P. Stefano Camerlengo
Introduzione
Carissimi missionari voglio condividere questa riflessione con
semplicità e verità, frutto di un lungo confronto con diversi pensatori che scrivono sulla nostra
realtà attuale, per ritrovare il senso delle cose e della vita che viviamo, per non cedere al grigiore, per vivere
con gioia la nostra donazione.
1) In un mondo precario
Ogni tempo ha le sue ricchezze e le sue pene, i suoi segni di speranza e i suoi abissi. Tutti i tempi
sono tempi di crisi, di passaggio, di cambiamento; nessuna età della storia umana è stata
un’età di progresso inarrestabile, stabilità, saggezza, benessere. Dunque il tempo che ci è
dato da vivere non è migliore o peggiore di altri tempi. Anzi: per quante involuzioni, per quanti fallimenti e
sconfitte dell’umanità possiamo registrare, ci sono state certamente età peggiori: pensate ai tempi
del nazismo e del fascismo, pensate ai secoli della schiavitù, o ai tempi in cui la fede veniva imposta con le armi
dei conquistadores e i teologi teorizzavano l’assenza dell’anima negli Indios.
In realtà
noi viviamo un tempo di purificazione, certamente molto difficile nella vita quotidiana delle persone, delle famiglie,
perché la morale comune non coincide più con la morale cristiana e le virtù bibliche e il Vangelo
recupera, allora, la sua portata “sovversiva” originaria.
Un tempo di purificazione che sarà
lungo, perché i tempi della storia sono pazienti e lenti, e il Vangelo e la Croce vivono nella percezione comune la
“debolezza” di fronte al mondo; e i cristiani, anche sono sempre più minoranza, tornano necessariamente
a essere lievito, sale, resto d’Israele.
La precarietà, come diceva il sociologo francese Pierre
Bourdieu, è dappertutto. La globalizzazione dei mercati sempre più extra territoriale allarga la forbice tra
ricchi e poveri e ha relegato la politica, le istituzioni nazionali a un ruolo secondario. Il profitto viene prima
dell’eguaglianza, il mercato prima della solidarietà, l’efficienza prima dei diritti umani e del
bene comune, la competitività prima della fraternità.
La nostra nuova cittadinanza, in una gerarchia
rovesciata delle virtù, è quella di consumatori o produttori. La globalizzazione è
inarrestabile. La precarietà è dappertutto, dunque, ed è la nostra vita. Riduce la nostra
capacità di speranza politica, la nostra speranza escatologica, ci rende precari e smarriti anche sul piano della
fede e l’egoismo, l’immediato, la ricerca di autorealizzazione attraverso desideri da consumare subito,
diventano la misura del nostro vivere.
L’incertezza sul futuro e la paura dell’altro, del diverso,
dell’immigrato che può mettere a repentaglio il nostro benessere e la nostra precaria identità,
suscitano l’unica richiesta collettiva in una società di individui privatizzati (Bauman): la sicurezza.
«Abbandonata la speranza di migliorare la vita in modo significativo, la gente si è convinta che quel che
veramente importa è il miglioramento del proprio stato psichico; aderire alle proprie sensazioni, nutrirsi con cibi
genuini, prendere lezioni di ballo o di danza del ventre, bagnarsi nel mare della saggezza orientale, fare del jogging,
imparare a “entrare in rapporto”, a vincere “la paura del piacere”. (Cristopher Lash, La
cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1992, pag. 16).
“Lo shopping colma il vuoto lasciato dai viaggi che
l’immaginazione non compie più verso una società alternativa, più sicura, umana, giusta”
(Bauman, La società individualizzata , pag. 190).
Questa precarietà esistenziale, lavorativa,
religiosa, rende più difficile assumere impegni duraturi: acquistare o anche affittare una casa, sposarsi, mettere
al mondo figli, assumersi impegni duraturi nella vita personale o nella vita sociale; la vita tende a diventare un
susseguirsi di episodi (Bauman) o di storie , alla ricerca di gratificazione immediata: ogni legame è vissuto come
transitorio, e la televisione riflette e amplifica questa condizione.
