Vorrei considerare
le varie età della vita del prete come un possibile tempo di
santità, con le sue prove e
le sue grazie. Il taglio della mia
riflessione non sarà sociologico né culturale, e nemmeno
direttamente pastorale,
ma apertamente spirituale. Vorrei dare un
piccolo contributo alla fecondità dell’anno sacerdotale, nel
ricordo del
150° anno della morte del Curato d’Ars. Egli ha
vissuto ogni età come un luogo di pienezza, pur sperimentando molte
prove esterne ed interiori.
Ricordo tre punti di vista, a partire dai quali parlare di pienezza a proposito della nostra vita. Prima di tutto si può parlare di ‘pienezza’ per ogni età in senso ontologico-sacramentale, a partire dalla benedizione del Padre in Cristo e dal Battesimo.
In secondo luogo, dal punto di vista della risposta umana alla grazia di Dio, non si deve dimenticare né sottovalutare il fatto che la vita spirituale è un “cammino”. Esiste dunque una maturazione che si distende nel tempo ed è fatta di libertà con la quale, di giorno in giorno, si dice di sì a Dio e si permette allo Spirito Santo di attraversare la nostra personalità perché tutta sia compaginata a immagine di Cristo.
Si può aggiungere una terza osservazione importante. Della nostra vita (voglio dire del nostro domani) noi non sappiamo mai nulla: il nostro futuro resta un segreto di Dio. Perciò l’oggi è l’unica carta che noi abbiamo da giocare nel dare risposta alla grazia di Dio. Quel che conta è, dunque, che questa risposta venga data con generosità e coraggio oggi, come fece Pietro il giorno in cui Gesù lo chiamò (cfr Mt 4, 18-20). Quando questo avviene, qualora la nostra vita - sia che si tratti della giovinezza, sia si tratti della terza età - oggi stesso si concluda, dinanzi a Dio sta il ‘sì’ del nostro amore al suo amore. Che cosa volere di più, in quel momento?
In questo senso ogni età della vita, pur venendo caratterizzata da circostanze molto diversificate e da livelli di maturità non equiparabili, può esprimere una certa relativa pienezza. A questa pienezza occorre sempre invitare le persone, a cominciare dai bambini.
Entro ora
direttamente in merito alla relazione di oggi che
riguarda
soprattutto la storia segreta di ognuno. Mi soffermerò anzitutto sul
travaglio col quale dobbiamo
confrontarci e sul suo contesto. Mi
chiederò poi: “Che fare?” per camminare verso una nuova
maturità. Dedicherò,
infine, un pensiero particolare ai sacerdoti
anziani.
IL TRAVAGLIO E IL
SUO CONTESTO CONCRETO
Parto da una domanda: che succede, col passare degli anni, nella vita personale di noi preti? Quale esperienza va compiendosi dentro di noi?
È giusto porsi questi interrogativi perché possono verificarsi in noi delle modificazioni non superficiali che occorre considerare, dato che possono indicare dei passi urgenti e importanti da compiere per maturare come uomini e come preti.
Sappiamo che la prima risposta alla vocazione può essere difficile; spesso, però, non lo è nemmeno molto. Lo è invece quasi sempre la risposta che va data alla vocazione nel tempo in cui essa viene visibilizzata con l’esercizio del ministero. Qualcuno (mi riferisco a R. Voillaume) ha parlato di una ‘seconda chiamata’1, che non è propriamente un’altra rispetto alla prima, ma è il ritrovamento della prima e unica vocazione a un livello di maturità maggiore, passando attraverso il crogiuolo di molte vicende distese sugli anni spesi ‘in missione’.
Del fatto che la
nostra vita di preti si caratterizzi come travaglio non ci dobbiamo
scandalizzare, dato che anche gli uomini di Dio dell’Antico e del
Nuovo Testamento lo hanno conosciuto (penso ad
Elia, a Geremia, a
Pietro, a Paolo) in forme e in misure tutt’altro che trascurabili.
Si tratta di un cammino che
può vedere meravigliose evoluzioni e
tremende involuzioni. In ogni caso, tutti i profeti e gli apostoli
devono
disporsi a una graduale e profonda purificazione.
