Questi due modi di affrontare le sfide sono ambedue necessari e non devono essere contrapposti, anzi devono articolarsi sempre più – meglio se si realizzano nella vita di ogni missionario – mettendo bene a fuoco prima di tutto l’obiettivo della missione, che è quello di promuovere la vita in abbondanza per tutti, soprattutto per i poveri; in secondo luogo creare fraternità universale, tessendo quella rete di rapporti umani, sociali, interculturali per superare ogni frammentarietà e autoreferenzialità e tendere al progetto del Dio di Gesù Cristo che vuole formare una unica e grande famiglia universale.
Il più grande equivoco per un missionario, laico o consacrato, uomo o donna, giovane o anziano, è quello di pensare che sia il luogo geografico a determinare il suo impegno, l’intensità e la qualità della sua azione; oppure pensare che per raggiunti limiti di età, per circostanze varie possa ritirarsi a vita privata e in un certo senso pensare che la “sua” missione sia compiuta.
Il missionario sa che la vocazione è un dono e per questo rimane tale sempre e dovunque: in Africa, in Asia, in America, in Europa; solo che a differenza del passato deve tenersi allenato a vivere e a pensare sempre più in un contesto di missione globale.
La Chiesa è per sua natura missionaria
Dall'inizio la Chiesa nata a Pentecoste è una Chiesa missionaria. Emerge chiaramente dal racconto degli Atti degli Apostoli. La missione è la vera natura della Chiesa. Così come bruciare è la natura del fuoco, la natura della Chiesa è essere missionaria. È quanto esprime il documento del Vaticano II, Ad gentes: la Chiesa pellegrina è «missionaria per natura» (AG 2). E questo è vero non solo per la Chiesa universale, ma anche per ogni Chiesa locale, anche quella nell’angolo più remoto del mondo. Ognuno nella Chiesa è missionario. Se noi, discepoli e discepole di Gesù oggi, vogliamo essere fedeli a questa Chiesa nata a Pentecoste, dobbiamo essere disposti a farci scuotere dallo Spirito di Dio, perché scompaiano la nostra paura, la nostra indifferenza, la nostra mancanza di impegno per la missione ad gentes.
Ma, che significa oggi la missio ad gentes per noi?
Dai tempi della Chiesa primitiva c’è stata una chiara distinzione fra «gentes» (ethne) e «populus Dei» (laos tou theou). Cioè, la distinzione fra il popolo eletto da Dio e le nazioni, fra giudei e gentili, fra circoncisi e incirconcisi, fra credenti e pagani. Di fatto, questa distinzione è diventata la base della separazione dei compiti fra Pietro e Paolo. Così ha detto Paolo nella sua lettera ai Galati: «Mi è stata affidata l’evangelizzazione degli incirconcisi, mentre a Pietro quella dei circoncisi, poiché colui che ha agito in Pietro per fare di lui un apostolo dei circoncisi, ha agito anche in me per farmi apostolo dei gentili» (Gal 2,7-8).
Insieme a questa distinzione c’era l’altra, fra il centro della fede e la periferia dell’incredulità, la «non credenza» o la distinzione fra «dentro» e «fuori». Nella Chiesa primitiva il centro della fede era Gerusalemme e le nazioni circostanti erano la periferia dell’incredulità. Nella storia della Chiesa l’Europa cristiana era il centro della fede e il resto del mondo la periferia dell’incredulità. Nel contesto di questa duplice distinzione, missio ad gentes era necessariamente missio ad extra. Missione era «uscire» verso le «nazioni pagane». Missione era un movimento unidirezionale dall’Europa cristiana verso il mondo pagano. Da questa concezione nascono espressioni come «Paesi che mandano missionari» e «Paesi che ricevono missionari». O anche «Chiesa missionaria» e «Chiesa di missione».