Viviamo un tempo di singolarizzazione della
vita: single è più facile, è più in linea, è più moderno, e la metafora di
Bauman sull’album di fotografie (le fotografie restano), memoria della famiglia sostituito dalle videocassette
cancellabili e riciclabili, è molto efficace. “È in crisi l’idea stessa di durata e
immortalità”; cattivo gusto, plastica, poster sopraffanno la bellezza perché la bellezza è
immortalità, è una anticipazione dell’infinito. Anche l'idea stessa d'identità, cara al
nostro modo di parlare è in crisi e in mutamento. La teorizzazione sulla identità dovrebbe abbandonare la
metafora delle “radici” e del conseguente “sradicamento”, “sostituendolo con l'immagine del
gettare e issare le ancore. In effetti, issare un ancora, a differenza dal “radicarsi” e
“sradicarsi”, non ha niente di irrevocabile e definitivo. Le radici divelte dalla terra si seccano, uccidendo
la pianta, mentre al contrario le ancore vengono issate solo per essere gettate di nuovo, e altrettanto facilmente, in
posti diversi. ( Bauman, l'arte della vita, pagg.106-107).
Ci sono anche altre sfide che ci chiamano al
cambiamento ed al rinnovamento. Alcuni aspetti che abbiamo già ripetutamente evidenziato in alcuni nostri
documenti, come:
“ La difficoltà
di formare a una missione diversa
“Pur essendo chiaro l'obiettivo della Ratio
Formationis e adeguati i contenuti, il metodo e i mezzi per raggiungerlo, non tutti gli studenti manifestano entusiasmo,
disponibilità e zelo missionario secondo lo spirito del Fondatore e le attuali esigenze della
missione.”
“La vocazione e la formazione alla vita consacrata e al ministero sacerdotale per
alcuni giovani non sembrano soddisfare le loro aspirazioni e conferire sicurezza e preparazione sufficiente per i compiti
futuri.”
“In questi ultimi anni la mobilità e l'avvicendamento di missionari
destinati alla formazione di base sono stati elevati”. ( cfr. XI CG pag.72, n.1-3-5: formazione di base)
Le difficoltà che si riscontrano nella formazione sono
un'opportunità per rivedere il processo formativo, riqualificare le comunità apostoliche, che devono
accogliere i giovani in formazione, ristudiare le strutture formative.
Per riqualificare la
missione in un cammino di creatività fedele al nostro carisma e alla nostra missione occorre ripensare il modo di
presentare, preparare e vivere la missione, a partire dalle tappe formative. Per questo, il tema è proposto alla
Consulta.
La stanchezza e la
rassegnazione di tanti missionari
Sconcertati dalle novità del mondo e incapaci di
seguirne il ritmo, molti di noi si sentono incapaci di reagire, perdendo l'entusiasmo iniziale e credendo che la nostra
vocazione non abbia più niente da dire. Perdiamo il senso del nostro servizio, vivendo la missione come un lavoro,
piuttosto che come vocazione. Subentra allora la crisi, che apporta momenti di difficoltà, smarrimento e
sofferenza, nei quali emergono interrogativi, bisogni, urgenze inattese. E’ il momento opportuno per una nuova
scelta, al fine di far emergere quasi una nuova identità.
E' un periodo di prova,
ricerca, discernimento, e quindi di sofferenza, ma anche di crescita e novità. È un momento di speranza
pasquale. Esso richiede gli atteggiamenti propri di chi cammina nel deserto: la costanza nel cammino, il silenzio per
l'ascolto, l'aiuto di una guida per essere orientati, la libertà interiore e la povertà per sperare e
disporsi a ricevere l'aiuto.
La coscienza della nostra povertà è provvidenziale per
farci vivere nella verità e umiltà autentica, che producono in noi una libertà interiore che ci fa
guardare senza vergogna i nostri limiti, ci fa attendere solo da Dio la salvezza e ci dispone a fare la sua
volontà.
Il cambio dell'idea di missione: dall’”ad gentes” geografico a quello
“antropologico”
All'inizio del nostro Istituto la missione consisteva
nell'uscire dal proprio paese, in genere l'Europa, per andare in un altro paese più povero, come l'Africa, o
l'America Latina. Oggi questa idea è in parte tramontata. Più che al luogo geografico, per noi ancora
importante, si guarda alle persone che necessitano una presenza missionaria per la loro situazione umana e per
l’annuncio del vangelo. In questo senso, anche l’Europa rivendica oggi situazioni di “ad gentes”,
soprattutto per gli ambienti che sembrano refrattari, impenetrabili al vangelo: i nuovi areopaghi. Inoltre, nel passato la
missione era opera esclusiva dei missionari, che n erano considerati come degli "specialisti"; oggi, anche
questo è cambiato, perché tante sono le associazioni, organismi e gruppi che realizzano la missione come un
servizio a favore dei più poveri e lontani.