Non dobbiamo dunque sorprenderci che il travaglio, variamente motivato, coinvolga anche noi. E non soltanto per cause esterne, ma anche interne a noi stessi. Quando si diventa preti, si crede di aver capito che cosa significano e implicano le promesse fatte durante il rito di ordinazione. Ma poi il tempo si incarica di mostrarci che non era esattamente così. E non nel senso che non si . era capito nulla, quanto nel senso che solo lo svolgersi dell’esistenza, con tutti i suoi risvolti, permette di scendere dalla superficie delle cose alla loro profondità.
La rilevanza di
alcune circostanze concrete
Quello svolgimento
comprende molte circostanze concrete. Per esempio, il
luogo dove si
esercita il ministero; le persone con le quali si collabora; i fedeli
che compongono la comunità; il
presbiterio nel quale si viene
introdotti; la comprensione o l’incomprensione da parte di chi ci
sta più vicino o ha
delle responsabilità nei nostri confronti; la
situazione socio-culturale che avvolge il prete così come investe,
magari più duramente, la gente. Vuol dire anche età di vita che si
attraversa; amici che si fanno, esempi positivi o
negativi offerti da
chi, come prete, è più avanti di noi; scelte semplici e realistiche
con le quali si inquadra la
propria vita sacerdotale fin dal primo
anno; vigilanza sulla propria debolezza e sull’orgoglio che
potrebbe essere,
molto più di quanto vorremmo ammettere, la molla
vera di molti nostri impegni. Ogni elemento di questo elenco andrebbe
approfondito. Mi limito a offrire qualche spiegazione attorno ad
alcune delle circostanze sopra indicate.
Il prete e i fedeli
laici
Il cammino del sacerdote si intreccia con quello dei fedeli. Mi riferisco ai rapporti interpersonali e al rapporto che si stabilisce con tutte le persone che, per i più svariati motivi, cercano il sacerdote o che il sacerdote incontra sulla sua strada. In questa relazione nulla è neutro. È sempre in gioco il proprio cammino e quello degli altri, la fedeltà alla propria vocazione e l’aiuto da offrire perché anche coloro con i quali ci si incontra vivano la loro vocazione. Si tratta insomma di stabilire e coltivare rapporti “giusti”. Viene chiamata in causa la propria identità, che è una realtà vivente, fatta di grazia e di libertà. Nel medesimo tempo siamo chiamati a scoprire e valorizzare quelle persone (potrebbero essere anche soltanto una o due) nelle quali la fede è viva, il Vangelo praticato, l’amore alla Chiesa senza incertezze, il servizio dell’uomo (e soprattutto gli ultimi) appassionato. Ci sono, nelle nostre comunità, anche dei laici che possono essere il più grande dono fatto a un prete per un suo cammino di santità. Si tratta di ascoltare lo Spirito Santo che, attraverso di loro, ci ispira. Non è escluso che talvolta il dono prenda la forma di un ammonimento che forse ci umilia e ci ferisce. In realtà, è una potatura necessaria perché diamo frutto. Naturalmente, insieme con i laici, ci possono essere dei sacerdoti che limpidamente – con una parola o un silenzio, un sorriso o anche con un richiamo – ci fanno capire in quale direzione andare, quale lettura delle cose fare, quale salto di qualità ci aspetti magari da tanto tempo. Fra questi sacerdoti ve n’è uno che può giocare un ruolo decisivo. Mi riferisco a quel prete, dinanzi al quale, con regolarità, ci inginocchiamo per chiedere perdono a Dio dei nostri peccati e con il quale, senza lasciar passare troppo tempo, ci si confida e ci si confronta quando si è dentro a un momento difficile. Egli è una di quelle persone che, più di altre, possono inclinare in un modo o in un altro il nostro futuro. Sulla nostra strada Dio pone degli angeli custodi. Essi si coinvolgono nella nostra avventura di uomini donati a Dio e alla Chiesa. Portano serenità dove c’è timore, portano coraggio quando sulla scena sta la delusione, portano fiducia quando c’è la tentazione. Essi sono una vera parola di Dio per noi; la loro luminosità riporta, se necessario, anche noi alla luce.