La missione ad gentes e la missione inter gentes
Due fenomeni recenti hanno cambiato questa situazione radicalmente, uno nella Chiesa e l’altro nel mondo.
a. Il primo fenomeno è il sorgere di missionari originari dal Sud del mondo. L’Europa ormai non è né l’unica né la principale fonte di missionari. Questo dipende dalla drastica diminuzione delle vocazioni religiose e sacerdotali in Europa e negli Stati Uniti. Così adesso siamo testimoni del fenomeno di missionari originari del Sud del mondo, specialmente dell’Asia e Africa, ma anche dell’America Latina. Questo cambiamento, a sua volta, è collegato alla crescita e alla maturazione di quelle che prima chiamavamo «Chiese di missione». E non si tratta solo di ciò che si suole chiamare «missione invertita», cioè di missionari degli antichi territori di missione che vanno come missionari in Europa. Perché ci sono anche missionari del Sud che vanno come tali in Asia, Africa e America Latina. Per questo oggi parliamo anche di «missione da Sud a Sud» in contrasto con la situazione precedente che era principalmente un fenomeno «da Nord a Sud».
b. L’altro fenomeno è il crescente multiculturalismo di molte delle città e dei Paesi del mondo. A causa del fenomeno della «mobilità» delle persone, sia a motivo delle migrazioni internazionali, sia per la situazione dei rifugiati, le società stanno diventando sempre più multiculturali. Al passaggio del millennio si stimava che nel mondo ci fossero circa 150 milioni di emigranti internazionali, cioè uno ogni 50 persone. Si stimava anche che ci fossero 50 milioni di rifugiati o emigranti forzati. Nonostante le migrazioni siano un fenomeno antichissimo, è la natura globale delle migrazioni della nostra era a dare un rilievo speciale al fenomeno. Sempre di più una grande quantità di persone sceglie o si trova obbligata a emigrare. Gli emigranti internazionali vengono da tutte le parti del mondo e vanno in tutte le parti del mondo. Come risultato, oggi non ci sono solo persone di diverse culture che molte volte si vedono forzate a vivere insieme con altri. Molte delle città del mondo oggi sono abitate da gruppi culturali estremamente differenti. E spesso la diversità di culture significa anche diversità di religioni. Questo movimento massiccio di persone sta cambiando radicalmente il volto delle nostre città.
Da quanto detto deriva che oggi la missio ad gentes non si può considerare solo come missio ad extra. Perché le gentes ormai non sono solamente quelli che stanno là fuori. Le gentes stanno anche qui fra noi e attorno a noi. Può essere la famiglia della porta accanto, la persona vicino a noi nell’autobus, il giovane che viene ad aggiustarmi il televisore, la donna che mi vende la verdura al mercato.
Oggi è necessario capire sempre più la missio ad gentes anche come missio inter gentes. Pertanto, questa missio ad gentes implica fra l’altro il compito di costruire o promuovere una Chiesa autenticamente interculturale, cioè, una Chiesa che sia casa di gente di differenti culture, strumento di dialogo interculturale e segno di inclusione totale del Regno di Dio.
Verso una Chiesa multiculturale
Agli occhi di stranieri e forestieri una Chiesa multiculturale non appare solo come una comunità più tollerante, ma anche come una comunità molto più accogliente. Tre sono, soprattutto, gli elementi essenziali perché si realizzi questa condizione di accoglienza:
a. primo, una Chiesa che sostiene il riconoscimento delle altre culture che ammette, per esempio, che la cultura degli immigrati sia anche visibile nella comunità;
b. secondo, una Chiesa che incoraggia il rispetto della diversità culturale, cioè si oppone a qualunque tentativo di sottomettere le minoranze culturali alla cultura dominante;
c. terzo, una Chiesa che promuove un rapporto salutare di interazione fra le culture, cioè che cerca di creare un clima nel quale tutte le culture abbiano la possibilità di arricchirsi reciprocamente. Una comunità che si distinguesse davvero per queste caratteristiche, risulterebbe attraente per persone di provenienze molto diverse, che potrebbero sentirsi realmente integrate in essa.
