La figura del Fratello Missionario della Consolata è presente nella mente del Padre Fondatore nella fase stessa di progettazione dell'Istituto. Nel primo documento da lui elaborato per la presentazione del suo progetto alla Santa Sede egli manifesta di aver maturato il suo progetto a contatto con i sacerdoti e seminaristi, ma aggiunge, come per inciso: "i laici non mancheranno" (Lettera a C. Mancini, 6 aprile 1891). Difatti, nella bozza di Regolamento dello stesso anno sono considerati sacerdoti e laici "desiderosi di dedicarsi alle missioni", "di consacrarsi alla evangelizzazione degli infedeli". A questa idea l'Allamano non venne mai meno nelle successive redazioni del Regolamento e delle Costituzioni.
Egli esprime il suo pensiero sulla funzione dei fratelli nell'Istituto nelle sue conferenze, specialmente quando tratta delle due categorie di membri, o due "classi" secondo la terminologia giuridica del tempo. La sua visione del Fratello va delineata tenendo conto di questo condizionamento giuridico, della situazione e del concetto di missione del suo tempo e anche del suo pensiero sull'Istituto. Avendo presente tutto questo, si possono considerare alcuni aspetti della sua idea su Fratelli.
1. L'Istituto è una famiglia che vive ed opera in unità di intenti. Questo è certamente un punto basilare dell'ispirazione originaria. Infatti, quando l’Allamano parla di comunione, “spirito di famiglia”, “unità di intenti”, non esprime tanto una “strategia”, ma della motivazione che lo ha indotto a pensare alla fondazione dell'Istituto quindi, a ciò che lo deve caratterizzare. Per questo, non è pensabile che egli abbia considerato i Fratelli come a una "classe di seconda categoria". Egli stesso, in una conferenza, si interroga se una sola classe di membri non favorirebbe una maggiore uguaglianza. E risponde con l'immagine classica e a lui cara del corpo e delle membra. L'essenziale è che si faccia un corpo solo, in cui ognuno fa la sua parte. "Ogni membro dev'essere contento del suo stato [...]. Ognuno deve dire: Sono contento della mia posizione, aiuto anch'io a formare il corpo, anche se sono solo un dito, perché il corpo senza un dito non è perfetto" (Conferenze ai Missionari, IlI, 390). "In una Congregazione c'è questo di bello che si coopera tutti insieme a fare il bene, meritano tutti lo stesso, tanto chi scopa come chi lavora o chi studia, purché faccia quello che l'obbedienza ci comanda" (ivi, 564). Quindi: "Guai se uno dicesse: oh, sei solo un Coadiutore!" (II, 22).
2. L’ideale comune a tutti è la missione. Non v'è dubbio che il fine per i sacerdoti e i fratelli è identico: la santificazione personale e la cooperazione all'evangelizzazione dei non cristiani. Identici sono lo spirito, le virtù a cui formarsi, l'impegno di preparazione alla missione. I Fratelli sono "apostoli come gli altri loro confratelli sacerdoti". Per l'Allamano, lo sappiamo, la vocazione missionaria è la più grande e il maggior titolo di gloria. Egli stesso si ritiene inferiore ai suoi missionari, anche fratelli. Di qui il rispetto e l'ammirazione con cui tratta i suoi missionari, sacerdoti e fratelli. "Avete ricevuto la vocazione missionaria, o sacerdote o coadiutore [...]. Se non posso essere sacerdote, sarò coadiutore, ma sempre missionario. Anche solo un coadiutore missionario in Paradiso sarà sopra gli altri sacerdoti [...]. E' una bella grazia di Dio anche quella dei coadiutori!" (III, 509). Esorta i fratelli come i sacerdoti ad avere la passione per il regno di Dio, a offrirsi vittime per la salvezza delle anime (cf. I, 553). Concetto che si è calato nelle attuali Costituzioni: Tutti i membri dell’Istituto sono a uguale titolo missionari» (n. 8). Per questo, talvolta chiese tranquillamente a qualcuno che desiderava diventare sacerdote di essere “fratello”. È convinto di non fargli torto, perché si può essere pienamente missionari anche se non preti.
