Intervista con Julia Kristeva che ha studiato a lungo santa Teresa d’Avila

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- «Ho incontrato Teresa — ci racconta Julia Kristeva — su sollecitazione di un editore: ho passato una decina d’anni con la stravagante monaca spagnola, di cui avevo appena sentito parlare, divenuta per me una figura imprescindibile della cultura europea. Sono lieta di aver trovato, grazie a lei, quello slancio barocco che ha trasfigurato il cattolicesimo medievale e ha aperto le porte all’umanesimo dell’illuminismo».

Come ha affrontato la fede di Teresa?

Mi sono proiettata nella scrittura di questa donna, che ha vissuto e descritto una fede che viene chiamata mistica, dove celebra così la sua unione con Gesù: «L’Anima si consuma di desiderio e non sa tuttavia chiedere, perché sente chiaramente che il suo Dio è con lei» (Castello interiore). «Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere quei gemiti di cui ho parlato, era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi d’altro che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto» (Vita). «Non siamo angeli ma abbiamo un corpo» e «il Signore come uomo». E così via. L’ho accompagnata anche nell’arte barocca che l’avvicina ancora di più a noi moderni, a cominciare dall’estasi di Bernini, che fa vibrare quell’estasi nel marmo: si liquefà sotto i miei occhi nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma. Ma anche la messa che le ha dedicato Haydn o il quadro del Tiepolo a Venezia. Poiché non sono credente, ho cercato di familiarizzarmi con il suo modo di sentire e di pensare, ossia di interpretarla. Teresa invita il mondo secolarizzato a rivalutare, instancabilmente e senza pregiudizi, il bisogno di credere che sottende il desiderio di sapere.

E la sua straordinaria scrittura?

In effetti, attraverso il raccoglimento delle letture e il fervore delle preghiere, ma anche lasciandosi pervadere da musica, pittura e scultura, la scrittura di questa donna senza frontiere ci offre il suo corpo fisico, erotico, buongustaio e anoressico, isterico, epilettico, che si fa verbo e si fa carne, che si fa e si disfa in sé fuori di sé, fiotti di immagini senza cornici, costantemente alla ricerca dell’Altro e della parola giusta. Matrice aperta che palpita per l’amato sempre presente senza essere mai lì. Le estasi di Teresa sono d’un tratto e senza distinzione, parole, immagini e sensazioni fisiche, spirito e carne, o forse proprio carne e spirito: «Il corpo non tralascia di partecipare al gioco, e anche molto». Oggetto e soggetto, perduta e ritrovata, dentro e fuori e viceversa, Teresa è un fluido, un flusso costante. L’acqua sarà il suo elemento: «Sono attratta in modo particolare da questo elemento, pertanto l’ho osservato con un’attenzione speciale»; e la metafora fluida è il suo modo di pensare. Si tratta di una folgorazione intima o del ritorno al tema evangelico del battesimo? Lo stile teresiano è intrinsecamente radicato nelle immagini, esse stesse destinate a trasmettere quelle visioni che non sono percepite dalla vista (o almeno non soltanto dalla vista), ma risiedono nel corpo-e-spirito intero, nello psiche-soma. Tali “visioni” si possono ottenere dapprima ed essenzialmente al tatto, al gusto e all’udito, per poi raggiungere la vista. Se l’acqua è l’emblema del rapporto fra Teresa e l’Ideale, si capisce perché il suo Castello interiore non s’innalza come una fortezza, ma si lascia sistemare come un puzzle di dimore, moradas, dimore dai muri permeabili che il divino non domina ma abita. Vuol solo dire che la trascendenza secondo Teresa si rivela anche immanente: il Signore non è al di là, ma in lei! Il che le procura prevedibili noie con l’Inquisizione. In definitiva, più che in quei rapimenti, l’enigma di Teresa sta nel racconto che lei stessa ne fa: le sue estasi esistono al di fuori di quei racconti? Lei ne è pienamente consapevole: «Che io mi serva di tale immagine (hacer esta ficción) per farvi intendere quel che dico», scrive nelCammino di perfezione (28, 10). Nega di essere una teologa, e rivendica solo — con modestia o con coraggiosa modernità? — di essere l’autrice di una finzione («La finzione, quell’elemento vitale delle scienze dello spirito», dirà in seguito Husserl). Una scrittrice.

Qual è il ruolo testimoniale di Teresa nell’umanesimo di oggi?

