Mentre prepara le valigie, pensa a quando chiudeva i bagagli per il suo primo incarico. “Sono ormai pochi i capelli rimasti, bianchi e finissimi, e a 67 anni, di cui 34 in Africa, è bello pensare ai momenti di vita missionaria sognando ancora. In un lebbrosario della Liberia cerco il terzo volto della mia Africa, e porto nel cuore i primi due”. La Tanzania, che l’ha ospitato dal 1970 al 1990, e il Mozambico, dove è rimasto dal 1990 al 2004.
“Nella prima terra ho conosciuto l’Africa sognata nei miei anni di preparazione, l’Africa dei lunghi safari su strade polverose di terra battuta, i villaggi con le capanne dove la gente viveva senza pretese, sempre disposta ad accogliere chi si presentava senza esigenze”.
Poi è venuto il Mozambico visto dalla periferia della grande capitale Maputo: “Poche luci, molta gente che cambia continuamente, i confini della città che si allargano di giorno in giorno, gli strascichi della guerra civile”.
Assicura che l’entusiasmo e la grinta che lo guidavano allora non sono cambiati. “A differenza di questo Paese e della mia Valmadrera. Quando sono partito, qui erano solo campi. Ma è cambiata anche la gente: quello che fa paura nella nostra società è il fatto che non sa riconoscere il suo passato. Invece siamo forma del passato e impronta del futuro. Credo inoltre che la nostra società abbia paura dell’Islam. E sbaglia ad averne. Il confronto è sempre bello e arricchente”. Poi mostra un articolo tratto dal Corriere della Sera (3 gennaio 2007): “Lì non si parla di società multiculturali ma di una terra ricca di diamanti e di povera gente: la Liberia. Il mio compito adesso è di stare al loro fianco”.