3. Il ruolo proprio del Fratello va delineato in questo contesto di famiglia e missione. L’Allamano lo indica con vari termini: coadiutori, ausiliari, sostegno dei sacerdoti. Parole che potrebbero insinuare l'idea di una posizione subalterna, ma nella mente dell’Allamano lo è soltanto in relazione al ministero sacerdotale e pastorale. L'apporto dei Fratelli alla missione non è di semplice "cooperazione". Infatti:
a) essi sono destinati "principalmente ai lavori manuali" o all’esercizio di professioni tecniche (II, 18). Questo avverbio: "principalmente" o "particolarmente", che appare nei primi regolamenti fino alle Costituzioni attuali sia pure con qualche variante (cfr. Cost. n. 8), sembra essere stato scelto con piena coscienza e oculatezza. Spiegandolo, l'Allamano chiarisce che i Fratelli danno il loro contributo all'opera missionaria soprattutto con il lavoro. Ma questo non spetta soltanto ad essi; anche i chierici e i sacerdoti devono lavorare, al punto che "chi non sappia o non abbia voglia di lavorare non è un vero missionario" (I, 274, 519, 523; III, 563-564, 650-651). D'altra parte, anche i fratelli devono studiare.
Da questa impostazione emerge l'unità e la complementarietà dei membri di una stessa famiglia: coloro che sono destinati al ministero sacerdotale metteranno al primo posto lo studio della filosofia e teologia, poi quello delle "arti e mestieri" collegato con il lavoro; per i Fratelli, invece, questo impegno verrà al primo posto, "senza trascurare [...] lo studio della dottrina cristiana" (cf. I, 306; II, 19, 90). Per tutti poi vi è il dovere di apprendere le lingue.
b) La parola "principalmente" indica pure che il lavoro è l'attività prevalente a cui sono destinati i Fratelli, non esclusiva. L'Allamano non li vede unicamente per il lavoro. Essi "non sono come nelle altre comunità solo destinati al lavoro manuale, ma anche allo spirituale" (III, 389). Infatti, "il missionario, sia sacerdote come coadiutore, è eletto a questo fine": salvare anime (I, 306). Perciò, i Fratelli, come i sacerdoti, devono aver coscienza che sono "messaggeri di Dio" e come tali si devono presentare e farsi riconoscere (I, 28). Egli incoraggia Benedetto Falda, assicurandolo: "riuscirai un missionario di spirito, che vuol dire non vivere solo per lavorare ed anche fare del bene ai neri, ma soprattutto procurare di convertirli col tuo buon esempio e colle tue preghiere" (2.9.1908).
Quindi,i fratelli per l’Allamano sono evangelizzatori e il loro modo proprio di esserlo si attua attraverso il lavoro, l'esempio, la parola.
- Il lavoro. Nella concezione dell’Allamano, il lavoro sia dei sacerdoti che dei fratelli non è un semplice servizio o una necessità, richiesta dall'impianto delle missioni. Per questo egli pensava di poter rimediare, almeno in qualche modo, con lavoratori stipendiati. Il lavoro per l'Allamano è una componente di quella promozione umana che si integra strettamente con l'evangelizzazione: è scuola di promozione umana e condizione di stabilità della vita cristiana. Forse, anche in questo senso il Fondatore ripete che i coadiutori, "se sono utili in tutte le Religioni, sono indispensabili nelle missioni" (II, 19, 22). Lo si deduce anche da quanto scrive a Benedetto Falda: "Con questo lavoro tu sarai di grande utilità alle Missioni; ed il Signore ti mandò specialmente per questo scopo a cooperare alla conversione di codesti infedeli" (Lett. del 9.12.1904).
Il prezioso contributo da essi dato alla missione è visibile nelle opere realizzate: chiese e cattedrali, scuole, dispensari e ospedali, acquedotti, fattorie, laboratori di falegnameria, meccanica e calzoleria, ecc. Questo queste apporto si ferma alle opere realizzate; va visto nell’ambito globale della strategia adottata dai Missionari della Consolata di evangelizzare stando tra la gente per conoscere, avviare contatti, garantire presenze, impiantare la Chiesa.
