In verità, il sacerdote di cui intendo parlare non è mai esistito nella storia della Chiesa. Mi riferisco infatti al protagonista del celebre romanzo, che Georges Bernanos ha pubblicato nel 1936, il Journal d’un curé de campagne.
Come è noto, il Diario ha avuto una fortuna enorme. Fu tradotto in varie lingue, e numerose ne furono le trascrizioni (o meglio le “riscrizioni”) teatrali e cinematografiche.
Se oggi ne parliamo, al termine di questa giornata penitenziale, è perché nella figura dolente del curato di campagna troviamo enfatizzati in maniera tragica – eppure sommamente istruttiva – i dubbi, le tentazioni e le resistenze, che accompagnano la vocazione sacerdotale.
In modo speciale, mi propongo di illustrare il tema teologico della solitudine dell’apostolo, trascorrendo attraverso tre personaggi: Gesù Cristo, Paolo di Tarso e il curato di Ambricourt, al quale Bernanos non ha “osato” dare un nome.
In realtà la solitudine di Gesù e quella di Paolo le evocheremo appena, in forma di introduzione. Resta il fatto che esse rappresentano il punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo della nostra meditazione.
E che dire della solitudine del sacerdote, oggi?
A questo riguardo, mi preme ripetere quello che afferma il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri: la solitudine del sacerdote, “lungi da intendersi come isolamento psicologico, può essere del tutto normale, e conseguente alla sincera sequela evangelica, e costituire una dimensione preziosa della sua vita” (n. 97).
Proprio a questo tipo di solitudine il prete va educato: ed è il motivo per cui ne parliamo adesso.
2. Gesù Cristo e Paolo di Tarso
Il tema della solitudine di Gesù – che scorre “carsicamente” lungo i quattro Vangeli – raggiunge il suo acme nel racconto della Passione, soprattutto nel Vangelo più antico e più breve, quello di Marco.
Sono due le scene che ci interessano in modo speciale, quella del Getsemani (14,32-42) e quella della morte in croce (15,33-39). In tutt’e due le scene Gesù è tragicamente solo, fino al suo ultimo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Marco 15,34).
Eppure – nella più profonda afflizione dello spirito e nel silenzio “scandaloso” del Padre – Gesù continua a esprimere la certezza di essere Figlio, mentre il Padre rivela, misteriosamente, il suo volto paterno.
“Abbà, Padre mio!…”: così, con il più tenero affetto, si rivolge a lui Gesù, proprio nel momento supremo della sua solitudine (Marco 14,36).
Che cosa vuol dire tutto questo per noi?
Significa che l’apostolo non raggiunge il vero volto di Dio senza passare attraverso l’agonia del proprio intimo. La notte dolorosa dello spirito e la spoliazione radicale di sé sono tappe obbligate nell’itinerario della missione. Non per caso il termine greco apóstolos significa, senza dubbio, “inviato”, “missionario”; ma anche “congedato”, “mandato via”: in un certo senso, “abbandonato”.
Nell’agonia del Getsemani, come sulla croce del Golgota, Gesù racconta al Padre la propria intima lacerazione, come sempre fanno i grandi uomini di Dio.
E nel silenzio sconcertante di quel Dio, si staglia nel cuore dell’Apostolo il volto del Padre.
Anche nell’Epistolario paolino la solitudine dell’apostolo è sottolineata molte volte.
Ma questo tema diventa più esplicito nella confessione amara di Paolo durante la sua prima prigionia a Roma, intorno all’anno 63: “Tutti mi hanno abbandonato…”, scrive Paolo a Timoteo (2 Timoteo 4,16), uno dei principali episcopi della seconda generazione cristiana.
A prescindere dai problemi di autenticità di queste “Lettere pastorali”, la vicenda di Paolo rispecchia esattamente l’imago Christi. Il verbo usato nella seconda Lettera a Timoteo (enkataléipo) è lo stesso impiegato da Gesù in croce, almeno nella traduzione greca che ne dà Marco: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato (eis tí enkatélipés me)?” (Marco 15,34).
In effetti, si tratta in tutti e due i casi del Servo sofferente, dell’apostolo che dona la propria vita, nonostante l’abbandono dei suoi. “Quanto a me”, Paolo lo aveva appena scritto, “il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa…” (2 Timoteo 4,6- 7).
Quello dell’apostolo è un donarsi ostinato. Abbandonato e tradito da…, egli muore per…
Quella dell’apostolo è una solidarietà universale, nonostante l’incomprensione e il rifiuto dei suoi. Il vino della cena deve essere bevuto, il medesimo pane deve essere mangiato, lungo i secoli. Perché, alla fine, quello che vince è l’amore: l’amore di Gesù, che supera perfino l’abbandono e il tradimento dei discepoli.
