tempo è una sfida per niente facile. Quando abbiamo come tabella di marcia della nostra vita l'annuncio del Vangelo di Gesù non sappiamo mai quali sorprese ci aspettano lungo il cammino: dobbiamo essere preparati a tutto e dobbiamo avere fiducia nello Spirito Santo che alla fine è colui che conduce e guida tutto. Questo è ciò che la missione ci insegna molto chiaramente.
Nel 2016 abbiamo celebrato a Bucaramanga il dodicesimo congresso missionario nazionale; in quell'occasione è nato l'impegno delle arcidiocesi nei confronti dei vicariati apostolici e a noi è stato assegnato il vicariato di Puerto Leguízamo. Considero una benedizione e un privilegio il fatto che questo Vicariato, che è anche affidato alla cura dei Missionari della Consolata, si trovi nel contesto amazzonico. Dopo il Sinodo dell'Amazzonia e la Laudato Si', tutto questo mondo, prima percepito come marginale, è stato messo al centro dell'impegno ecclesiale e ora anche ecologico della Chiesa. Questa presenza in Amazzonia è una proiezione missionaria di prima grandezza che la Chiesa offre alle nostre comunità cristiane locali per incoraggiarle nel loro impegno.
Dedicando una parrocchia a Giuseppe Allamano riconosciamo che lo spirito missionario, che il Signore ha seminato nel cuore di questo sacerdote diocesano, ha prodotto molti frutti. La parrocchia numero cento undici dell'arcidiocesi di Bucaramanga potrebbe forse essere considerata un frutto molto piccolo, ma in realtà la spiritualità missionaria che l'ha generata e che, da lì, dovrebbe diffondersi, sta proiettando la nostra chiesa diocesana e locale negli orizzonti più recenti e attuali della Chiesa universale.
Nel nostro bel municipio di La Ceja (Antioquia, Colombia) gli sposi Alessando Narváez e Margherita Aguirre hanno dato alla chiesa e alla missione due dei loro figli: Magdalena e Guillermo. I loro genitori erano contadini di umili origini ma dotati di una grande ricchezza morale e spirituale. Per quello hanno dato ai loro dieci figli esempi di vita, amore e coraggio di fronte alla sofferenza.
Suor Magdalena è nata l’otto di dicembre del 1930. Aveva 19 anni quando è entrata a far parte della comunità delle Missionarie della madre Laura Montoya, oggi Santa Laura, della quale divenne alunna un anno prima alla sua morte. Fece la sua professione religiosa il primo gennaio del 1949 e da allora, impegnandosi come educatrice per larghi anni, è stata inviata a lavorare in luoghi davvero difficili con i suoi amati indigeni. Nel suo lavoro missionario ha dimostrato sempre lo stesso coraggio e la stessa allegria che aveva imparato dalla sua fondatrice.
Il padre Guillermo, 14 anni più giovane della sorella, è nato il sette di luglio del 1944 e, negli anni della sua infanzia, è sempre stato un fedele collaboratore dei genitori nei lavori della casa; poi, grazie alla loro testimonianza e quella della sorella, è nato in lui il desiderio di diventare missionario.
Aveva solo 13 anni quando è entrato nella comunità dei Missionari della Consolata: si è diplomato a Bogotá e nella stessa città ha fatto gli studi di filosofia al termine dei quali ha raggiunto in Italia prima il noviziato e poi il seminario teologico.
Fu ordinato diacono in Italia e poco dopo, tornato in Colombia, sacerdote. Era il 12 agosto de 1973 –da allora sono passari 50 anni– e venne ordinato dal vescovo diocesano di Sonson Rionegro Alfonso Uribe Jaramillo. Dopo l’ordinazione fu destinato prima come formatore nel nostro seminario minore della città di Manizales e poi, pochi anni dopo, parroco e rettore del collegio di una parrocchia del Caquetá.
Quegli otto anni vissuti nella regione amazzonica della Colombia gli hanno permesso scoprire la bellezza della sua vocazione missionaria che, nel suo cuore sacerdotale, divenne fonte di immensa allegria.
Dopo quegli anni intensi divenne per vent’anni animatore missionario e vocazionale. Furono gli anni in cui ebbe l’occasione di avvicinarsi a tanti giovani, condividere con loro la sua passione missionaria, e invitarli a formare parte della nostra comunità. Ha svolto questo servizio nelle città di Bogotá, Bucaramanga, Manizales e Medellín.
Attualmente, dopo una breve esperienza come amministratore, si trova nella comunità di Medellín con sette giovani, tutti originari del continente africano, che si stanno formando per essere sacerdoti e missionari della Consolata.
A motivo della poca salute non si è mai allontanato dalla sua Colombia, ma nel suo cuore conserva il fuoco della missione... se ne sono accorte le persone che hanno avuto la fortuna di incontrarlo sempre dedito al suo lavoro sacerdotale e missionario.