- L’esempio. L'Allamano, che crede più alla testimonianza di vita e al contatto personale e capillare che alle parole, fa affidamento sul contributo dei Fratelli all'opera di evangelizzazione. A essi raccomanda insistentemente: "dovete dare buon esempio ai confratelli e agli africani, i quali impareranno più dal vostro contegno che dalle vostre parole la stima e l'amore per la nostra santa religione" (cf. I, 423-424). Per questo sottolinea che i Fratelli possono superare gli stessi sacerdoti "nel fare il bene", mostrando come incarnati i valori cristiani della pietà, della pazienza e carità, seminando qualche parola buona in mezzo alle occupazioni quotidiane (II, 19; III, 390).
È questa la preziosa testimonianza data da molti nostri fratelli. Michele Mauro passa quasi tutti i suoi cinquanta anni di missione in un laboratorio di falegnameria, "convertendo con l'esempio". Ernesto Pagliarino: "aveva fatto del suo “garage” un campo di apostolato" (testimonianza di P. Massa). Guerrino Simion, Luigi Rubinetto, Guido Grosso e molti altri, straordinariamente amati dagli africani, hanno educato al cristianesimo con il loro esempio.
- La parola. Fin dall'inizio, l'Allamano assegna ai Fratelli anche il compito esplicito dell'evangelizzazione con l'insegnamento del catechismo. Tra le doti richieste a chi si vuol fare Fratello richiede quel tanto di ingegno necessario "per poter fare un pò di catechismo" (III, 403). A Fr. Benedetto Falda scrive: "Quanto bene puoi fare” formando gli africani al lavoro e “insegnando le verità della nostra Fede!” (25.02.1908).
I Fratelli dei primi tempi si sono impegnati con costanza nella catechesi ai loro operai. Fr. Michele Cavigliasso scrive: "Quando potrò fare il catechismo sarò il Fratello più felice del mondo" (7.3.1908); e quando acquisì una sufficiente conoscenza della lingua, afferma: "La più grande consolazione che provo in Africa è fare il catechismo". Di B. Falda si attesta che "non mancava mai una sera di fare il catechismo" (Merlo Pich). Così di Tommaso De Marchi e molti altri.
Ad essi l'Allamano riconosce pure una certa responsabilità di comunità o gruppi. "C'è un coadiutore che mi scrive dall'Africa: 'La mia parrocchia. E' parroco. Ci sono stazioni dove non si può mandare uno, allora va un coadiutore la domenica a fare il catechismo e amministrare i battesimi, come fa Coad. Benedetto" (III 390; II, 90). Evangelizzano con il lavoro, l’esempio, la parola.
II. IL FRATELLO NELL'ISTITUTO
Oltre alla base comune su cui si costruisce la fisionomia del Missionario della Consolata, l'Allamano ha proposto ai Fratelli alcuni atteggiamenti spirituali più specifici, che si possono così sintetizzare:
- stima e amore del proprio stato;
- umiltà;
- pietà;
- amore alla fatica e laboriosità (cf. II, 19-23; III, 390, 563-564).
La generazione di Fratelli formati dal Fondatore si è distinta in queste note da lui proposte. Essi sono ricordati come: lavoratori instancabili, pronti a rispondere a qualunque richiesta, capaci di risolvere i mille problemi pratici della vita di ogni giorno, uomini di grande semplicità e molta preghiera, seminatori di rosari. A molti si potrebbero applicare le parole dette da Mons. Bessone su Fr. Tommaso De Marchi: "un fratello che non ha brillato per doti umane, ma che fu per tutta la vita modello di tranquilla dedizione al lavoro, di incondizionata obbedienza, di delicatezza di coscienza e soprattutto di preghiera continua".
Oltre, quindi, al contributo specifico dei Fratelli alla missione, il loro modo di essere e di vivere la vocazione missionaria mette in luce e tiene vivi dei valori strettamente propri dello spirito dell'Allamano. Qui sta la preziosità della presenza del Fratello nell’Istituto.
