Per questo mi permetto di sottolineare, anzitutto, l’attenzione da dare alla dimensione antropologico-culturale; poi, la realizzazione del diritto particolare nel diritto missionario; ed infine, l’inculturazione del diritto ecclesiale. La prospettiva è chiaramente interdisciplinare, tenendo in considerazione la storia e la teologia della missione.
1. L’attenzione alla dimensione antropologico-culturale
La missione della Chiesa è indirizzata all’uomo e alla donna viventi in un determinato contesto storico-spaziale, le cui coordinate concrete cambiano secondo la varietà delle circostanze. L’antropologia, nel suo significato più ampio, è una disciplina che può aiutare ad illumi-nare scientificamente questo aspetto dell’esistenza umana, contribuire alla comprensione corretta della mentalità e del comportamento, delle aspirazioni e dei valori dell’uomo, e perciò, può costituire uno strumento prezioso al servizio dell’azione missionaria della Chiesa.
Una buona teologia e un buon diritto della missione non escludono l’antropologia ma la presuppongono, in qualche modo analogamente alla formula scolastica «gratia supponit naturam». Considerando tutta la creazione nel suo rapporto profondo con Dio, e aggiungendo il mistero dell’Incarnazione divina nella natura umana, e ricordando ancora l’opera continua dello Spirito nella storia dell’umanità, non si può non vedere – almeno fino ad un certo punto – anche nel mondo reale dell’uomo, in quasi tutte le sue dimensioni, un vero e proprio locus theologicus.
Su questa base l’inserimento del messaggio evangelico nel contesto socioculturale umano appare come una sfida per la Chiesa in genere e per tutti coloro che sono impegnati nella missio ad gentes (missiologi e missionari). Entrambe le parti, i soggetti attivi dell’evangelizzazione e i destinatari non cristiani, sono ugualmente immersi nel loro rispettivo ambiente culturale, quindi sono sottomessi a modi specifici di parlare e di esprimersi, di agire e di comportarsi, di organizzare la loro vita comune, di costruire il loro mondo particolare e di interpretare la realtà anche spiritualmente.
L’insieme di questi elementi costituisce ciò che l’antropologia chiama l’universo simbolico di un sistema culturale. Ed è proprio la cultura, come contesto imprescindibile dell’uomo concreto, il centro focale d’attenzione e d’impegno dell’azione missionaria della Chiesa.
La storia delle missioni ci offre una seriedi personaggi illustri che indicano l’importanza di questa dimensione antropologica: dall’apostolo Paolo, con il suo impegno d’integrazione del Vangelo nel mondo ellenista, a Gregorio Magno, con le sue indicazioni concrete ai monaci missionari dell’Inghilterra, a Cirillo e Metodio, con il loro procedimento di vera inculturazione, a Ramon Tull e al suo interessante approccio scientifico, fino ad arrivare ai tentativi molto discussi di inserimento della fede nella cultura locale da parte di Rovereto de Nobili in India e di Matteo Ricci in Cina, nonché ai tentativi teologici più recenti.
Non meno eloquenti degli esempio storici sono le enunciazioni ufficiali del magistero.
A partire dal Concilio Vaticano II, che rimane l’evento base di riferimento alla vita e missione della Chiesa.
Nella costituzione pastorale Gaudium et spes, che cerca di chiarire il concetto di cultura” e di valorizzare esplicitamente la categoria “mondo” (GS 53, 57-58), abbiamo il famoso n. 53, in cui la cultura rimanda sia al patrimonio comune a tutti gli uomini, partendo dalla loro identità di natura, sia al diversificato modo di «usare delle cose, di lavorare, di esprimersi, di praticare la religione e di formare i costumi, di fare le leggi e di creare gli istituti giuridici, di sviluppare le scienze e le arti e di coltivare il bello». Il decreto missionario Ad gentes mostra, poi, l’articolazione non solo dell’incontro necessari oed efficace tra fede e cultura, ma anche l’urgenza di uno studio particolaredelle diverse discipline (AG 9, 22, 26). L’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, di Paolo VI, asserisce con chiarezza “l’evangelizzazione delle culture” e la trasformazione dell’uomo nei suoi valori più profondi attraverso il Vangelo (EN 18-29). L’enciclica Redemptoris missio, di Giovanni Paolo II, spiega a lungo l’idea fondamentale di incarnare il Vangelo e di inserire la Chiesa nelle culture dei popoli (RM 52-54).