Una Chiesa realmente multiculturale, tuttavia, non può limitarsi a seguire coloro che appartengono alla comunità, cioè gli immigrati cattolici o cristiani. Una Chiesa autenticamente multiculturale deve guardare oltre se stessa e dirigersi ai migranti non cristiani, ai rifugiati e agli sfollati, proponendosi come uno strumento di dialogo interculturale nella società. Questo presupporrà la promozione permanente di un dialogo autentico fra persone di culture differenti.
Una Chiesa che alimenta l’autentica interculturalità al suo interno e che promuove il dialogo tra le culture all’esterno sarà un segno credibile dell’apertura del Regno di Dio a persone di tutte le culture e nazioni. Sarà testimonianza dell’universalità e dell’apertura alla diversità del Regno. In questa epoca di globalizzazione, è necessaria specialmente una testimonianza di questo tipo. Perché la globalizzazione, da una parte, tende a escludere ed emarginare i poveri e i deboli; e, dall’altra, a creare una uniformità che sradica le differenze.
Una Chiesa multiculturale sarà segno che il Regno include tutti e non esclude nessuno e che in esso non ci sono né stranieri né forestieri, ma solo fratelli e sorelle. Sarà l’immagine della convocazione di tutti i popoli evocata dal profeta Isaia: «Così dice il Signore: io vengo a riunire tutte le nazioni e lingue; verranno e vedranno la mia gloria» (Is 66,18).
Un osservatorio per la Missione
C’è un unico modo per poter cogliere la sfida della missione globale: fermarsi e riflettere, cercando di articolare sempre più dialetticamente la “missione vissuta” e la “missione pensata”, per non lasciarsi sorprendere.
Nell’ultima Lettera Enciclica, Caritas in Veritate, Benedetto XVI afferma: “Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l’amore” (n. 30).
Per questa ragione sono promosse tante iniziative di riflessione teologica, biblica e pastorale alla ricerca di nuove strade per un rinnovato impegno nella missione globale rivisitando il nostro carisma. Molti aspetti e temi sono affrontati e di altri si discute e ci si confronta, come per esempio la necessità di riformulare il nostro impegno in Europa, promuovendo una presenza e azione missionaria piuttosto che animazione missionaria, in altre parole mostrare e non solo raccontare la missione. La questione del linguaggio non più adeguato a parlare e farsi comprendere dai giovani e dal mondo laico di oggi, per esempio il termine “ad gentes” cercando di superare la questione etnica e geografica del termine, definendolo piuttosto come il nuovo spazio sociale e culturale nel quale i missionari devono inserirsi. Il termine “ad vitam”, come l’impegno a saper promuovere i valori della vita, soprattutto dove questa è disprezzata e vilipesa. Il termine “ad pauperes” come urgenza e necessità di scegliere uno stile di vita sobrio e solidale con e tra i poveri. Il termine “ad extra” soprattutto come impegno di promuovere e educarsi a rapporti interculturali e interreligiosi fecondi e segno di fraternità già in atto nell’oggi della storia.
Nell’occhio del ciclone
Alcuni lo avevano previsto ed avevano dato l’allarme: le scelte nel campo della finanza e dell’economia che da decenni venivano fatte a livello mondiale ci avrebbero travolto. Come un gigante dai piedi d’argilla l’impero economico costruito su marchingegni e macchinazioni virtuali e speculative, come una bolla di sapone, si sarebbe evaporato; facendo finta spudoratamente di non sapere che la ricchezza è frutto di lavoro e del sudore della fronte, quello reale, di milioni di operai, agricoltori, tecnici, professionisti e lavoratori di ogni continente.
La ricchezza inoltre accumulata ingiustamente nelle mani di poche élites con la pretesa di trarre il massimo profitto e escludere intere popolazioni, negando loro i fondamentali diritti e l’accesso ai beni di prima necessità avrebbe provocato rivolte, rabbia, guerre e tensioni, minando così la speranza del futuro.