1. “Missionari del bene fatto senza rumore". Una nota costante nei profili dei Fratelli è proprio questa: uomini che parlano poco, ma di grande laboriosità. Nella sua "regola di vita" M. Cavigliasso scriveva che il Fratello: "con tutti è amico, di tutti è servo; per tutti è pronto a sacrificarsi; parla poco e opera molto". L'umiltà richiesta dall'Allamano ai Fratelli sta proprio in questo.
La sua ben nota e più volte dichiarata predilezione per i Fratelli non deriva soltanto dal fatto che "lavorano di più con minori soddisfazioni", ma dalla sua visione soprannaturale di fede, dalla convinzione che il regno di Dio non si costruisce con strombazzamenti da gran cassa, ma da coloro che sanno lavorare nel silenzio. Si richiama spesso agli esempi di santi che scelsero di proposito o avrebbero desiderato lo stato di Coadiutori, e in quello si fecero santi: il Beato Alano, S. Alfonso Rodriguez (vedovo e portinaio), S. Francesco di Sales il quale "diceva che avrebbe più volentieri scopato che portato la responsabilità...”; mentre il "Padre Lainez, teologo più insigne del Concilio di Trento ha domandato la grazia di essere trattato da Coadiutore"; S. Francesco d'Assisi che non volle diventare sacerdote (cf. II, 22-23). E lo stesso S. Giuseppe la cui vita insieme a quella di Maria esalta il valore della vita quotidiana. Mette in risalto il valore della “quotidianità” di Maria al Tempio: studiava, lavorava, pregava; della sua visita a Elisabetta per la quale faceva la vita di tutte le donne del paese.
Molti Fratelli hanno testimoniato di aver compreso questo valore amato dall'Allamano e lo hanno vissuto con gioia. Basti la testimonianza di Guido Grosso:
"Sono contento di aver aiutato a costruire altari su cui non ho mai celebrato, di aver messo assieme cattedre su cui non ho mai insegnato, di aver insaccato tanti sacchi di caffè che sono serviti ad aiutare le missioni; perché il fratello coadiutore è colui che non fa nulla che valga la pena di essere scritto, lavora e prega perché il regno di Dio venga nel mondo. E se dovessi nascere un'altra volta mi farei missionario di nuovo, e mi farei di nuovo coadiutore, per rendere testimonianza a Cristo, nel silenzio".
2. Uomini di preghiera. Nonostante la minore disponibilità di tempo per lavori assorbenti che spesso iniziano al mattino presto e terminano a notte inoltrata, i fratelli dimostrano di aver compreso e attuato la raccomandazione del Fondatore di essere "anzitutto uomini di preghiera!". Sono ricordati come "uomini di preghiera semplice e fervente" (Annibale Moretto), di "spirito di preghiera e silenzio" (E. Pagliarino), di "buon esempio e preghiera" (G. Grosso), di "laboriosità e preghiera" (Mussetto).
"Nei momenti in cui lascio riposare i buoi - scrive Michele Cavigliasso - faccio qualche preghiera; do così esempio agli operai facendo loro vedere che i missionari pregano" (30.6.1907). E a chi gli domandava il segreto della serenità dei missionari rispondeva: "Noi missionari siamo sempre contenti, perché pensiamo sempre a Dio, parliamo di Dio, e Dio parla al nostro cuore" (16.2.1908).
Tommaso De Marchi è descritto con tre parole: "pregava, lavorava, faceva del bene", e soprattutto: "La preghiera era l'attività prima nella sua vita". E lo si potrebbe dire di molti altri.
Sembra che essi abbiano più intensamente vissuto la dimensione eucaristica raccomandata dall'Allamano. E' il primo elogio che lui stesso fa dei Fratelli. Nelle circolari scritte per la morte dei primi due: Giacomo Gaidano e Michele Cavigliasso, si sofferma proprio su questo punto, che certamente l'aveva colpito nel leggere le loro lettere e i loro diari. Cita la lettera di Giacomo Gaidano del 28 marzo 1916, nella quale scrive di essere stato lasciato solo in missione in occasione del battesimo di Karoli e prosegue: "Ho detto che ero solo, ma ho detto un gran sproposito; perché nella chiesa vi era il SS. Sacramento e quindi altro che solo! Ero nientemeno che con il Re dei re, ed io solo a corteggiarlo. Lungo il giorno lavorando da falegname attorno a diverse cosette, stavo volentieri presso la chiesa per così essere più vicino a Nostro Signore e per poter pensare solo a lui, facendo atti di adorazione e di amore onde supplire a quello che avrebbero fatto i miei confratelli che andarono a Tuso" (Lett. circ. 4.3.1919).