Il prete e la sua comunità
Mi soffermo
per un
istante, in particolare, sulla relazione con la comunità che ci è
stata affidata e sul presbiterio nel quale
siamo stati inseriti2.
L’incontro con una comunità dice l’avvio di una storia che
inciderà sul prete e,
probabilmente, anche sulla gente. Tutto è da
costruire. Ci sono delle scelte correlative a questa costruzione,
come
per esempio quelle che riguardano l’umanità del prete e la
sua capacità di condividere le ore belle e anche quelle
dolorose
della gente. Più profondamente gioca un ruolo molto rilevante in
questa relazione il fatto che il prete
legga la comunità come la
famiglia che Dio gli ha affidato e che egli viva, dal mattino alla
sera, un’esperienza di
amore. Non sarà l’amore coniugale, ma non
sarà certamente la negazione di un’esperienza di amore. Sarà
l’esperienza
singolare che va oltre i parametri umani e che traduce
quanto Gesù diceva: “Chi è mio padre e mia madre? E chi sono i
miei fratelli e le mie sorelle? Chi fa la volontà di Dio è mia
madre, fratello e sorella” (Mc 3,33). Quello del
prete sarà
l’amore fraterno in una famiglia allargata, e sarà, ancor più,
come insegna Paolo, l’esperienza di una
nuova paternità spirituale
(1 Cor 4,15). Per il fatto di essere spirituale non sarà meno reale.
Vivere questa
relazione di amore fraterno e paterno fa maturare il
prete e risponde, anche umanamente parlando, alle esigenze
profonde
del cuore, che è fatto per amare. Egli vivrà con gioia e serenità,
né basteranno fatiche e problemi per
distruggere questa convinzione
profonda.
Il singolo prete e l’intero presbiterio
Non è ancora tutto quel che si deve dire a proposito di “relazione”. Come si fa a negare la rilevanza di quella realtà che si chiama “presbiterio” e del nostro modo di situarci al di dentro di esso? Nessuno di noi sceglie il presbiterio, così come non abbiamo scelto i compagni di Seminario. È la grazia del Signore che, con la chiamata al sacerdozio e con l’inserimento nel ministero sacerdotale, costituisce l’elemento oggettivo fondante di questa relazione. Sarebbe perciò una contraddizione procedere come se invece questo fosse un campo di libera elezione. È il Signore che ci dà dei compagni di Seminario e poi dei confratelli nel ministero. Già dal Seminario occorre accoglierli tutti, e altrettanto occorre farlo da preti. Logiche diverse vanno escluse. Perciò già su questo punto c’è spazio perché si riveda in che modo si imposta il proprio cammino. L’avere degli amici è un bene, anzi è un bene prezioso. Ma ciò sarebbe discutibile se volesse dire che si dimenticano i fratelli (e i confratelli) che Dio ci ha dato. La questione non è puramente teorica, come ben sappiamo, e ognuno di noi svilupperà in un modo o in un altro il proprio cammino a seconda di come affronta l’appartenenza all’“ordo presbyterorum” e, non dimentichiamolo, la comunione sincera e profonda con il Vescovo.
Da un’altra angolatura emerge un’esigenza certamente non trascurabile: poiché il mio cammino dipende, in qualche misura, dal cammino dei miei confratelli, volere un mio valido cammino diventa senso di responsabilità nei confronti della qualità del presbiterio. Ciò vuol dire, in prima istanza, che sarebbe un grave errore (o peccato) separarci, per un motivo o un altro, dalla vita del presbiterio, dai suoi momenti di incontro, sia spirituali che pastorali. Chi “si taglia fuori” dal presbiterio commette due errori che condizionano il futuro: entra in una pericolosa condizione di solitudine, e inoltre manca di carità mostrando indifferenza nei confronti dei confratelli, poiché non sostiene con perseveranza e in modo costruttivo il cammino di ciascuno e il lavoro comunitario.
