Attorno alla Parola: XXV Domenica del Tempo ordinario

Pubblicato in Domenica Missionaria
{mosimage}Veniamo alla parabola detta degli operai dell’ultima ora o meglio denominata la parabola del Padre buono e generoso. Notiamo che si tratta infatti di un padre di famiglia più che di un padrone.

La giornata lavorativa partiva dal sorgere del sole e terminava al tramonto: dodici ore lavorative distribuite in ritmi ternari. L’undicesima ora corrispondeva pressappoco alle cinque del pomeriggio. Il salario per una giornata era di un denaro d’argento pari al fabbisogno medio di una famiglia.

La piattaforma contrattuale era stata stabilita solo con i primi operai, con gli altri era stato offerto un giusto compenso, con gli ultimi il padrone/padre non aveva stabilito una tariffa. Ma alla sera la liquidazione è stata paradossale: uguale per tutti. L’ordine di pagamento è inversamente proporzionale all’assunzione: gli ultimi sono pagati per primi e come tutti gli altri. La sperequazione è quindi sotto gli occhi di tutti. Inevitabile e logica la reazione dei primi lavoratori: mussitabant; non protestano per un giusto salario, ma per il trattamento preferenziale, gratuito, generoso.


Amico, osserva allora il padre buono, ti ho fatto forse un torto? Hai ricevuto il salario stabilito? Se per bontà guardo più che alla giusta retribuzione alla gravità delle situazioni familiari, tu che ci rimetti? O il tuo occhio è maligno perché io sono buono?

Ed eccoci al cuore della parabola: la contrapposizione tra la bontà del Padre celeste e la nostra grettezza o invidia. È una sollecitazione straordinaria alla speranza nella bontà di Dio, che giudica gli altri e anche noi in modo imprevedibile e senza alcun avviso di garanzia ed in qualunque ora della nostra vita.

Se domenica scorsa siamo stati invitati ad un perdono smisurato, oggi siamo sollecitati ad andare oltre. Esorta il nostro padre Fondatore con una citazione latina: “ora et opta pro aliis quod tibi” che il Fra’ Cristoforo dei “Promessi sposi”: “pregare perché il Signore ad essi (quelli che vi hanno fato del male) conceda tutti i beni che speriamo per noi stessi”.

La parabola è una mano che Gesù tende ai farisei, i primi, i giusti, invidiosi e gelosi dei propri privilegi ed è anche un avvertimento di Matteo ai suoi giudei cristiani, perché sappiano condividere con tutti i popoli e tutte le culture l’eredità della vita eterna.

Ed ai cristiani praticanti dei nostri giorni, a noi fedelissimi alla nostra vocazione, tentati di emarginare gli operai dell’ultima ora, di giudicare che non vediamo seriamente impegnati, che dice la parabola?

Meglio di Freud e di tutti gli psicanalisti, Dio conosce le variabili ereditarie e i condizionamenti socio religiosi che hanno fatto di noi un missionario o un criminale e sa valutare il diversificato approccio alla santità di ognuno di noi.

Ci sono due tipi di santi in cielo, osservava Péguy, un convertito: quelli che escono dalla scuola del giusto e quelli che escono dalla scuola vacillante del peccato. Fortunatamente è sempre Gesù il Maestro. Fortunatamente è sempre il Padre misericordioso che premia. Tutti legati insieme come dita della stessa mano, diverse tra loro ma pur sempre a servizio l’una dell’altra. Tutti provenienti da mille strade e da mille esperienze, pur incompleti e rugosi formiamo un mosaico che solo Dio può apprezzare nella vivacità e varietà dei colori.

E per noi che siamo ormai giunti all’ultima ora, un’ora umanamente insignificante rispetto alle altre ore della giornata, che cosa può dire la parabola? Azzardo alla stregua dei santi Padri un’applicazione allegorica, forse non troppo azzeccata, ma esistenziale.

È ormai lontana la prima ora della frenetica e gratificante attività pastorale, passata anche l’ora di una presenza qualificata e richiesta, siamo nell’ora del servizio sempre più inutile e facilmente sostituibile. In verità è l’ora più feconda, più salvifica: l’ora della glorificazione, quella dell’orto degli ulivi e del Calvario, sempre con Maria e al fianco di Gesù.

Concludo, affiancando alla parabola di Gesù una storiella del P. Graf nel libro “Sì, Padre”. Un giovane disoccupato trova lavoro presso uno strano padrone che gli ordina di sgomberare un cortile. Al termine della giornata il padrone lo paga e lo invita a ritornare. L’indomani il cortile è nuovamente ingombro. Il giovane rifà il lavoro e riceve la stessa paga. Terzo giorno: stesso lavoro e il giovane reagisce. E il padrone replica: “Giovanotto, che hai da ridire? Non sei più disoccupato e hai un salario sicuro. Se a me piace così, a te che importa?”.

Anche noi siamo nella vigna del Signore. Il Padre ci ha chiamato all’ora dell’infanzia per giocare. A quella della giovinezza per studiare, a quella della maturità per lavorare. E ci chiama all’ultima ora, così vuota, in cui sentiamo come il Fondatore l’amarezza di non essere più coinvolti negli interessi della famiglia. Il salario è sempre lo stesso e la pensione sarà certamente una pensione d’oro: la vita eterna!

Al Signore determinare il tipo di servizio, a noi rispondere come Paolo nella sua forzata ed inattiva prigionia romana: “Per me vivere è Cristo, morire un guadagno. Sia che io viva, sia che io muoia, Cristo è glorificato nel mio corpo”.

Maria, che con Giuseppe ha saputo vivere inosservata le ripetitive ore della vita familiare e disprezzata l’ora del Golgota, ci aiuti a vivere la nostra undicesima ora.
Ultima modifica il Sabato, 07 Febbraio 2015 21:54

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