Uno dei drammi culturali del nostro tempo globalizzato, e in molti modi connesso, è il fatto che ogni giorno muore una lingua e con la lingue si perde la memoria viva della cultura che l'aveva elaborata e la utilizzava per esprimersi, raccontare, ricreare, sognare, farsi sentire, e comunicare.
Che ruolo hanno avuto i missionari in tutto questo processo?
In questi giorni all'archivio generale dei Missionari della Consolata di Roma sta lavorando Néstor Saporiti, fino a qualche anno fa missionario della Consolata pure lui, con qualche anno di esperienza di lavoro in Congo, allora Zaire, o oggi dottore in ricerca presso l'università San Salvador di Buenos Aires. Poco a poco, con pazienza, sta emergendo tutta una pratica linguistica frutto di vicinanza alla gente, passione, creatività, fatta da un drappello non piccolo di missionari, in tutto 23, che nella prima metà del XX secolo hanno scritto, tradotto e codificato ben 17 lingue in quattro paesi: Kenya, Tanzania, Mozambico ed Etiopia.
In Kenya principalmente, ma poi anche nelle altre nazioni africane, i primi missionari hanno lavorato quasi esclusivamente in zone rurali e quindi lontani dai quei centri urbani in parte colonizzati dalle lingue degli imperi coloniali. Per loro gli idiomi autoctoni erano l’unica forma per comunicare e annunciare il vangelo che come missionari volevano portare. In quelle lingue, con fatica, impegno, pazienza e anche ingegno e creatività hanno dovuto addentrarsi per cominciare a capirle, decodificarle, tradurle ed anche insegnarle. Non era un lavoro facile, non esistevano grammatiche né dizionari, non c’erano testi scritti e tutte queste cose sono state da loro prodotte, senza essere linguisti, ma con ingegnosi strumenti quando l’unica forma per consolidare il loro lavoro era la macchina da scrivere e la carta carbone che permetteva l’edizione simultanea di al massimo quattro o cinque copie delle loro fatiche. E non si trattava di libretti di poca monta, spesso potevano avere centinaia di pagine.
Nell'archivio si conservano grammatiche e dizionari, spesso arricchiti da preziosi riferimenti culturali che aiutano a capire il senso profondo della parole che traducono; esistono traduzioni e perfino atlanti e mappe che definiscono con precisione i confini e l’estensione delle lingue che studiavano.
“Il missionario -ci dice Néstor Saporiti- é come l’evangelista che ascolta la Parola di Dio e la traduce in un vangelo che come ogni scritto umano è culturalmente codificato. Animati dalla passione per la buona notizia i missionari da una parte interrogavano Dio a proposito del messaggio ma poi si rivolgevano ai destinatari per poterlo annunciare in un modo che lo possano capire. Il missionario doveva immergersi in profondità nel messaggio per poi trasmetterlo con la stessa profondità e la maggior fedeltà possibile.
Forse oggi i Missionari non sono più chiamati a elaborare grammatiche e dizionari, ma sono sempre sfidati sulla conoscenza profonda dei codici culturali delle persone alle quali si rivolgono: la lingua è uno di quelli. Ancora oggi quella è l’unica forma con cui riuscire a comunicare il messaggio di salvezza di Gesù.