Tutte proposte e iniziative semplici e alla portata di tutti, certo non nella direzione dei potenti, dei G8 e dei G20 che continuano a fare calcoli, emanare decreti, promuovere leggi e iniettare fondi per cercare di mantenere in piedi quel sistema economico e finanziario che ormai fa acqua da tutte le parti e purtroppo continua a generare sofferenza, disoccupazione e precarietà per milioni di lavoratori, la chiusura di tante piccole imprese e soprattutto non risolve il problema della fame di un miliardo di persone nel mondo, così come ci ha ricordato recentemente la FAO.
In realtà però la crisi economica è solo la punta dell’iceberg perché è più giusto parlare di crisi sistemica, nel senso che attinge tutto il sistema vitale e ambientale, il rapporto interculturale e interreligioso tra i popoli e le nazioni, tutto il modo di concepire la convivenza umana e tutta la gamma di valori etici, morali, sociali, religiosi e culturali, che di per sé costituiscono la vera ricchezza dei popoli e ai quali bisogna far ritorno per costruire insieme un futuro sostenibile.
Tra tutti i segni dei tempi questo è il segno per eccellenza dell’inizio del terzo millennio, segno che scuote le fondamenta di argilla di questo sistema globale e che svela le sue contraddizioni soprattutto nella sua caparbietà ed egoismo a mantenere intere popolazioni in condizioni di non-vita. Allo stesso tempo diventa un’opportunità perché provoca la necessità di riformulare un nuovo paradigma mondiale per la convivenza pacifica e fraterna tra i popoli. Un’opportunità per la missione che deve partire proprio dall’occhio del ciclone per rinnovarsi e far crescere la speranza tra i poveri nell’ottica del progetto di Dio che vuole costituire un unico popolo di “ogni lingua, razza, etnia e nazione”.
Una bussola per orientarsi
Sono fondamentalmente tre i parametri per vivere la missione in tempo di crisi, che compongono la bussola per orientarsi nella rotta da seguire: la prassi missionaria di Gesù storico, la re-interpretazione del carisma fondazionale e la lettura attenta dei segni dei tempi.
Ritornare alla prassi missionaria di Gesù storico diventa un imperativo per il rinnovamento della missione, soprattutto tenendo presente due condizioni: leggere e interpretare la Parola nelle varie versioni evangeliche a partire dal luogo e dalle situazioni contestuali nelle quali sono state descritte e situate. In secondo luogo cogliere la novità della prassi di Gesù a partire dal suo dislocamento da Nazareth a Cafarnao, dalla terra dei suoi fratelli, piuttosto farisei osservanti, verso la città cosmopolita, dove la legge mosaica non ha tutto il peso che gli si dava a Gerusalemme, dove viene superata la distinzione tra puro ed impuro e la precettistica farisaica. Scegliere di vivere tra coloro che son considerati peccatori, esclusi, impuri e emarginati e rivolgere loro la grande novità del Vangelo chiamandoli“Beati”.
Rileggere inoltre il carisma in un contesto sociale, ecclesiale, antropologico profondamente mutato; prima di tutto come forza che dà capacità di operare nell’oggi con la forza dello Spirito e in secondo luogo come una storia che va continuamente riletta e re- interpretata nella stessa prassi missionaria a seconda del tempo e dei vari contesti sociali e culturali dove i missionari vivono ed agiscono. L’identità di un carisma di fondazione non è determinabile semplicemente in base alla ricostruzione storica del suo momento originario ma piuttosto come una re-invenzione da parte dello Spirito. Si può difatti sapere come quella storia è cominciata, ma non come si svilupperà. “Anzi la riappropriazione del carisma resiste ad ogni tentativo di esumare un“corpo morto” che lo farebbe ineluttabilmente un oggetto del passato, e cesserebbe di essere un ‘vivente’ nello Spirito del Signore” ( B. De Marchi ). Del resto lo stesso Gesù, dal quale ogni carisma trae forza e origine ha detto ai suoi discepoli: “ È meglio per voi che io parta perché, se non parto, il Paraclito non verrà a voi” (Gv 16, 7).