Guardando dentro di
noi
A queste osservazioni se ne dovrebbero aggiungere altre, particolarmente idonee ad un esame di coscienza. Col passare degli anni e dei decenni, ciascuno di noi acquisisce una migliore conoscenza di sè. Comprende meglio se attribuisce reale importanza al colloquio personale con il Signore, pregando anche quando è facile dire che il tempo non c’è, o magari sembra che il Signore faccia silenzio. Misura quanto la sua vita è tutta centrata sulla santa Eucaristia, anche quando la routine rischia di spegnerne l’intenso dinamismo, e se l’Eucaristia diventa luogo vivente di quell’atto fondamentale che si chiama “consegna di sé”, comunione, adorazione. Verifica se la promessa di ubbidienza al Vescovo ordinante e ai suoi successori e la disponibilità senza cautele nel servizio alla Chiesa vengono considerate una cosa seria anche quando, con gli anni, ciascuno ha maturato proprie idee e propri progetti. E ancora, se la povertà è amata, e soprattutto sono amati i poveri che Dio ci manda per costringerci a fare la verità anche su questo punto e ad adottare uno stile di sobrietà per educarci alla libertà dalle cose. Soffermandoci a considerare il celibato sacerdotale, possiamo osservare se viene vissuto anche quando ci si presentano difficoltà che non avevamo previsto, e quando emergono tentazioni che ci fanno giudicare questa scelta come qualcosa che è difficilmente compatibile con lo sviluppo naturale dei nostri istinti e come impedimento al fiorire della ricchezza della nostra personalità. E infine, come ho già detto un istante fa, se la relazione interpersonale, anzitutto con i Sacerdoti, rimane viva nonostante le delusioni e le fatiche, e se si è ben decisi a lasciare fuori dai nostri pensieri, dalle nostre parole, dalle nostre scelte ciò che non sta dentro il perimetro della carità.
DUE PASSI DI
PURIFICAZIONE
Questa esemplificazione già fa affiorare i rischi che corriamo alla prova del tempo. E tuttavia queste sfide e queste tentazioni non devono però indurre ad alcun pessimismo. Nelle pieghe delle fatiche, e anche delle tentazioni, sta una grande grazia e può aprirsi, finalmente, la porta della maturità. Che cosa dunque fare? A questa domanda mi sembra che si possa rispondere, in modo particolare, indicando due passi di purificazione della nostra vita: il primo è quello del primato della chiamata sul progetto; il secondo è la riscoperta che “nulla è impossibile a Dio” (Mc 10,27).
Primato della chiamata sul progetto
La prima
purificazione consiste nel capire e volere il proprio cammino
come
risposta a una chiamata, e non come un nostro progetto. Quando si
dice ‘chiamata’ ci si riferisce a un cammino
che non è
determinato da noi stessi, ma viene proposto da Dio, sia per i passi
da compiere, sia per le circostanze
dentro le quali si dovrà
sperimentarlo giorno per giorno. Quando invece si dice ‘progetto’
ci si riferisce a quella
impostazione dell’esistenza che deriva da
qualcosa che noi stessi decidiamo. Certo, anche la chiamata è un
progetto;
ma con un piccolo particolare, assolutamente decisivo: si
tratta di un progetto di Dio.
Qui dunque si nasconde la prima e grande purificazione a cui tutti siamo sicuramente chiamati. La nostra maturità è rinvenibile proprio nella fedeltà alla chiamata di Dio anche quando essa ci conduce per sentieri che sembrano talvolta addirittura impedire o contraddire o limitare o allontanare da nostri progetti possibili, validi e buoni. E poiché molte sono le strade che ognuno di noi avrebbe potuto seguire, e molti sono i gusti o le abitudini che ci arricchiscono, tutto questo deve sempre fare i conti con la ‘chiamata’. Essa va sempre ritenuta l’unico assoluto del nostro cammino e non va mai coartata. Se già nei giovani che si orientano a diventare preti va affermato il primato della chiamata sul progetto, ciò è ancora più vero per chi è già prete perché nella vita adulta un tale problema risulta anche più acuto, essendoci sempre il pericolo di scivolare dalla vocazione verso l’attuazione di un proprio progetto.