Nel X CG abbiamo allargato il concetto
dell'“ad gentes” anche alle nostre presenze in Europa, favorendo scelte di inserimento in ambienti difficili,
tra poveri o non evangelizzati. Questo ci rende più attenti ai bisogni dell'umanità, rispondendo al nuovo
“ad gentes”. Alcuni, però, lo vedono come un indebolimento dell'idea di missione intesa come
uscire, andare oltre... D’altra parte, oggi si fa più fatica ad accogliere la missione “ad vitam
e ad extra”, e questo spiega, almeno in parte, la crisi vocazionale anche del nostro Istituto.
Questa nuova visione dell'“ad gentes” spinge l’ Istituto a ripensare la sua identità, a
riqualificare la missione “ad gentes”, secondo le scelte prioritarie fatte negli ultimi Capitoli Generali.
Studiare, da parte della Consulta, l’idea dell’intra gentes che oggi si sta facendo largo spazio nel mondo
asiatico, sarebbe un’opportunità da non perdere.
Alcune
nostre “fragilità”
La missione è svolta ancora in maniera molto
“occidentale”. Nella maggior parte dei casi, non facciamo e non viviamo la missione, ma ci limitiamo alla
pastorale parrocchiale, come “buoni parroci”.
Manca in molti missionari l’impegno
di riflettere sulla missione, rinnovarsi, affrontare in modo professionale i problemi dell’evangelizzazione e della
società. Vengono così a mancare persone capaci di creare il nuovo.
Manca una
visione d’insieme d'Istituto e di riflessione missionaria a livello continentale.
C’è una difficoltà grande a gestire la responsabilità, demandando sempre a altri le
decisioni. Non siamo ancora arrivati a un equilibrio stabile tra unità e sussidiarietà nel governo
dell’Istituto.
Notiamo un divario grande tra missione e formazione. Sembra infatti che la
formazione impartita nei nostri seminari, a causa dei contenuti, delle strutture, dei formatori, dell'atteggiamento
dei missionari in generale, delle metodologie, non raggiunga i risultati auspicati.
Facciamo fatica
a volerci bene e a accettarci come fratelli. Si nota la difficoltà a elaborare un vero progetto comunitario di
vita. Prevalgono: l’individualismo sull’unità d’intenti, i progetti personali sulla
corresponsabilità, la semplice convivenza su una vera comunione fraterna arricchita dall’accoglienza della
diversità.
A livello comunitario si vive un certo disagio per la povertà,
perché ci interpella e ci pone in questione sulla coerenza di alcune scelte.” ( dal documento per la
Consulta, 2008 )
2) In compagnia con gli uomini
del nostro tempo
E allora, che fare? Una diffusa tentazione tra i cattolici è la
rassegnazione. Anche quando si riesce a non rimpiangere il tempo passato, c’è una fascia consistente di
laici, di sacerdoti, religiosi e religiose, che si limitano, con molta buona fede e non senza amarezza e inquietudine
interiore, ad andare avanti, a una sorta di routine, governando il governabile, cioè le 99 pecorelle (che nel
frattempo sono diventate 25-30) perché la pecorella smarrita (nel frattempo moltiplicata per settanta) è
assorbita dall’indifferenza dell’età del vuoto, e dunque irraggiungibile.
La rassegnazione
è vissuta spesso con una spiritualità personale intensa, con un affidamento al Signore in tempi di
minoranza, condizione più subita come portata dei tempi che vissuta come sfida. Salvare il salvabile, chiudere
l’ovile per non perdere le pecorelle rimaste, attenuando così anche la forza dirompente del Vangelo, la
novità del Concilio, custodendo i fedeli, smussando gli angoli della pietra angolare. La rassegnazione diventa
così una mediazione tra tradizionalismo e cura spirituale delle brave persone, dei buoni, amministrazione dei
sacramenti, con quel pizzico di ammirazione per il coraggio dei profeti che, se confermano nella fede, non incidono nella
propria comunità, nel proprio tran tran per non scoraggiare o scandalizzare i rimasti nell’ovile.
C’è una bella, intramontabile, canzone del père Duval, L’ésperance morte, che molto si
adatta ai rassegnati, ai mosci del buon Dio: “Il Signore ha bussato alla tua porta, ma tu dormivi”.