3. Il curato di Ambricourt
E’ stato osservato che tutto il cammino del curato di Ambricourt ripercorre una “imitazione di Cristo”, spesso particolarmente evidente, altre volte più nascosta e simbolica, ma che in ogni caso va considerata come la “struttura profonda” delle confessioni del curato.
Gesù Cristo è per lui il modello di vita, ma anche un compagno, il solo Amico con il quale parlare a cuore aperto, a cui confidare anche le righe cancellate del diario, le pieghe più scabrose del proprio intimo segreto…
Di fatto, il curato sperimenta Gesù come un meraviglioso Amico vivente, che soffre delle nostre pene, si commuove delle nostre gioie, che condividerà la nostra agonia, che ci accoglierà nelle sue braccia, sopra il suo cuore.
Se il cammino umano di Gesù è un cammino che culmina nella croce, quello del curato è segnato dal medesimo silenzio e dalla stessa notte.
Questo silenzio tenebroso, drammatico, è uno dei temi preferiti di Bernanos.
E’ il tema del silenzio di Dio. “Ho scritto questo”, confessa ad esempio il curato, in fondo a una pagina del suo diario: le righe sono cancellate parecchie volte, ma ancora decifrabili, annota Bernanos; “ho scritto questo in una profonda e completa angoscia di cuore e di sensi. Tumulto di idee, immagini, parole. L’anima tace. Dio tace. Silenzio” (mi riferisco alla traduzione italiana più recente, edita negli Oscar Mondadori, Cles [TN] 2009: p. 105).
E’ la notte dell’agonia, la notte spaventosa; l’esperienza del vuoto, dell’angoscia del curato di Ambricourt, “apostolo abbandonato”.
Egli sperimenta drammaticamente il silenzio di Dio, ma insieme – come Gesù nel Getsemani – percepisce la sua presenza, in una maniera misteriosissima e mai provata prima.
Superata questa prova, la notte spaventosa si apre alla luce divina. Il curato assume tutti i limiti della sua umanità, compresa la diagnosi del cancro che ha ormai divorato il suo organismo, e accetta una “morte piccola”, a sua misura.
Il paesaggio, strettamente in simbiosi con il cammino interiore del protagonista – il paesaggio piovoso e scuro, il paesaggio inzuppato di pioggia e di nebbia –, si schiarisce teneramente nei colori di un’alba in cui il curato, sul letto di morte, confessa il “tutto è grazia” di santa Teresa di Lisieux.
Anche qui, come abbiamo già fatto con il racconto della passione secondo Marco, propongo di osservare soprattutto due scene.
La prima scena si riferisce al singolare incontro del curato con Serafita, una delle bambine del catechismo parrocchiale, nella quale lo spirito dell’infanzia si alterna con la malizia del mondo.
Il curato rinviene faticosamente, nel buio della notte, al bordo di un campo bagnato dalla pioggia. Ha avuto una terribile emorragia.
“Ha vomitato”, gli spiega Serafita che l’ha scoperto per caso, mentre pascolava le mucche. “E’ sporco in faccia come se avesse mangiato le more”. E “senza smettere di parlare”, scrive il curato, la ragazzina mi passava uno straccio bagnato “sulla fronte, le guance. L’acqua fresca mi faceva bene, mi sono alzato, ma tremavo ancora forte. Finalmente il tremore è cessato. La mia piccola Samaritana sollevava la lanterna all’altezza del mio mento: per meglio giudicare la sua opera, immagino…” (p. 178).
Chi non legge, nella filigrana di questo racconto, un’immagine tanto cara alla tradizione cristiana, l’immagine della Veronica, che deterge il volto insanguinato e sofferente di Gesù?
Siamo nel cuore della via crucis – quella di Gesù, come quella del curato di Ambricourt –. L’imitatio Christi è palese. La solitudine scandalosa del condannato a morte è consolata dal gesto misericordioso di una donna. Intanto, il cammino della croce continua.
La seconda scena che propongo è quella conclusiva. Narra l’agonia e la morte del curato, un po’ a immagine dell’agonia di Gesù.
Siamo nell’ultima pagina del romanzo, scritta “fuori testo”.
Il diario è ormai finito, e chi scrive è un ex-prete. Nella sua casa, a Lilla, il curato di Ambricourt si è rifugiato per trascorrere la notte, dopo aver appreso la propria condanna a morte: un medico morfinomane gli ha appena svelato, brutalmente, lo stadio irreversibile del suo tumore. “Verso le quattro”, annota l’ex-prete, “non riuscendo a prendere sonno, sono andato in punta di piedi alla porta della sua camera e ho trovato il mio povero compagno riverso per terra, privo di sensi… Mentre aspettavo il medico, il nostro povero amico ha ripreso conoscenza. Ma non parlava. Aveva i goccioloni di sudore in fronte, sulle guance, e il suo sguardo, che si intravedeva appena tra le palpebre socchiuse, sembrava esprimere una grande angoscia… Dato che il prete non arrivava, ho creduto di dover dire al mio sfortunato compagno quanto mi rincrescesse quel ritardo, che rischiava di privarlo delle consolazioni riservate dalla Chiesa ai moribondi. Non sembrava avermi udito. Ma poco dopo ha posato la mano sulla mia, mentre con lo sguardo mi faceva chiaramente intendere di avvicinare l’orecchio alla sua bocca. Allora ha pronunciato in modo distinto, benché molto lentamente, queste parole, che sono certo di riferire con esattezza: ‘Che cosa importa? Tutto è grazia’.