Volendo esemplificare, direi che dovremmo stare attenti quando facciamo dei ragionamenti sul ‘dove’ e ‘come’ esercitare il ministero. Infatti, per quanto sia lecito un discorso di questo genere, occorre vigilare sull’insidia che ci conduce ad adottare un atteggiamento non più qualificabile come un dare ‘carta bianca’ al Signore, dato che la logica interiore alla quale obbediamo ha il suo centro in noi, e non nel Signore. Perciò faremo bene a togliere il velo su possibili equivoci con i quali imbrogliamo noi stessi e a chiarire sia ciò che effettivamente vogliamo, sia il motivo per il quale siamo diventati preti, sia la forza che ci ha trascinati a compiere quel grande passo negli anni giovanili. Sempre per esemplificare, dobbiamo considerare con severità la tentazione di ricavarci una nostra nicchia, un nostro mondo, una nostra sicurezza, o di diventare - in qualche modo - dei ‘battitori liberi’, simili ai ‘clerici vagantes’ di una volta, o di essere preti inamovibili e intoccabili, perdendo così quella libertà interiore e anche visibile che invece è tipica dell’apostolo e del missionario.
Capisco che tutto questo è più difficile a quaranta o cinquanta o sessant’anni che non a venticinque. Ma una vita secondo lo Spirito si esprime proprio così: testimoniando, a cinquant’anni, la freschezza e il coraggio di quando se ne avevano venticinque. Comportarci così significa rispondere di ‘sì’ alla ‘seconda chiamata’.
“Nulla è
impossibile a Dio” (Mc 10,27)
Proprio quest’ultimo riferimento mi conduce a parlare di un’altra purificazione, non meno importante della prima. Consiste nel riconoscere che il nostro cammino di vocazione e di missione è impossibile all’uomo, ma non a Dio, poiché a Dio tutto è possibile (cfr Mc 10,27). Queste ultime parole che riecheggiano la pagina dell’annunciazione dell’angelo a Maria (cfr Lc 1,37), sono state dette da Gesù ai discepoli il giorno in cui raccomandava loro di far attenzione alle ricchezze perché possono diventare un impedimento per l’ingresso nel Regno dei Cieli. Che cosa vogliono dire in rapporto alla nostra risposta al Signore sull’arco del tempo di una vita intera? R. Voillaume ci ricorda che noi siamo chiamati a passare attraverso tre fasi della vita spirituale.
Nella prima tappa non abbiamo ancora fatto l’esperienza dell’impossibilità umana e naturale di vivere in accordo con il dono divino della vocazione che abbiamo ricevuto. Non ci sembra che gli impegni della preghiera, della carità, dell’obbedienza, della povertà, della castità, della responsabilità pastorale, della collaborazione fraterna, ecc. presentino difficoltà insormontabili. Pur avvertendo (magari anche acutamente in alcuni giorni) la fatica di fare onore al nostro ‘sì’, siamo portati a pensare che, con un po’ di coraggio, ce la potremmo fare nell’oggi e anche per il futuro.
Seconda tappa: le cose prendono un altro aspetto dal giorno in cui si avverte (e la cosa ci potrebbe anche spaventare) che il clima interiore del nostro vivere sta insensibilmente (e a volte magari anche rapidamente) cambiando. Si può avvertire, per esempio, che l’entusiasmo umano che ci aveva accompagnato per anni, lascia il posto a una specie di insensibilità, di freddezza, di stanchezza, di lontananza dal Signore, di bisogno di soddisfazioni sensibili, di fatica nella preghiera, di serie difficoltà nella castità.
Possono apparire anche tentazioni nuove, come quella di volerci sciogliere un poco dai grossi impegni educativi e pastorali che ci sono stati affidati per avere una ‘vita propria’ e, almeno in parte, indipendente; o quella di limitare l’apertura della mente e del cuore nel rapporto e nella collaborazione con il proprio Vescovo; quella di ritenere che la fraternità sacerdotale è pura poesia, se non ipocrisia, e che è dunque meglio non parlarne più; quella per cui incominciamo a diventare un po’ gelosi delle nostre idee, pronti persino a lasciar perdere anche valori importanti o a indebolire rapporti delicati, pur di ri- manere arroccati a noi stessi; o quella per cui ci domandiamo se la nostra vita non poteva prendere qualche svolta più interessante; ecc.