Il diritto missionario, nei suoi principi tra i 12 canoni sull’azione missionaria della Chiesa (cann. 781-792) indica ai missionari, con il can. 787, i criteri e i mezzi per un’azione missionaria feconda. Il can. 787 § 1 recita: «I missionari, con la testimonianza della vita e della parola, istituiscano un dialogo sincero con i non credenti in Cristo, perché, con procedimento adatto al loro ingegno e cultura, si aprano loro le vie per le quali possano essere condotti a conoscere l’annuncio evangelico». È da sottolineare l’uso del termine “dialogo”, che si trova unicamente
in questo canone, e l’insistenza sul procedimento, che deve essere adatto ad ogni cultura.
Il dialogo viene inteso come comunicazione, rapporto, conoscenza, atteggiamento del cattolico con i non credenti in Cristo, con quelli che non lo conoscono, in tutti gli ambiti della vita cristiana, in particolare dei missionari. Non si tratta qui del dialogo di esperti o tra istituti scientifici, ma di un dialogo interpersonale nei suoi diversi modi. Questo dialogo, partendo dalla stessa legge naturale, prosegue con la proposta della dottrina evangelica. È chiara, quindi, la preoccupazione pastorale del legislatore per la predicazione del Vangelo nelle diverse culture dei popoli, per la salvezza di tutti, nell’assoluto rispetto delle libertà di ogni persona, e per il dialogo con le religioni e le culture nell’azione missionaria.
Promuovere questa cultura del dialogo scaturisce, come visto, anche dal diritto missionario della Chiesa, con la sua attenzione alla dimensione antropologicoculturale.
Ecco il significato del “verso dove?”; si tratta di andare verso questa cultura del dialogo.
2. La realizzazione del diritto missionario nel diritto particolare
Già il decreto Ad Gentes al n. 19b ricordava che «la fede è insegnata per mezzo di una catechesi appropriata, viene celebrata in una liturgia rispondente all’indole del popolo, e viene introdotta grazie ad un’adeguata legislazione canonica nelle sane istituzioni e nelle consuetudini locali». Nella prospettiva dell’attuale diritto ecclesiale, questo si realizza nella “duttilità e flessibilità” di adattarsi alle circostanze e ai bisogni non solo dei tempi, dei luoghi e dei popoli più diversi, ma anche dei singoli individui, pur restando rigido e immutabile nei principi di base, considerati assoluti ed inderogabili, perché posti dallo stesso Cristo. È chiara, dunque, che questo avviene specificamente nel campo missionario. Ecco perché, come ho già avuto modo di scrivere che «il diritto particolare ha svolto e svolge un ruolo di singolare importanza nella vita della Chiesa: da un lato assicura una precisa ed efficace applicazione della legislazione universale, specificandola, completandola e adattandola in funzione delle esigenze concretamente poste dalle diverse circostanze, dall’altro è un fattore talmente rilevante di sviluppo e di evoluzione di tutto l’ordinamento che non poche norme e istituti di carattere universale sono nati in sede locale, soprattutto ad opera dei concili particolari. Oggi si preferisce parlare di un rapporto di
complementarità dialettica tra diritto universale e diritto particolare che emerge anche dalla considerazione che ogni legge ha necessariamente i caratteri dell’astrattezza e della generalità.
