Attorno alla Parola: XXVI Domenica del Tempo ordinario

Pubblicato in Domenica Missionaria
{mosimage}Dopo il viaggio apostolico dal tempestoso lago di Tiberiade, attraverso la transgiordania e la turbolenta Giudea, in un clima di crescente ostilità, oggi Gesù giunge nel cuore della città santa. Sono i giorni della settimana santa, i giorni che vedranno la sua passione e morte, ed Egli lo sa nel cuore.

I capi del popolo, preoccupati che il successo di Gesù provochi una sommossa di popolo e quindi l’intervento delle milizie di Roma, affrontano Gesù.

Alla serrata discussione, Gesù risponde pacatamente con una parabola, anzi un grappolo di tre parabole, dette parabole di rottura: la parabola dei vignaioli che uccidono il figlio del padrone, la parabola degli amici che rifiutano l’invito a nozze e la parabola dei due figlioli o meglio di un Padre buono.


Sono parabole che mirano ad evidenziare la responsabilità e le conseguenze di coloro che rifiutano l’invito di Gesù alla conversione e non vedono di buon occhio l’accoglienza di Gesù verso i peccatori.

La parabola dei due figlioli è un bozzetto di vita domestica che trova riscontro in molte famiglie dei nostri giorni. È la fatica di un sereno e fiducioso rapporto tra genitori e figli. Rapporto a volte drammaticamente infranto dalla droga, da scelte asociali e ribelli. Ne nasce conflittualità, mutismo tra genitori e figli, che dopo i quindici, diciassette anni può raggiungere livelli preoccupanti.

Ci fermiamo stupiti di fronte a certi comportamenti che oggi i giovani assumono con sfrontatezza: gestualità, linguaggio scardinato e volgare, look eccentrici e provocatori, bande di minorenni.

Gesù sembra invitarci ad andare al di là delle apparenze, a saper pazientare, ad avere in famiglia un amore che giunge al perdono. “Non ne ho voglia”, rispose il secondo figlio, ma poi, pentitosi, ci andò.

Ma veniamo al cuore della parabola. Chi erano per Gesù i due figli? Quale atteggiamento rispecchiavano tra i suoi ascoltatori? I giusti, i farisei, gli scribi? “Che ve ne pare?”, domanda Gesù al termine della parabola. Due le categorie di persone che costituivano la società palestinese di allora.

La prima categoria era costituita da farisei, scribi e anziani che influivano su tutta la vita sociale, religiosa e giudiziaria. Gente ligia ad ogni minima prescrizione, e si ritenevano irreprensibili e timorati di dio, gelosi dei loro privilegi di popolo eletto. Costituivano la santità ufficiale, stimai da tutto il popolo come persone consacrate al signore. Gente di chiesa, diremmo noi oggi, gente per bene e religiosa.

Una seconda categoria era costituita dalla feccia, addetti a mestieri umili e degradanti; indifferenti a norme e pratiche religiose, e perciò ritenute dall’opinione pubblica peccatori e pagani. In particolare erano segnati a dito i pubblicani odiati da tutti perché a nome di Roma avevano appaltato l’esazione delle tasse, spremendo il popolo per un maggior profitto personale. Una vera mafia o racket del pizzo o meglio una fruttuosa tangentopoli. Accomunate nel disprezzo vi era il mondo della prostituzione, allora come oggi sfruttato per profitto e per piacere. Siamo quindi di fronte ad una pagina di tutti i tempi e ancor oggi di grande attualità.

Ebbene, dice Gesù con una solenne forma di giuramento: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel regno di Dio. È venuto Giovanni e i pubblicani e le prostitute gli hanno creduto. Voi invece non vi siete convertiti per credergli”.

L’amarissimo e sconvolgente accostamento non poteva non essere più irritante e più provocante. E lo è per qualsiasi benpensante di ieri e di oggi. Osservava Biagi, scrivendo sul Corriere della sera: “Pensate al bacio della prostituta accettato dal Papa davanti alla folla; un Papa vecchio e stanco che con passo incerto cammina per le vie del mondo, seminatore di speranza per ogni ferito della vita veramente pentito: handicappati, drogati, traditori, gente dello spettacolo e anche con il suo omicida”.

La parabola dei due figli non è una storiella. Come tutte le 65 parabole vuole essere una provocazione urgente e indeclinabile, che educa l’interlocutore a prendere una decisione che cambia la vita, che scuote i benpensanti e devoti giudei, sicuri della loro religiosità troppo formalistica e pietistica.

“Pentitevi e credete al vangelo”, cioè cambiate la vostra mentalità e il vostro stile di vita egoistico. Non un pentitismo interessato ai benefici della legge, ma un pentimento che porta ad una collaborazione piena con la volontà di dio per il servizio della povera gente.

“Che ve ne pare?”. Due gli aspetti che Gesù vuol proporre alla vita del cristiano.

Coerenza tra fede e conversione. I pubblicani si sono pentiti e hanno creduto. Non è tanto il peccato che Gesù condanna, ma l’ostinazione nel peccato, il rifiuto di considerarsi peccatori e a domandare perdono.

Coerenza tra fede e vita pratica. La parabola mette in crisi un cristianesimo fatto solo di pratiche religiose, qualche paternoster biascicato o qualche messa di obbligo senza incidenza sulla vita. Devozione avulsa da una onestà di fondo, insensibile a qualsiasi atto di generosità e di volontariato.

Concludo con una leggenda russa. Un giorno, due santi scendono dal paradiso: Cassiano, orientale, e Nicola, occidentale. Ed ecco che incontrano un contadino affaticato e sporco che tenta di togliere il suo carro dalla melma. A differenza di Cassiano, Nicola subito dà una mano a quel poveraccio. Al rientro, San Pietro osserva Nicola tutto stracciato ed impillaccherato di fango, mentre Cassiano è tutto fresco e lindo. Interpellato, Cassiano risponde: “Io non mi immischio nei fatti altrui; bado a non macchiarmi la clamide. Pietro replica: “Tu, Nicola, che hai tirato la carretta per aiutare il prossimo, sarai festeggiato due volte all’anno. Tu invece, Cassiano, sarai festeggiato solo negli anni bisestili, ogni quattro anni”.

Il filosofo russo Salianov commentava: “Certamente è di gran lunga migliore quella spiritualità che sa unire la pratica religiosa all’amore del prossimo”.
Ultima modifica il Sabato, 07 Febbraio 2015 21:54

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