Attorno alla Parola: XXII Domenica del Tempo ordinario

Pubblicato in Domenica Missionaria
{mosimage}Lo scenario in cui si colloca l’episodio del vangelo di domenica è lo stesso della settimana scorsa. Gesù si è addentrato in territorio pagano e precisamente a Cesarea di Filippi, una città eretta in onore della divinità romana: l’imperatore Cesare Augusto. Su uno sperone di roccia del monte Ermon, un tempio bianco domina la città e sovrasta le sorgenti del giordano, il fiume della storia ebrea.

La gente che dice di me? Chi sono io? All’inaspettata domanda di Gesù, Pietroprontamente ha risposto: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente”.

Una affermazione completa, esaustiva, messianica. E Gesù ne prende atto e dice a Simone: Ben hai risposto. Ti meriti la mia fiducia. A te affido la responsabilità piena della mia chiesa e ti do un nuovo nome, significativo, che indica stabilità. Ti chiamerai Pietro.


Ponendo questo episodio al centro del suo vangelo, Matteo ha voluto riportare la testimonianza della divinità di Gesù Cristo e della sua missione, voluta dal Padre per la salvezza del mondo. Assicurata così la fede sulla sua identità e sulla sua missione, Matteo subito vuole chiarire la posizione, lo stile della sua missione e lo stile di fondo di chi vuol seguirlo, del cristiano.

Ed eccoci al vangelo di oggi che pone il primo piano Gesù e Pietro. Il discorso si svolge in due tempi. Nel primo Gesù preannuncia la sua passione e morte; in un secondo tempo Gesù avverte che il criterio per conoscere l’autenticità di un cristiano è la sofferenza.

Il primo annuncio della passione. Dopo la solenne affermazione della sua divinità, Gesù vuol mettere ben in chiaro quali saranno le modalità del suo intervento messianico. Ebrei e discepoli si aspettavano la venuta di un Messia liberatore e trionfatore, e gli apostoli pensavano di essere ministri del suo regno. Ebbene, si illudevano. No, dice loro apertamente Gesù: io dovrò soffrire molto e proprio per mano dei sacerdoti e dei capi del popolo. “Doveva soffrire”, la sofferenza non sarebbe stata pura fatalità, ma rientrava nel progetto salvifico. O Padre, sia fata la tua volontà.

Come l’affermazione di fede di Pietro era stata pronta e sicura, così ora, di fronte a queste fosche previsioni, brusca scatta la reazione di Pietro e coraggiosa è la sua reazione: Gesù, cosa stai dicendo? Mai e poi mai lo permetterò. E nell’orto degli ulivi mozzerà l’orecchio ad una delle guardie che tentava di mettere le mani addosso a Gesù.

Ma Gesù, che poco prima l’aveva proclamato beato, ora lo respinge con toni piuttosto duri, così come aveva respinto la tentazione del diavolo nel deserto: Figlio di un satanasso, vattene fuori dai piedi. Tu mi scandalizzi. La pensi come e tutti gli uomini e tenti di intralciare i piani del Padre mio. Vattene e mettiti dietro di me.

E qui Gesù estende il suo discorso ad ogni cristiano di buona volontà: “Chi vuol venire dopo di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Parole dure ma che sono tutto un programma di autentica vita cristiana.

Può essere bella per noi oggi la croce: trionfa splendente sopra l’altare, spicca sulle pareti di molte case ed anche sulle tombe dei nostri cari. Tutta d’oro, la croce diventa oggetto di regalo e a volte segno di vanità su petti denudati.

Ma per chi ascoltava Gesù la croce aveva tutt’altro sapore. Era terrificante la visione dello schiavo in croce. Faceva rabbrividire la lunga teoria di croci innalzate da tiranno di Roma contro terroristi e ribelli. I corpi ardevano come fiaccole ed erano dilaniati da bestie selvatiche.

Eppure, per sé e per il cristiano, Gesù prospetta proprio la croce come punto di arrivo. Così fu per i primi cristiani dell’impero, così lo fu per i martiri del Giappone ed ancora nelle dittature dei nostri tempi.

Giovanni Paolo II, operato alla clinica Gemelli dopo il tragico e ingiustificato attentato, nel suo messaggio agli ammalati di Lourdes, affermava: “Il discepolo di Cristo deve continuare in sé la passione di Cristo. Gesù ha lasciato incompiuto il suo sacrificio”. Una certa qual sofferenza c’è sempre nella nostra vita quotidiana.

Non basta una bella preghierina a Gesù crocifisso, le tre Ave Maria della sera, l’affrettato segno di croce. Il crogiuolo della fede è la capacità di soffrire, caratteristica del cristiano. E non è certamente facile, specie quando vengono meno le forze fisiche e la solidarietà fraterna; quando in famiglia si annidano sofferenza, incomprensione, rigetto; quando i ricorrenti malanni facevano dire ai nostri vecchi: “Il signore si è seduto in casa mia e non vuol più andarsene”.

Il vangelo di oggi si conclude con un avvertimento di Gesù che giustifica: “E se anche guadagnassi tutto il mondo, che ti serve se non ti preoccupi di salvare la tua anima?”.

Il poverello di Assisi, messer santo Francesco, che in gioventù aveva rinunciato a ricchezze e piaceri, reso cieco dal suo continuo piangere per la passione di Gesù e segnato dalle stigmate, ballava dalla gioia alla presenza del Papa e durante una festa predicò dicendo: “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto”.
Ultima modifica il Sabato, 07 Febbraio 2015 21:54

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