Malgrado tante malattie e interventi chirurgici non ha mai smesso di essere un camminatore, annunciando il vangelo e la consolazione della vergine Maria, regina delle Missioni.
Ho incontrato, a San Luis (La Unión, Colombia), un giovane indigeno che viveva, studiava e lavorava, insieme ad altri giovani del popolo Embera Chami, nella comunità dei padri Carlos Zuluaga e Javier Velásquez, missionari della Consolata, al servizio della Pastorale indigena della diocesi di Cartago.
Ho saputo che si era laureato come infermiere all'Università di Pereira e che, a differenza di molti altri professionisti che grazie agli studi cercano di allontanarsi dal loro contesto, Carlos si è dedicato a vivere in mezzo alla sua gente, mettendo la sua professione al servizio della salute e del benessere della sua stessa gente, soprattutto i più fragili e bisognosi che, nel suo caso, sono i bambini fra zero e cinque anni. Un servizio educativo, di promozione e prevenzione delle malattie, realizzato nella lingua madre e nel pieno rispetto della cultura.
Un giorno gli chiesi:
– Quando ci scriverai un paio di paginette che descrivono la salute nel mondo indigeno?
Poco tempo dopo ho ricevuto la sua risposta:
“Le comunità indigene sono sopravvissute per molti anni grazie ai loro processi organizzativi e anche la salute fa parte di tutto questo cammino. Nell’ambito della salute le comunità indigene hanno rafforzato e salvato gran parte della loro medicina tradizionale, che hanno saputo integrare con quanto offerto dai servizi pubblici a favore della prima infanzia.
L'obiettivo è accompagnare i bambini nei loro processi di sviluppo e apprendimento senza separarli dal contesto culturale in cui sono nati; per questo abbiamo avuto bisogno di professionisti in diversi ambiti: nutrizionisti, psicologi, educatori, sociologi e professionali della salute che lavorano insieme e sempre con un approccio differenziato e attento alla realtà del popolo Embera Chami.
Nel mio caso, ho coordinato un programma statale, attraverso l'Istituto Colombiano del Benessere Familiare, finalizzato all'educazione e alla prevenzione sanitaria nelle famiglie con bambini di età inferiore ai cinque anni.
Il contesto non è facile. Come conseguenza del conflitto armato, le comunità indigene sono state spesso sfollate, hanno abbandonato i loro territori originari e si sono trasferite nelle aree urbane. La maggior parte dei destinatari del nostro lavoro educativo appartiene a questa popolazione di vittime espropriata dei propri territori. L’assistenza sanitaria e psicosociale è molto necessaria soprattutto per i bambini che vivono proiettati in un territorio sconosciuto, il più delle volte urbano, dove interagiscono con diversi contesti culturali e senza avere gli strumenti per farlo, né loro e nemmeno le loro famiglie.
Siamo stati accolti bene anche dalla Pastorale Sociale e dalla Pastorale Indigenista, e dai molti volontari laici con i quali loro lavorano, e insieme abbiamo fatto in modo che i bambini fossero puntuali ai programmi di vaccinazione, partecipassero agli appuntamenti per la crescita e lo sviluppo e a tutti i programmi a favore della salute e dell'educazione iniziale.
Questo è il lavoro che faccio, Padre: continuare ad accompagnare perché i bambini non muoiano e non scompaia la cultura del popolo con le sue tradizioni e la sua storia.
In questo momento, per esempio, ci stiamo rendendo conto che molta tradizione orale si sta perdendo con la morte di molti anziani che conoscevano tutti i processi nei territori. Per questo diventa importante anche scrivere tutto, e questo è un altro compito che resta a noi giovani".
La visita è una componente della nostra esperienza umana, un fatto antropologico che assume caratteristiche particolari in ogni tempo e luogo, a seconda delle culture, dei popoli e delle società, diventando così un fatto culturale.
Nella Bibbia Dio è spesso presentato come colui che visita e consola il suo popolo con buone notizie di liberazione e di pace. Gesù è la migliore espressione della visita di Dio all'umanità, e dopo di lui seguono le visite dei suoi discepoli missionari, inviati fino ai confini della terra e alla fine dei tempi.
Anche nel Vicariato di Puerto Leguízamo Solano, nei territori amazzonici del Caquetá e Putumayo (Colombia) e ai confini con l'Ecuador e il Perù, la visita è una parte importante dell’impegno pastorale di Mons. Joaquín Pinzón e tutti i missionari che lo accompagnano, fa parte della loro quotidianità missionaria.
Il giovane seminarista Alfredo Cortés ha voluto raccontare la visita a Puerto Refugio, territorio indigena ed ancestrale del Putumayo, per mezzo di tre doni –tre sacramenti– che sono stati motivo di festa per la comunità cristiana di questo territorio: il battesimo, la comunione e la cresima.