Penso che sia morto di lì a pochi istanti” (p. 240).
Come è noto, sono queste le parole che chiudono il romanzo. Una conclusione di grande effetto, senza dubbio. Una conclusione che riporta al centro i due grandi temi che qui interessano: la solitudine dell’apostolo e l’imitazione di Cristo.
Attraverso una serie “imperdonabile” di insuccessi umani (la gente rimane diffidente, i bambini del catechismo si prendono gioco di lui, il suo nutrirsi solo di pane e vino lo fa ritenere un alcoolizzato, il conte del castello lo disprezza e sua figlia lo odia, la gestione economica della parrocchia e della casa parrocchiale è disastrosa, il “piano pastorale” non riesce a decollare…), il “piccolo” curato giunge alla totale spoliazione di sé, che gli consente una trasparenza assoluta nell’esercizio della sua missione.
Riesce addirittura a liberare la contessa dalla disperazione, in cui l’ha rinchiusa la morte del figlio: un autentico miracolo.
La solitudine dell’agonia e la radicale spoliazione dell’apostolo – sia egli Gesù di Nazaret o Paolo di Tarso, oppure il curato di Ambricourt – sono in definitiva la via paradossale della vittoria dell’amore sopra la morte.
E davvero, in questa prospettiva, che cosa importa ancora? “Tutto è grazia!”.
4. Conclusione: Hans Urs von Balthasar
Chi ha trattato con maggiore profondità e ampiezza il tema teologico della solitudine dell’apostolo, con specifico riferimento all’opera letteraria di Georges Bernanos, è uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo.
Alludo manifestamente a Hans Urs von Balthasar, e alla sua poderosa monografia, intitolata Il cristiano Bernanos, pubblicata in lingua tedesca nel 1954.
Non trovo di meglio – per concludere questa meditazione, e anche questa giornata penitenziale dei nostri Esercizi – non trovo di meglio che postillare un paio di passaggi del quinto capitolo, nella seconda parte del libro, là dove von Balthasar descrive l’agonia finale dell’apostolo come “centro stesso della vita”.
“Il Vangelo”, commenta il teologo svizzero, tenendo sempre sullo sfondo l’agonia del Getsemani, “ha insegnato a Bernanos che la povertà dello spirito, la spoliazione radicale e la debolezza… fanno un tutt’uno con la beatitudine, quella delle braccia spalancate” (mi riferisco alla traduzione francese di M. de Gandillac, Le chrétien Bernanos, Seuil, Paris 1956, pp. 431-433).
Ritornano così – significativamente intrecciati fra loro, e sempre nella contemplazione di Cristo – i grandi temi della passione e della croce, dell’angoscioso silenzio di Dio, dell’abbandono e della solitudine dell’apostolo.
In questa stessa agonia si colloca la comunione dei santi, uno dei temi centrali della teologia balthasariana.
“Affinché si realizzi la comunione dei santi”, spiega infatti von Balthasar, “bisogna che ogni membro del corpo mistico doni il suo essere totale – e radicalmente spogliato –, perché divenga parte di un tutto; bisogna che egli si lasci colpire da quelle ferite, che sole permettono la circolazione del sangue attraverso il corpo intero. Ma dopo il Giardino degli Ulivi, questa ferita ha preso la forma dell’agonia, dell’essere che viene meno nell’angoscia. Il carattere gratuito dell’amore si manifesta nella sofferenza sotto forma di inutilità: ‘Mi sembra’, dice il curato di campagna, ‘che la mia vita, tutte le forze della mia vita, vadano a perdersi nella sabbia’. E finalmente, di fronte alla morte: ‘Piangevo con gli occhi spalancati, piangevo come ho visto piangere i moribondi: era ancora la vita che usciva da me’” (p. 470).
Siamo di fronte al mistero cruciale della “solitudine dell’innocente nel mondo del peccato”: quel mistero, per cui il parroco di Torcy – il confidente, o meglio il “direttore spirituale” del curato di campagna – giunge a parlare “della ‘solitudine sorprendente’ e della ‘tristezza verginale’ di Colei che ‘era l’innocenza’, la Madre di Dio, ‘nata senza peccato’…” (p. 474).
Ancora una volta, la solitudine dell’apostolo è consacrata come via di salvezza.