Nella circolare del 15 ottobre 1921 per la morte di Michele Cavigliasso, dopo aver parlato della sua virtù, l'Allamano continua: "attingeva questa virtù religiosa nella devozione al SS. Sacramento. Passava in chiesa tutto il tempo che gli era possibile. Disse due giorni prima della morte [...] che se avesse avuto un giorno a sua disposizione, l'avrebbe passato tutto innanzi a Gesù Sacramentato. Ed aggiunse: 'Se verrà tempo in cui non potessi più lavorare, lo passerei tutto in adorazione al SS. Sacramento [...]. Ecco dove si formano i Santi Missionari, come S. Francesco Zaverio!".
A questo riguardo molte sarebbero le citazione che si potrebbero fare. Edoardo Caffo riceve il viatico esclamando: "Ecco l'amor mio che ricevo per l'ultima volta!". Serafino Breuza propone: "Durante il lavoro farò sovente, in spirito, visite affettuose a Gesù Sacramentato in unione a Maria SS., esaminandomi su ciò ogni settimana e imponendomi una penitenza se tralascio questa pratica"; si prefigge anche di offrire almeno sei volte al giorno tutte le Messe che si celebrano "affinché il regno del suo amore venga presto in tutti i cuori".
Di Bartolomeo Liberini è proverbiale la devozione eucaristica e le lunghe ore passate in chiesa. Ai piedi di Gesù Sacramentato sente crescere in sé un forte desiderio: "passare in adorazione il mio paradiso su questa terra fino alla fine del mondo ai piedi dei tabernacoli più abbandonati" (4.5.1955).
E come non ricordare Fr. Cappelli e Luigi Rubinetto, uomini di preghiera che passavano ore e notti in silenziosa adorazione davanti al Sacramento!
3. Gioiosi servitori della missione. Molti dei nostri Fratelli hanno compreso la grandezza della loro vocazione e l'hanno vissuta senza complessi.
Guglielmo Arossa, prima della partenza per l'Africa, esprimeva il desiderio di donarsi interamente al Signore a "indirizzare tutto alla sua gloria ed alla salute degli infedeli". Nicola Bocchini attestava alla fine della vita: "Nonostante le difficoltà incontrate nella mia vita religiosa, ho sempre amato la mia vocazione missionaria" (24.9.1963). B. Liberini: "Non chiedo vacanza né riposo, sono geloso della mia totale donazione a Dio. Sento che invecchio e vorrei fare ancora molto per salvare tante anime" (2.11.1954). E in un altra lettera al Vice Superiore Generale: "Il missionario invecchia nella più grande felicità, vivendo una vita austera e guardando al premio che l'aspetta per le fatiche sostenute per amor di Dio e la salvezza delle anime" (24.10.1949) .
Ancora più espressiva e riassuntiva è l'affermazione di Felice Crespi: "Non saremmo missionari, figli dell'Allamano, se la fiamma delle missioni si spegnesse nel nostro cuore, anche se per obbedienza non possiamo raggiungerle".
Il desiderio di dare tutto alle missioni si trova spesso nelle loro lettere e diari. E. Pagliarino scriveva all’'Allamano: "Ora abbiamo splendide giornate di sole incandescente che sarebbe un peccato non occuparle al completo nel lavoro del Signore". Questa dedizione totale alla missione è fatta con gioia e la trasmettono.
A volte, per il lavoro e la loro formazione, i Fratelli sono sembrati vivere un po’ al margine della comunità, con una certa riservatezza e rusticità, ma il più delle volte essi si sono caratterizzati per il loro spirito arguto, l'allegria, l'ottimismo, sapendo sdrammatizzare le difficoltà e portare la pace. Così sono ricordati, ad esempio: Annibale Moretto, Ugo Bonaudo, Enrico D'Alberto, Ottavio Mussetto, Guido Grosso, Vincenzo Cosa).