Il dono del battesimo che è frutto della fede. "Sono stati celebrati tre battesimi e, per mezzo di questo sacramento, tre vite che sono state consacrate a Dio. I genitori sono incoraggiati a continuare i progetti di Colui che ha voluto abitare nei loro piccoli cuori".
Il dono della comunione che consolida la comunità. "Dieci erano coloro che diventavano una cosa sola con Gesù ricevendo il suo Corpo e il suo Sangue. Dopo la messa anche la tavola è stata imbandita e tutti abbiamo assaportato una grande zuppa patronale che ha sottolineato la comunione e il vissuto comunitario".
Il dono dello Spirito che anima l'impegno della vita cristiana. "Cinque giovani indigeni hanno ricevuto la pienezza dello Spirito Santo. Monsignor Joaquín li ha ascoltato la loro testimonianza e confermato la loro fede per mezzo dell'olio santo che inumidisce la fronte di chi vuole seguire da vicino il Signore".
Monsignor Joaquín ha presieduto la celebrazione di questi tre doni e sacramenti ed è stato accompagnato all'altare dai padri Fernando e Alejandro, missionari dal volto amazzonico che accompagnano i processi di fede in questi territori che si affacciano sul fiume Putumayo.
Padre Sergio Tesio, Missionario della Consolata piemontese, nato a Moretta (Cuneo) nel 1947, fra pochi giorni celebrerà 50 anni di ordinazione sacerdotale. Era il 9 settembre del 1973 quando venne ordinato da Mons. Carlo Re e ricevette la prima destinazione missionaria per il Venezuela dove giunse nel 1978. Oggi, dopo essere passato anche dalla Colombia e dalla Spagna è in Italia, nella comunità dei Missionari della Consolata di Olbia. Pensando a questi cinquant’anni, ci lascia queste semplici riflessioni.
Mi sono sentito felice e realizzato nelle missioni del Venezuela e della Colombia dove ho lavorato: gli agricoltori delle Ande (La Puerta), gli Afroamericani di Barlovento e di Cartagena, gli indigeni della Guajira sono stati i miei compagni di viaggio. Ho lasciato tra queste popolazioni un pezzo del mio cuore.
Queste persone sempre mi hanno considerato come parte della loro comunità e della loro famiglia. Io mi sono sentito come un figlio e sono sempre stato bene fra di loro... tra queste persone umili e semplici ho sperimentato un incredibile ambiente di solidarietà, ospitalità e semplicità: condividono il poco che hanno e non manca mai un sorriso, una parola o un aiuto. Mi è costato di più il viaggio di ritorno in Europa che quello di andata in Venezuela.
Vivere la missione significa vivere la fraternità tra noi e con la gente del luogo, condividere il dono della fede e della vita; nel nostro impegno mai dobbiamo lasciare fuori la comunità e i poveri che sono sempre i protagonisti.
Io sono riconoscente al Signore per il dono della vocazione missionaria e per tutte le esperienze vissute fino ad oggi: è un qualcosa che fa star bene e rende felice la tua vita. certamente non sono mancate delle difficoltà e queste sono un po’ un prezzo da pagare, ma anche quelle ti mantengono sveglio, ti fanno riflettere, rompono l’abitudine del “si è sempre fatto così”. In questo modo continui a sperimentare come Dio continua a seminare germi di speranza e di consolazione.
Oggi sto vivendo la mia consacrazione missionaria in Italia. Il missionario che ritorna lo fa per ricordare alla Chiesa che non è chiesa se non sente e vive la scintilla della missione; per invitare tutti, credenti e non credenti, a fare del mondo la casa dell’umanità, la casa comune, la famiglia universale dei figli di Dio; per raccontare, in modo particolare ai giovani che vale la pena spendersi per gli altri. È un programma stupendo.
Voglio offrire cinque semplici consigli a colui che desidera vivere la vita cristiana in stile missionario:
1. Cerca di avere un cuore grande, come quello di Gesù: un cuore che abbraccia chi viene da fuori, il diverso, il migrante, il lontano; un cuore che valorizza chi è avanti negli anni e ha speso le sue forze per il bene comune e adesso magari ha bisogno del tuo aiuto.
2. Mantieniti informato su ciò che capita vicino e lontano da te. Leggi e sostieni la stampa missionaria, le riviste che ti offrono notizie di prima mano da un mondo solo apparentemente lontano. Dobbiamo vincere l’indifferenza e mai applicare il proverbio “occhio che non vede, cuore che non sente”.
3. Fai tuo uno stile di vita fuori serie, austero e sobrio, rispettando il creato, la casa comune, la nostra terra, perché sprecare è rubare.
4. Fai parte e sostieni quelle organizzazioni, come Caritas e Medici senza frontiere, che promuovono la dignità delle persone e il bene comune. Ricorda che l’unione fa la forza.
5. Interrogati sul tu futuro. Tante donne e uomini si sentono felici e realizzati nella vita cristiana e nell’impegno missionario... non puoi esserlo anche tu?