Infine la lettura sapienziale dei segni premonitori dei tempi, soprattutto attraverso un atteggiamento di apertura e con occhi contemplativi, lasciandosi sorprendere dalla presenza dello Spirito che soffia dove e come vuole. La complessità della realtà stimola i missionari a non aggrapparsi spasmodicamente a quanto è stato codificato nel passato, né a riproporre approcci di lettura e di interpretazione stereotipati, ma senza remore, favorire la pluralità di vedute, di interpretazioni, creando spazi soprattutto a nuovi approcci per esempio quello interculturale, laicale e al femminile.
Il coraggio di abbattere i muri
Non solo quelli visibili che custodiscono le nostre abitazioni, spesso voluminose e per la maggior parte del tempo vuote, ma tirate a nuovo per garantire il confort, la quiete e il silenzio e che impediscono di immergersi nella realtà della vita quotidiana della gente; ma soprattutto i muri che abbiamo innalzato nei cervelli, quelli che impediscono di sognare e osare il futuro.
La riflessione che si sta sviluppando tende ad ipotizzare un nuovo paradigma missionario, indispensabile per dare senso e fondamento alla prassi missionaria in un contesto globale. Il paradigma deve potere contare su alcune coordinate.
a. La prima riguarda il criterio ispiratore che è la storia messianica di Gesù e una conseguente visione di Dio. In questo quadro vanno ripresi e approfonditi alcuni simboli significativi, per esempio: il nostro spirito di famiglia, la nostra promozione umana, il bene fatto bene e senza rumore, il vivere tra e con la gente… proprio per il fatto che il carisma necessita di una re-interpretazione in rapporto alla realtà dell’oggi.
b. La seconda riguarda il metodo che deve partire dall’analisi sempre più pluralista non solo per i vari contesti nei quali i missionari e le missionarie sono inseriti, ma perché deve coinvolgere gli stessi destinatari e altri partners dell’evangelizzazione. Sempre più emerge difatti l’esigenza di corresponsabilità e di reciprocità missionaria, a partire da due condizioni imprescindibili: l’inserimento nelle chiese locali e la scelta dei poveri.
c. La terza riguarda lo stile di vita. L’identità carismatica spinge sempre di più a formare comunità aperte e inclusive, formate da uomini e donne, sposati e celibi, consacrati e laici, educandosi a rapporti interculturali in ogni continente come vere comunità apostoliche.
In questo modo possiamo contribuire e costituirci come uno dei segni dei valori del Regno in un tempo di crisi, attraverso la vicinanza alle domande della vita (ad vitam) e nella condivisione con coloro che vivono ai margini costretti alla emarginazione e all’esclusione (ad pauperes), con uno stile di vita fraterna e aperta alla diversità culturale.
A mò di conclusione per continuare a riflettere
Sebbene la missio inter gentes sia una chiara possibilità, essa non elimina la necessità della missio ad gentes ad extra. Anzi, i «territori missionari» tradizionali continuano ad aver bisogno della testimonianza interculturale e del servizio del dialogo profetico. In realtà, la missio ad extra è essenziale se vogliamo che la missio inter gentes in casa si traduca in un impegno serio.
In primo luogo, la missio ad extra offre al missionario l’esperienza di riconoscersi parte di una minoranza in un Paese straniero. Questo in generale permette al missionario di vedere come la missione debba essere dialogo inter gentes e non solo proclamazione ad gentes. E porterà anche il missionario a capire perché l’umiltà, l’impotenza, il rispetto e la solidarietà sono esigenze della missione. Secondo: la missio ad extra permette anche al missionario di esporsi alle culture e religioni originali degli migranti che vengono nei nostri Paesi. E questo darà al missionario l’opportunità di studiare e comprendere realmente le culture e religioni di queste persone. Una simile esperienza finirà senza dubbio per portare benefici anche alla missio inter gentes a casa nostra.
Su questi parametri e su queste prospettive possiamo verificare l’autenticità della nostra missione.
Grazie, coraggio e avanti in Domino!