III. DIFFICOLTA’ SPERIMENTATE DAI FRATELLI
Le testimonianze riferite riguardano quasi esclusivamente i Fratelli cresciuti alla scuola dell'Allamano. Ciò non significa che lo stampo si sia poi perduto. Vi sono ancora Fratelli formati successivamente che nulla hanno da invidiare a quelli della prima generazione.
Tuttavia, si deve anche riconoscere che nell'Istituto si sono affacciati periodicamente degli interrogativi sui quali sono intervenuti i Capitoli Generali e altri delle Direzioni Generali. Questo non dipende soltanto dal numero dei Fratelli, che negli ultimi anni si è ridotto in modo preoccupante. Già l'Allamano osservava che esso “è generalmente scarso per la poca conoscenza che si ha nel mondo del loro sublime stato e del bene che possono fare" (II, 19). Non deriva neppure da minore apprezzamento della loro necessità nelle missioni o del valore della loro vocazione. I nostri documenti lo hanno sempre affermato.
Si possono individuare tre cause.
1. Due "classi". Non v'è dubbio che l'Allamano abbia pensato a un gruppo unico di missionari, animati dallo stesso spirito, per perseguire lo stesso fine: la Missione “ad gentes”. Nel primo Regolamento indica tra i membri dell'Istituto: "sacerdoti e laici desiderosi di dedicarsi alle Missioni", senza alcuna distinzione di classe. Di conseguenza anche la formazione è unica. Solamente nelle Costituzioni del 1909 entra la distinzione in due classi, per rispetto a esigenze di carattere giuridico. Ciononostante è sempre rimasto forte il senso di appartenenza a una sola famiglia. Ne è prova il fatto che ha sempre trovato opposizione ogni trattazione rivolta specificamente soltanto ai Fratelli o iniziative che avessero anche solo l'apparenza di separarli dai sacerdoti.
Tuttavia, la distinzione di "classi", nonostante le spiegazioni del Fondatore, e il diverso grado di preparazione hanno creato qualche contrapposizione. Infatti:
- Inseriti in una Congregazione "clericale", praticamente senza possibilità di accedere a posti direttivi, i Fratelli si sono sentiti dipendenti dal gruppo dei padri. Il Capitolo del 1981, rivedendo le Costituzioni alla luce dei documenti Conciliari, era contrario a indicare l’Istituto come “Congregazione clericale” (cf. Cost. n. 7). Lo dovette fare per disposizione dell’autorità superiore.
Pure il concetto di "ausiliari" dei sacerdoti nell'apostolato, che si trova anche nel Fondatore. Ma in lui è prevalente la prevalente la loro considerazione come "veri apostoli". Inoltre, la loro destinazione "principalmente" ai lavori manuali, poco per volta è diventata "esclusiva". Questo ha portato a servirsi di essi in modo non voluto dal Fondatore, cioè quasi come i frati "conversi" di altre Congregazioni religiose. Ciò è dovuto in gran parte alle necessità delle missioni e dello sviluppo dell'Istituto. La sua espansione, specialmente in Italia, con l'acquisto di case spesso fatiscenti o comunque bisognose di adattamento e ristrutturazione, ha richiesto sempre più la loro opera in lavori manuali.
Il Capitolo Generale del 1969 si è dibattuto per l'abolizione delle classi e per una maggiore qualificazione intellettuale o professionale dei Fratelli che eguagliasse quella dei sacerdoti, sia pure in campi diversi. Ma la remora giuridica sopra ricordata pesa ancora sulla integrazione piena tra i membri di una stessa famiglia.
2. La formazione. Già con Mons. Perlo si sentì la necessità di prestare maggiore attenzione alla preparazione dei fratelli e si prospettò di organizzare una casa appositamente destinata a questo scopo. Anche perché l’esperienza mostrava che la vocazione del Fratello esige maggiore maturità e una coscienza chiara di ciò che essa comporta. Si constatava migliore riuscita aveva chi proveniva da una esperienza matura di vita cristiana e di lavoro o con una professione, e in coloro che a contatto con la realtà missionaria seppero supplirvi.