È evidente
che,
quando tentazioni e orientamenti di questo genere dovessero prendere
piede nella nostra vita, ci troveremmo in
una situazione delicata. Ma
conviene dire che, di per sé, ciò non significa che da parte nostra
vi siano già delle
infedeltà gravi, né che il Signore ci abbia
abbandonato. Impressioni e tentazioni come quelle ricordate possono
accompagnarsi anche a una vita sacerdotale fedele alle esigenze della
vocazione ricevuta. E però non possiamo certo
addormentarci perché
il fenomeno in atto è quello che ci fa toccare con mano che le
esigenze della nostra vocazione
e missione sono impossibili alle
nostre sole forze. Gesù ce l’aveva detto, ma solo ora lo
comprendiamo.
La domanda vera, a questo punto, diventa: che fare in una simile situazione? Vi è una via d’uscita? E quale? Si apre l’esigenza di entrare in una terza tappa.
Sappiamo che le vie d’uscita che istintivamente si adotterebbero sono due. La prima si chiama mediocrità. Quando la si adotta, siamo noi stessi a decidere fin dove è ragionevole arrivare. Ma in tal modo siamo già, almeno in qualche misura, fuori dalla ‘vocazione’ e ci stiamo inventando qualche ‘surrogato’ umano che sembra darci una ragione di vita e che poi cerchiamo di comporre, un po’ contraddittoriamente, con il nostro più vero cammino. Talvolta ci potremmo limitare a salvare le apparenze, il che è grave; qualche altra volta potremmo coltivare una certa osservanza onesta dei nostri impegni, il che è certamente positivo, senza però coinvolgere il profondo del nostro cuore. C’è poi una seconda via d’uscita. Si chiama scoraggiamento. Esso può insidiare proprio chi vorrebbe resistere sulla buona via, ma con le sole sue forze. Alla prova dei fatti, esse si dimostreranno insufficienti a ben sostenere la nostra vita.
Né l’una né l’altra di queste vie d’uscita è indicata dal Vangelo; né l’una né l’altra esprimono la ‘vita secondo lo Spirito’ per un prete. Quando il nostro itinerario sembra diventare austero, siamo alla vigilia di una nuova possibile maturità e di un rapporto con il Signore ben più profondo di prima. In quello che appare per noi un momento molto critico, Gesù aspetta da noi che entriamo in una tappa che significa mettere in atto le condizioni per una nuova partenza, per una scoperta veramente nuova di una vita secondo la fede.
In questa terza tappa potremo avere, a volte, la percezione che “la nostra vita sia sospesa ad un filo che non riusciamo a vedere abbastanza per poterne constatare la solidità. Come un filo di naylon esso ci sembra talmente sottile e trasparente da farci perdere il senso della sicurezza. Come l’alpinista preso dalle vertigini, non abbiamo più diritto di guardare verso il basso, di seguire con lo sguardo la parete a cui siamo aggrappati, sotto pena di staccarcene e di non poter più avanzare: siamo condannati a guardare solo in alto, oppure a non arrivare alla meta. Come già diceva santa Teresa d’Avila, la via d’uscita è dall’alto.
Per rendere possibile questa terza tappa ci resta da scoprire e credere che Gesù ha detto la verità quando ha affermato che ‘questo è possibile a Dio’. Certo, nella sua bellezza, questa tappa chiede una spoliazione interiore, domanda che si lascino cadere infondate ambizioni, sospinge ad essere umili, suggerisce di implorare da Gesù che i sentimenti del suo cuore diventino i nostri, porta ad accettare di non essere nulla per noi stessi e tutto per il Signore e per gli altri, apre a sperare contro ogni speranza, conduce a riscoprire con una verità ben maggiore di prima ciò che si è sempre pensato di essere e di vivere: la preghiera, che è un oceano nel quale immergersi; la povertà, che è libertà; la carità, che è il ritrovarsi in pienezza da parte di chi si perde a causa di Dio e dei fratelli; e altro ancora. Come si vede, la terza tappa ci dispone a passi semplici e straordinari.