C’è un dormire spirituale, un opporsi alla speranza, all’entusiasmo della missione, alla
creatività, all’incessante aggiornamento del linguaggio, della comunicazione, della liturgia, per mettersi in
sintonia con il modo di parlare e di comunicare, le speranze e le angosce dei concittadini del nostro tempo, che diventa
omissione, colpa, ignavia. La nostra fedeltà alla missione deve essere creativa, altrimenti muore e diventa
tradimento.
L’altra tentazione è quella dei gasati: l’integralismo di certi movimenti,
il giudizio di condanna sul nostro perfido tempo secolarizzato, sul mondo, nella convinzione che l’annuncio debba
usare ogni scampolo di potere residuo della vecchia società cristiana, e l’energia della forza, delle pietre
del tempio piuttosto che la debolezza della Croce e della tenda della testimonianza; la proclamazione ideologica dei
“valori cristiani”, il sogno della riconversione cristiana della società, della restaurazione della
cristianità perduta intrecciando tradizionalismo e giudizio con la spregiudicatezza dei mezzi della
modernità.
La tentazione di un cristianesimo muscoloso per riportare il mondo a Dio, scambiando il lievito
con la pasta.
Infine ci sono i laici, i preti, religiosi/e, i catechisti, le famiglie che, seguendo la
spiritualità della strada e della tenda sui sentieri aperti del Concilio, cercano di essere
“missionari”, cioè cercano di vivere la “simpatia” piuttosto che l’antipatia verso il
mondo, si sforzano di vivere la “compagnia” con le donne e gli uomini del nostro tempo e, invece di barricarsi
e difendersi da un nemico, avvertono che “la cultura attuale non è deprecabile; è invece il kairos, il
momento opportuno
per raggiungere ciò che ci sta più a cuore” (S. Fausti, Elogio del nostro
tempo , Piemme 1999, pag. 17).
3) Presenti nel nostro tempo da
missionari
La sfida del missionario è la compagnia con gli uomini del nostro tempo,
l’ascolto dei soffi più nascosti della ricerca del senso della vita, che ci sono anche nei più
assorbiti angoli nella cultura apparentemente dominante dell’età del vuoto. Attraverso la gioia,
l’allegria dei redenti.
È il sentiero dell’evangelizzazione, di una nuova evangelizzazione,
della missione ad gentes. Per preparare le vie del Signore, perdute le “sicurezze sociali” della
società cristiana, l’annuncio, nel XXI secolo, ci impone il recupero della fede nuda delle prime
comunità cristiane, la con-passione con le donne e gli uomini del nostro tempo, la condivisione della condizione di
deserto, di esilio spirituale, dunque l’inculturazione e la pre-evangelizzazione. Sembrano parole astratte, ma non
è così.
Uscire dal tempio o dall’ovile, ascoltare, capire, mettersi in sintonia con le grida
sepolte dal rumore della ricerca di paternità – dunque di Dio – dei nostri contemporanei. Leggere i
segni dei tempi. Senza sconti. Senza addolcire con l’ottimismo della volontà il contesto di questa età
del vuoto, ma senza maledire questo nostro tempo, e tanto meno i prigionieri del corto circuito “narcisismo -
seduzione”.
Se la Resurrezione è il patto di Dio con le donne e gli uomini di ogni tempo e il patto
è la liberazione da ogni schiavitù, il Dio annunciato da Gesù il Cristo “… è un
Dio di benevolenza e simpatia, che ama i suoi figli al di là di ogni legge umana e religiosa; un Dio che si perde
per i perduti, e che offre solidarietà ingiusta al malfattore giustamente condannato inchiodandosi con lui sulla
croce (Lc 23,40 ss.); un Dio che abbandona sé stesso per ogni abbandonato da Dio (Mc15,34)” (S. Fausti, op.
cit., pagg. 86-87).
Allora, se la pista tracciata nel deserto è la compagnia, la simpatia, questo non
significa abbassare la soglia della radicalità evangelica per “accomodare” il cristianesimo al mondo,
ai modelli dominanti, per riacchiappare i lontani, i fuggiti (ce ne sono tanti) per colpa della nostra stanchezza o per la
noia delle nostre liturgie e della nostra comunicazione liturgica o esistenziale. Anzi! A noi è chiesto di
testimoniare la credibilità di una fede liberante, la credibilità di Cristo Alfa e Omega della storia, la
credibilità del cristianesimo come senso della vita e del futuro dell’uomo, come fede non irragionevole, non
mitica, non superata dalla modernità, non condannata al museo. Non ci è
chiesto di adattare il
Vangelo al mondo, ma di inverarlo nel mondo.