Poiché il diritto nella Chiesa non è una realtà estrinseca all’annuncio del Vangelo e all’espressione della vita cristiana, la legge universale si deve necessariamente incarnare nella particolarità. Infatti più che ogni altra legge, la legge canonica in quanto tale ha il carattere della frammentarietà, in quanto non può prevedere tutte le situazioni particolari di ogni fedele o gruppo di fedeli, che in ultimo si definiscono in relazione al fine supremo, la salvezza. Si deve quindi evitare di contrapporre diritto particolare e diritto universale, esaltando il primo a tal
punto da mettere in crisi l’unità del sistema, o dilatando il secondo in modo da togliere ogni effettivo spazio alla legislazione degli episcopati locali e dei singoli vescovi.
Lo spirito e la struttura dell’ordinamento canonico esigono, invece, che questi due diritti vivano in un rapporto di continua simbiosi che consenta un costruttivo interscambio e un’efficace comunicazione reciproca»1. (…) Questo è il secondo significato del verso dove va il diritto missionario, il senso cioè dell’unità nella pluralità di discipline ecclesiali nell’attuazione del diritto particolare.
3. L’inculturazione del diritto ecclesiale
È di tutta evidenza che il Verbo, piantando la sua tenda in mezzo a noi, ha allacciato un rapporto inscindibile tra Vangelo e culture, dove da una parte il Vangelo si è rivelato come mezzo efficace di trasformazione, purificazione e nobilitazione delle culture, e dall’altra i missionari hanno imparato a conoscere le culture, le lingue i costumi e le tradizioni dei popoli destinatari del Vangelo. Come giustamente è stato osservato, «il termine “inculturazione” è sorto in ambito missionario per indicare la volontà della Chiesa di passare da una occidentalizzazione delle forme della sua fede ad una concezione diversa, più attenta al valore ed al recupero dell’apporto di ogni cultura. Si spiega così il progressivo ampliamento del termine alla intera vita delle giovani
Chiese»2.
In sintesi, l’inculturazione deve salvaguardare in primo luogo la distinzione tra la fede e la cultura, e poi l’unità e il pluralismo della Chiesa. Queste esigenze sono fondamentali nella pratica dell’inculturazione.
La Chiesa universale è certamente una comunione di Chiese particolari, ma è anche, per estensione, una comunità di nazioni, di lingue, di tradizioni, di culture. (cf. Redemptoris Missio 52). Una teologia pratica dell’inculturazione deve rivolgersi, a livello regionale, alle Chiese particolari, perché siano in grado di sostenere un reale impegno di inculturazione capace di rinnovare la liturgia e la catechesi, la prassi morale e l’elaborazione scientifica del sapere teologico, il diritto particolare in tutte le sue espressioni e i percorsi istituzionali.
Il diritto ecclesiale, in quanto apparato dell’aspetto societario, umano e visibile, della Chiesa, ha il compito di favorire l’unione degli uomini con Dio e tra di loro.
Attraverso una disciplina comune e particolare, esso tende con tutte le sue strutture a realizzare questa unione. Inoltre, in quanto strumento per un cammino di salvezza, per realizzare la comunione e la missione, esso deve porsi al servizio dell’inculturazione e deve essere esso stesso un diritto inculturato.
Se è vero che quanto previsto nel CIC vigente non è eccessivamente aperto a posizioni multiculturali, comunque vi sono spazi lasciati dal legislatore universale a quello particolare, che possono incoraggiare recezioni pluriculturali, secondo la concezione di una Chiesa communio ecclesiarum, che si appropria, incorpora, assimila in base al proprio discernimento e alla propria cultura valori e disciplina universali. Nel CIC vigente si possono trovare circa 90 canoni che, direttamente o indirettamente, rimandano alla possibilità di produzione di un diritto particolare nella Chiesa locale. Questi canoni offrono l’opportunità di prendere le convenienti decisioni, tenuto conto delle circostanze, dei luoghi, delle persone e delle tradizioni culturali del popolo.