“ABITARE
L’INDICIBILE SICUREZZA E TENEREZZA DI DIO”:
Aggiungo una parola sulla terza (e forse quarta) età. Ho sulla mia scrivania diversi testi che toccano anche questo tema: dal “De senectute” di N. Bobbio, a “La ruota del carro” di H. Nouwen, al classico di R. Guardini su “Le età della vita”, ed altri ancora. Trovo splendida una testimonianza di Arturo Paoli, piccolo fratello del Vangelo, al seguito di Ch. de Foucauld. La vorrei riprendere brevemente.
Le parole di questo vecchio prete mi colpiscono anzitutto perché, non senza mia sorpresa, evocano l’esperienza di qualcosa che parrebbe precluso a persone della sua età. Egli parla di felicità: “A 82 anni compiuti sono un vecchio, competente per parlare di vecchiaia. Dichiaro subito che la vecchiezza è una bella età”. Sa di affermare qualcosa che ai più non pare vero ed egli stesso cita Leopardi per il quale la porta che introduce alla vecchiaia è una “detestata soglia”.
La testimonianza di Arturo Paoli mi interessa non solo perché afferma una felicità, ma soprattutto perché egli ne confida il segreto, che è triplice. Primo, “la causa è un’esperienza di semplicità che forse ho cercato per tutta la vita”. Avendo alle spalle una scelta di questo genere, egli si trova preparato allo spogliamento che la vecchiaia impone, e lo interpreta positivamente: “Gli alberi in autunno sembrano intristirsi perdendo le foglie, ma se pensiamo alle feste del rosso antico dei vigneti toscani, alle sinfonie di colori che ho avuto la fortuna di guardare a lungo nei boschi canadesi, si può parlare della caduta delle foglie come di una danza”.
C’è anche un secondo segreto di felicità nella vecchiaia di A. Paoli. È l’esperienza del deserto: “Probabilmente questa esperienza che mi fu concessa sui quarant’anni mi risparmia oggi il deserto della vecchiaia con la sfida di satana che conta sull’angoscia della solitudine e dell’inutilità”. Il deserto fu quello del Sahara, dove andò come “Piccolo Fratello” di Ch. de Foucauld.
Ma c’è un terzo segreto della felicità e credo che sia il caso di soffermarvisi più che sugli altri due, anche perché riguarda il presente. A. Paoli cerca di spiegarlo raccontando la storia di una donna, morta a 83 anni dopo aver abitato per oltre quarant’anni in una piccolissima casa. Si chiamava Adele. Quella donna - egli dice - “mi ha fatto capire che si può vivere in una villa medicea senza abitarla, se la persona è inquieta e annoiata e passeggia per le stanze cercando dove depositare ‘tristezza e noia’. Che si può viaggiare dalle Hawaii al Tibet, godendo esteticamente il mondo senza abitarlo, perché irrimediabilmente rifiutato. Adele ‘abitava’ perché la Voce la persuadeva del senso del suo destino”.
La felicità sta dunque nel poter dire che la propria vita è un ‘abitare’: “In questi ultimi anni - aggiunge A. Paoli parlando di se stesso - la mia relazione religiosa si è spostata dal ‘Dio-verso-cui-vado’ al ‘Dio-da-cui-vengo’. Il Dio da cui vengo è la mia casa, è la casa del Padre, che è da prima di partire per terre lontane”. Come si legge in Geremia, dice il Signore di ognuno di noi: “Prima di formarti nel grembo, io ti conoscevo” (Ger 1, 5). Aggiunge: “Ho trovato spesso persone religiose fino al delirio, obbedienti alle leggi fino alla mania, incapaci di sentire la voce, di provare l’indicibile sicurezza e tenerezza di questo ‘Io’. E allora?”.
Come non pensare, di fronte a questa testimonianza, che il senso pieno dell’inno di Paolo che troviamo in apertura della lettera agli Efesini è proprio la certezza che Dio è la casa nella quale abitare, trovare gusto di ‘esistere’, anche quando non dovesse essere più il tempo del ‘fare’? Come non intendere la benedizione di Dio Padre che avvolge la vita umana come il luogo più bello dove abitare perché essa permette di provare “l’indicibile sicurezza e tenerezza” di Dio, anche quando la sofferenza (magari grave) o un difficile distacco tendono a spegnere la speranza, o quando emerge il pensiero della morte?