La testimonianza della vita, e con la vita, è in sé
stessa comunicazione. Ma è richiesto ai cristiani di testimoniare il Cristo che libera da tutte le schiavitù
nel linguaggio di oggi, e secondo i ruoli e i carismi propri di ciascuno e delle diverse collocazioni e vocazioni.
Essere missionari oggi, significa per molti di noi studiare, fermentare di idee, di pensare ai giovani, di andare a
ricercare i lontani e i fuggiti, andando verso gli altri anziché aspettarli nelle nostre mura, troppo spesso aperte
e chiuse a orario come i benzinai, quasi sempre aperte quando gli altri lavorano, spesso sbarrate quando gli altri
potrebbero cercarci.
Come si fa? Con la capacità di comunicare, di parlare, di ascoltare; con la
capacità di cercare le persone sole; con la capacità di accoglienza, impegnando le nostre comunità,
le nostre parrocchie, riconvertendo le nostre scuole in centri di incontro, di dibattito, di confronto, in luoghi di
solidarietà e fraternità, che poi sono le “forme” concrete dell’amore.
Non si
può continuare a parlare d’amore senza declinare questa parola, che altrimenti suona retorica, in luogo, in
ricerca incessante di risposte profonde alla domanda di credibilità, nel XXI secolo, dell’esperienza
cristiana, dunque della nostra fede. Si attende da noi soprattutto un cambio di mentalità, una capacità di
lettura del mutamento culturale, esistenziale, sociale, del nostro tempo.
Scrive Jean Paul Mensior: “Io
credo, lo voglia o no, che chi pretende di parlare di Dio restandosene
con le mani in mano si condanna a non
essere ascoltato. Apparirà come un incosciente o un impostore. Rischierà di sentirsi chiedere che Dio
è mai quello di cui parla, che non lo spinge ad impegnarsi nelle lotte a favore dell’uomo”.
“La parola di Dio, oggi più che mai, è legata a un fare”. E certamente essere poveri,
vivere e lottare con i poveri, pulire il culetto a un bambino handicappato, lavare un barbone, aprire un dispensario e una
casa d’accoglienza per i malati di Aids, impegnarsi concretamente contro la morte per fame, è di gran lunga
la prima forma di credibilità della nostra esperienza di fede. E l’annuncio, per quanto bravi possiamo
essere, senza il fare, o credendo che automaticamente scateni la nascita o la crescita della fede, può essere molto
deludente.
Nel suo libricino Stelle in alto mare, lo scout morto “in concetto di santità” Guy
de La Riguadie (che viaggiava sempre con il sacco a pelo ma con uno smoking nello zaino perché amava ballare),
scriveva una cosa all’apparenza banale ma liberante: “… si può servire Dio costruendo cattedrali
ma anche sbucciando le patate”.
Per me (e questo è il mio tormento) costruire cattedrali oggi vuol
dire, appunto, condividere la povertà con i poveri, pulire un bambino handicappato, lavare un barbone. Ma non tutti
siamo chiamati a costruire cattedrali.
A noi, per ora è chiesto di sbucciare patate, un lavoro meno
gratificante, ma che considero una collaborazione indiretta con la costruzione di cattedrali: far lavorare
l’intelligenza, continuare a studiare, a leggere, a risarcire i privilegi ricevuti utilizzando le parole, le
immagini, a rispondere, nel mio piccolo, alle inquietudini intellettuali e alle domande che mi vengono poste su Dio, sul
senso della vita e della storia. Suscitare animosità interiore, stimolare “I Care”, mi interessa.
E farlo con il sorriso, con una vera apertura mentale verso gli altri, gli interlocutori, amandoli se possibile. E
spesso non è facile.
4) Rivisitando la nostra scelta di
vita
Indubbiamente esistono da sempre mezzi e parole per proclamare la buona novella di
Gesù, ma l’annuncio vero ed efficace non passa attraverso le parole e le mediazioni ripetute e sapute, ma
attraverso la testimonianza di vita, da parte di testimoni in carne ed ossa che vivono profeticamente il vangelo di
Gesù; vuol dire che si rende indispensabile la coerenza tra vita e parola, ma questa visibilità non è
manifesta solo nella persona, ma deve essere esplicita nelle nostre opere apostoliche e nelle nostre istituzioni da
consacrati per l’evangelizzazione ad gentes.