Non sono poi da considerare di secondaria rilevanza gli organismi di partecipazione e corresponsabilità, che il CIC prevede per le diverse forme di Chiesa particolare, differenziata in rapporto al grado di rappresentanza e all’ambito di competenza, sia sul piano della diocesi sia su quello della parrocchia. Tra essi, senza dubbio, merita una menzione particolare il sinodo diocesano (cann. 460- 468)3. Un altro aspetto da considerare, nel contesto dell’inculturazione, è la liturgia.
Ogni celebrazione è fatta per l’uomo e, come tale, si sviluppa nel tempo e si situa in un luogo; questo significa chenon può sfuggire ad una caratterizzazione “culturale”. Il CIC riserva al vescovo diocesano il ruolo di organizzatore e promotore della vita liturgica nella Chiesa a lui affidata, a lui spetta dare norme in materia liturgica (can. 838 § 4).
Ma, di fatto, sono le Conferenze episcopali l’organo più adatto a garantire la partecipazione di tradizioni culturali di un determinato spazio socioculturale nella celebrazione del mistero di Cristo.
Un ultimo aspetto, connesso sotto vari profili con l’inculturazione del diritto, è quello dell’autofinanziamento delle giovani Chiese. Il modello di Chiesa locale che ci indica il Vat. II sottolinea la dimensione dell’autonomia e dell’essere in comunione con le altre Chiese. Per quanto riguarda l’aspetto finanziario, AG 15 dichiara che «fin dall’inizio la comunità cristiana deve essere formata in modo che possa provvedere da sola, per quanto è possibile, alle proprie necessità».
Infatti, non si può parlare di comunità, senza ordinamento dei servizi, senza determinate funzioni, senza proprie strutture e senza che la comunità tenda all’autonomia, evitando una dipendenza perennemente da altre comunità cristiane. Giusto per fare un esempio, se è vero che le Chiese in Africa credono di potersi meglio esprimere, come è stato fortemente sottolineato dall’esortazione post-sinodale Ecclesia in Africa, nell’immagine della Chiesa-famiglia di Dio, il processo di adattamento e di inculturazione dovrà far emergere le applicazioni strutturali di questa intuizione ecclesiologica. Ciò comporta l’assunzione di tutte le conseguenze a livello delle forme di organizzazione ecclesiale, come quelle che strutturano i seminari, gli Istituti di vita consacrata, le chiese, le curie e gli organismi diocesani,l’amministrazione dei beni ecclesiastici.
Conclusione
Da quanto affermato, si può concludere che il diritto missionario si situa oggi nella dialettica generale tra universale e particolare, pertanto è un diritto tutto da costruire e realizzare, soprattutto in quelle Chiese locali che si trovano nei cosiddetti “territori di missione”. Qualcuno parla di un diritto incompiuto, nel senso che le esigenze dell’inculturazione passeranno anche per il diritto ecclesiale: un diritto particolare proveniente dal diritto missionario, che sarà sempre meno un diritto di eccezioni e sempre più un diritto che ha, a pieno titolo, il suo posto nel sistema canonico, in relazione con il diritto comune (cf. cann. 20 e 135 § 2), di complemento alle sue disposizioni, e con una certa autonomia. Lo scopo di questa prospettiva non è di rigettare il diritto universale, ma di situarlo meglio nella vita delle Chiese particolari, nel rispetto delle legittime differenze culturali.
Vincenzo Mosca
(Estratto dell’articolo pubblicato in “Ius Missionale”, II, 2008, pp. 213-227)
1 V. MOSCA, Il diritto missionario nel CIC: dialettica tra universale e particolare, “Ius Missionale” 1 (2007), 25-26.
2 G. COLZANI, Inculturare la fede. Linee per una teologia, in GRUPPO ITALIANO DOCENTI DI DIRITTO CANONICO (a cura di), La fondazione del diritto. Tipologia e interpretazione della norma canonica, Milano 2001, p. 219.
3 Cf. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI – CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, Istruzione sui sinodi diocesani, 19 marzo 1997, AAS 89 (1997), 706-721.