Il progetto di una casa destinata alla formazione dei fratelli fu attuato dal Visitatore, Mons. Pasetto, che nel 1930 destinò ai Fratelli la casa e cascina di Comotto. Lodevole fu l'impegno dei suoi direttori, specialmente P. Bisio e P. Eugenio Menegon, per attuare un piano di formazione religiosa, professionale e intellettuale, prima e dopo il noviziato. Tuttavia, le buone intenzioni furono vanificate dalle necessità impellenti della casa stessa e poi per la ristrutturazione di altre, come Varallo Sesia, Certosa, Casa Madre (soprattutto dopo il bombardamento del 1942), e per lo spostamento di sedi a Uviglie, Cereseto, Alpignano.
Nel 1937 si aprì anche una casa per aspiranti coadiutori a Rosignano Monferrato, presto mescolati con i postulanti e i professi candidati al sacerdozio, a scapito della formazione specifica dei Fratelli. Una migliore organizzazione si ebbe ad Alpignano dopo il Capitolo del 1949. Una apposita Commissione precapitolare aveva approfondito l’esame sulla situazione e la formazione dei Fratelli, presentando proposte concrete di miglioramento.
Ma, ancora una volta, una formazione di tipo seminaristico, ricalcata sui metodi formativi in uso per i candidati al sacerdozio, non favorì la formazione specifica degli aspiranti alla vita consacrata come Fratelli. Tanto più quando alcuni, avviati inizialmente al sacerdozio, furono poi inseriti con gli aspiranti Fratelli.
3. Il lavoro. La "mistica" del lavoro che ha caratterizzato i Fratelli e ha reso molto preziosa la loro opera nella missione, e ha anche gratificato la loro vita, non sempre si regge. Rimane sempre valido lo spirito di laboriosità, impegno e dedizione, ma il lavoro "manuale" ha assunto connotati diversi. Sono cambiate le situazioni missionarie, con minore coinvolgimento diretto nella realizzazione di strutture, l’utilizzazione di personale locale o di laici specializzati per un lavoro temporaneo. Per il mutare di queste situazioni, anche una specializzazione a senso unico può risultare insufficiente per chi si consacra alla missione.
È cresciuto il servizio alla missione di laici non consacrati, e in particolare di coloro che si identificano con lo spirito del Fondatore. Ciò va incoraggiato per l’allagamento dell’impegno dei battezzati per la missione, ma pone anche la necessità di un approfondimento e di una presentazione appropriata del carisma del laico consacrato come Missionario della Consolata. E va pure meglio precisato in quali forme egli può prestare un vero servizio all’interno dell’Istituto, delle sue attività e scelte preferenziali, sempre nell’ottica allamaniana dell’unità di intenti, dell’internazionalità e della preferenza alla prima evangelizzazione.
CONCLUSIONE
Il Padre Fondatore era convinto che i Fratelli sono indispensabili alla Missione. Questa sua convinzione non pare sia nata soltanto sulla base di necessità concrete. Con la Fondazione dell'Istituto egli ha inteso prestare un servizio alla Missione della Chiesa e anche agli individui, offrendo loro la possibilità di realizzare una vocazione di totale consacrazione alla Missione.
Inoltre, la presenza dei Fratelli nell’Istituto, è per tutti un richiamo a atteggiamenti dello spirito del Fondatore che essi hanno dimostrato di assorbire meglio. Forse è mancata nella loro formazione l'attenzione a questo qualcosa di tipico pur nell’unicità dello stesso spirito dell’Istituto. Ciò va oltre ed è più prezioso della sempre sottolineata destinazione a attività professionali o manuali.
È auspicabile una maggiore chiarezza sulla identità del Fratello e sui modi concreti di prestare il suo servizio missionario come laico consacrato. Una “consacrazione” e un “servizio” che lo caratterizzano in modo forte e singolare. Per cui il Fratello Missionario della Consolata non si può confondere con altre forme di cooperazione laicale, come è avvenuto alcune volte nel passato e con maggior enfasi anche oggi.
In questo senso, va meglio presentata e valorizzata l’identità del Fratello Missionario della Consolata, come lo ha pensato e voluto il Beato Giuseppe Allamano.