Dobbiamo riconoscere che, in questi ultimi anni diversi aspetti
della missione hanno subito cambiamenti, ed alcuni sono andati in crisi. Questo ci rende confusi e ci lascia perplessi sul
come dobbiamo continuare ad annunciare Gesù Cristo oggi in questo nostro mondo tenendo conto della nostra
realtà di comunità. Anzi, questo insieme di fattori sembra aver indebolito e perfino annullato in gran parte
di noi l’entusiasmo e lo zelo apostolico nell’annuncio di Gesù; realtà questa che si vede
aggravata dalla diminuzione delle nostre risorse umane e dal nostro invecchiamento, fino ai limiti di esaurimento delle
energie disponibili.
L’individualismo sta danneggiando anche in gran parte questo aspetto della
visibilità della missione; qualsiasi lavoro missionario svolto fuori dal contesto comunitario e senza
rapporto con la missione della nostra famiglia, non è più trasparenza di una missione che è, innanzi
tutto, invio radicale da parte di Dio, risposta radicale dell’uomo ad una chiamata a porsi al servizio gratuito di
Dio e del prossimo.
Non sempre la missione è vissuta come ciò che è nella realtà: una
manifestazione della nostra disponibilità verso Dio in gratuità ed abbandono totali. E’ vero che la
missione si concretizza in compiti, cioè in attività ed iniziative concrete, ma non deve confondersi
né identificarsi con esse. Il compito separato dalla missione crea missionari consacrati professionisti o
funzionari clericali, probabilmente competenti, con un gran senso di responsabilità... preoccupati di trasmettere
valori di costanza, solidarietà, preoccupazione per i più abbandonati... ma forse non così impegnati
nella trasparenza della dimensione di dedizione alla trascendenza, all’Assoluto di Dio che motiva la missione.
Possiamo chiederci, quali desideri, quali attrattive suscitano tra i giovani che ci osservano, questi lavori a cui noi
ci dedichiamo ? Scoprono in essi il motivo delle nostre vite, il perché ed il senso della nostra vocazione di
sequela radicale a Gesù?
È curioso che, a volte, per spiegare chi è e cosa fa un missionario
della Consolata, dobbiamo invitare qualcuno che vive altre realtà missionarie. Forse senza volerlo, stiamo dicendo
che il nostro modo di vivere e la nostra missione qui e adesso non contagia, che manca ad essi la capacità di
suscitare desiderio ed attrazione.
La mancanza di risorse umane cui abbiamo fatto cenno prima pone anche un gran
problema di visibilità della nostra vita da consacrati e missionari nelle nostre opere apostoliche. Si
continua a svolgere una missione apostolica, poiché i laici sono stati coinvolti in essa in pieno con gran senso
della loro responsabilità di cristiani, ma rimane il problema certamente insolubile della visibilità quale
mediazione per l’animazione missionaria e vocazionale.
Inoltre, insieme a questa difficoltà si
uniscono anche gli interrogativi che alcune persone impegnate pongono ad un certo tipo di istituzioni, criticando
decisamente o mettendo in dubbio la loro capacità di trasmettere valori evangelici e di essere testimoni della
povertà e semplicità che professiamo. Si pone la questione di sapere se le strutture ed i mezzi che le
nostre istituzioni richiedono non impediscono che la testimonianza evangelica riesca a diffondersi e farsi presente.
E’ una questione che interpella spesso la visibilità della missione della vita consacrata. A cosa siamo
chiamati: ad "essere luce del mondo" che illumina senza nascondersi sotto il moggio o "sale della
terra" che nascostamente si dissolve per dare sapore ed evitare la corruzione?
In effetti, partendo dalla
prospettiva vocazionale, è necessario riconoscere che i giovani per impegnarsi desiderano sapere a cosa, per che
cosa e per chi siamo chiamati in questa famiglia o Istituto missionario; è importante per l’animazione
vocazionale che sia visibile e trasparente il nostro impegno missionario e si sentiranno più facilmente contagiati
e chiamati se è generoso ed entusiasta. E’ difficile impegnare la vita per opzioni che appena sono
conosciute, che vengono praticate con difficoltà ed in mezzo a litigi o divisioni interne. Un progetto apostolico
ben concepito, visibile e condiviso con entusiasmo dalla Regione e dall'Istituto, sarà sempre un’occasione
per cui coloro che sono sensibili alla chiamata del Signore si sentiranno chiamati.
Conclusione: ripartire di nuovo!