A proposito di quest’ultima, scrive ancora A. Paoli: “Quando ero giovane pensavo più spesso alla morte; ora, quanto più mi avvicino, meno ci penso. L’Arturo attuale non può preoccuparsi perché non naviga su uno yacht. Se fosse su una barca vera dovrebbe preoccuparsi dei rifornimenti, delle tempeste, di non finire nelle secche... Il mio piccolo legno galleggia senza direzione apparente. Il pilota invisibile non informa, il suo costante e unico messaggio è ‘fidati’, e quando mi arriva, mi sento più sicuro che in un transatlantico”.
Si può essere
tentati di giudicare
troppo alta questa testimonianza. Ma è proprio
così? Non è forse invece più urgente oggi di ieri educarci, prima
che
giunga la vecchiaia, a scelte di semplicità perché non ci si
spaventi il giorno in cui si capisce che, ormai, non si
tratta più
di diventare poveri, ma di riconoscere che lo si è? E se anche non
si va nel deserto del Sahara, non è
forse indispensabile educarci
alla libertà dalle cose per allenarci a fare poi i conti con ciò
che, nella vita, è
essenziale? E quanto al trovare in Dio la propria
‘dimora’, chi di noi non ha conosciuto, magari nella propria
stessa casa, genitori anziani o nonni per i quali il colloquio
quotidiano spontaneo e amoroso con Dio costituisce o
ha costituito
l’àncora che dà sicurezza e pace?
CONCLUSIONE
Mi piace concludere questa riflessione con qualche riferimento biblico che mi ha accompagnato in questo tempo.
Il primo è il versetto introduttivo del salmo 33: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode”. È un’indicazione molto opportuna ed è un principio di vera saggezza per noi tutti che dobbiamo fare i conti con il tempo.
Un secondo testo lo trovo nel salmo 102: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome”. Da notare il riferimento a “tutto quanto è in me”: corpo, psiche, sentimenti, pensieri, scelte. Tutto! Questa è una giusta preghiera del mattino, del mezzogiorno, della sera; della giovinezza, dell’età adulta, della terza età.
Un terzo testo lo raccolgo dal Deutero Isaia, all’inizio del capitolo 40 e di quel libro che viene detto delle “consolazioni”. Si legge: “Dio non si affatica né si stanca. Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato”. Con riferimento alla vita dell’uomo, vengono ricordati i giovani e gli adulti. Si legge: “Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (cfr Is 40,23-31). Queste parole di Isaia fanno venire alla mente quelle di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). È ciò che dobbiamo fare giorno per giorno, anche in questo momento.
Torno a un altro salmo, esplicitamente connesso con le varie età della vita. Il salmo 70. Si parla della giovinezza, del tempo stesso della nascita e della vecchiaia. Il contesto è quello dell’affidamento a Dio in ogni età, di potere fare conto su di lui, e anzi del riconoscimento della presenza operante di Dio. Si legge: “Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza. Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno, a te la mia lode senza fine. Non mi respingere nel tempo della vecchiaia, non abbandonarmi quando declinano le mie forze”. E poco più avanti, ancora su questa ultima età: “E ora, nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbandonarmi, perché io annunci la tua potenza, a tutte le generazioni le tue meraviglie”.
Com’è facile notare l’accento sta sull’affidamento a Dio in ogni età e sull’affermazione dell’effettiva presenza del Signore nella nostra vita lungo il tempo e dentro le più varie circostanze. Per poco che riflettiamo, possiamo comprendere quanto sia importante l’affidamento a Dio del bambino appena nato; conoscendo l’età tumultuosa che caratterizza la giovinezza, capiamo la necessità di implorare dal Signore la grazia di rimanere sulla strada giusta. Ma anche la terza età è tempo di affidamento a Dio perché la debolezza della stagione che si attraversa potrebbe diventare debolezza su tanti fronti, anche spirituali e morali, e c’è bisogno che Dio non ci abbandoni quando constatiamo che molte cose ci abbandonano, come il lavoro o le responsabilità, o anche della salute. In questo salmo non si parla dell’età adulta, ma anche a questo riguardo l’affidamento a Dio è fondamentale in rapporto alle scelte che vanno rinnovate, dentro un orizzonte in parte nuovo e molto impegnativo.