La narratrice del mio libro Thérèse mon amour, la psicanalista Sylvia Leclercq, che mi rassomiglia, conclude la sua coabitazione con Teresa indirizzando una lettera a Denis Diderot che, al suo tempo, fustigava gli abusi della religione nel suo celebre romanzo incompiuto La religiosa. Ma Diderot, ex canonico e scrittore-filosofo dell’illuminismo, piange riconoscendosi incapace di finire la sua storia: poiché, liberata dagli abusi della vita monastica, la sua religiosa è gettata in una vita priva di senso. Sono convinta che la psicanalisi freudiana, che interroga i miti e la storia delle religioni, aprendo al contempo le porte della vita interiore degli esseri moderni, sia la via maestra per trasvalutare, giustamente, questa tradizione che ci precede e con la quale abbiamo tagliato i ponti. Noi, i non credenti. Ma anche noi, i credenti molto spesso ridotti a “elementi di religione”. La rilettura che le dobbiamo non deve essere solo astratta, una visione dall’alto. Lei coinvolge la memoria affettiva particolare, l’intimità di ognuno. Il seminario di Lacan fa di lei una scopritrice del “godimento femminile”, dal titolo suggestivo: Ancora. Il godimento femminile sarebbe dunque insaziabile? Ancora e ancora... Perché non si limita agli organi sessuali, ma infiamma tutti i sensi e trasporta il corpo nell’infinito del senso, mentre fa precipitare il senso stesso nel nonsenso, sintomi e follie. Un godimento di cui Teresa è la migliore esploratrice, e che la esilia da se stessa: perpetuo trasporto verso l’Impossibile, l’Innominabile. Che non smette tuttavia d’invitarla a parlare, a pensare, corpo e anima, passione della scrittura. Una testimonianza straordinaria, se ce ne fosse bisogno, del fatto che esiste un umanesimo cristiano intenso e ancora incompreso, e che la cultura europea si deve reinterpretare continuamente, se vuole sopravvivere al pensiero-calcolo e rifondarsi costantemente.

Perché ha affrontato una donna del XVI secolo, che ha continuato a conoscere e a studiare?

Spero di averla convinta della modernità di questa mistica, così come appare nella mia lettura. Ma posso precisarle forse meglio la seduzione che Teresa esercita su di me, ricordando due caratteristiche della sua opera che prediligo. La prima sarebbe quella santa ironia che rasenta l’ateismo. In un passo poco ricordato del Cammino di perfezione, Teresa consiglia alle sue sorelle di giocare a scacchi nei monasteri, sebbene il gioco non fosse consentito dal regolamento, per fare «scacco matto a questo Re divino». Un’impertinenza che riecheggia la celebre formula del Maestro Eckart: «Chiedo a Dio di lasciarmi libero da Dio». La seconda è formulata da Leibniz, che in una lettera a Morell del 10 dicembre 1696 scrive: «Quanto a santa Teresa, lei ha ragione a stimarne le opere; vi ho trovato quel bel pensiero secondo il quale l’anima deve concepire le cose come se non ci fossero che Dio e lei al mondo. Il che porta persino a un’importante riflessione in filosofia, che ho impiegato utilmente in una delle mie ipotesi». Teresa ispiratrice delle monadi leibniziane che contengono l’infinito? Teresa precursore del calcolo infinitesimale? Qualunque sia la modestia dello scrivere, questo atto del linguaggio amoroso è ancora oggi — e lo sarà sempre — un’esperienza che non ignora questi rapimenti, queste estasi. La carmelitana non ha inventato la psicanalisi, e neppure la scrittura moderna ma, cinque secoli prima di noi, ha chiarito quella strana esperienza che è il pensiero ai confini del senso e del sensibile, corpo e anima insieme: i segreti della scrittura. Teresa è nostra contemporanea.

La sua femminilità oggi ci dice qualcosa?

E se la femminilità di Teresa fosse post-moderna? Questa santa barocca è di una sensualità iperbolica ma anche sublimata, senza precedenti e unica fra le stesse mistiche, portate (donne e uomini) più alla sofferenza e al puro abbandono, che alla pienezza dei sensi. Ma Teresa è anche «la più virile delle monache» (Huysmans): ossia di una bisessualità psichica — per riprendere la terminologia freudiana — quasi rivendicata, esigente.

Qual è il senso di maternità di questa santa che scorre da secoli?

La secolarizzazione è la sola civiltà priva di un discorso sulla maternità. Mentre Teresa, nelle sue preghiere, ma anche nella sua opera di rifondatrice del Carmelo descritta dettagliatamente nelle sue Fondazioni, fa apparire una visione e una pratica della sua maternità simbolica come “madre superiore”. Per quanto sorprendente ciò possa apparire, alcune delle sue riflessioni a tale proposito possono illuminare — ancora oggi! — le genitrici (le donne che portano i bambini nel loro utero) quando diventano madri: quando vivono la passione e lo spassionamento da questo primo legame all’altro, che è il legame con il bambino, e diventano capaci di trasmettere la tenerezza, il linguaggio e il pensiero. Teresa comincia glorificando la sofferenza come via verso Dio, e anche come cammino obbligato della maternità. Ma ha anche il genio di distaccarsi dall’affetto muto, sia esso dolore o gioia. E raccomanda di «non godere di più» (che si tratti di godere di dolore o di godere di piacere), ma di «fare la volontà di Dio», che consiste nel «considerare gli altri senza legarsi le mani». Straordinaria, questa indefettibile dedizione agli altri, sostenuta dall’alterità dell’Altro! Sarebbe dunque questo a essere chiamato dipendenza materna: non accontentarsi di godere in sé e per sé, ma considerare l’esistenza di un Terzo, per accedere alla volontà di rispettare e sostenere gli altri, e non venire mai meno! Hannah Arendt aveva diagnosticato, dopo la Shoah, che il «male radicale» comincia dal momento in cui gli umani diventano incapaci di «pensare dal punto di vista dell’altro». Ebbene, per Teresa, essere madre sarebbe, insomma, tutto il contrario: la capacità di pensare dal punto di vista dell’altro. Oggi la freschezza di Teresa permette di riscoprire che esiste un cattolicesimo complesso, insolito, che “parla” all’intensità del nostro bisogno di credere e del nostro desiderio di sapere. Per i quali siamo privi di sostegni.

L’intellettuale atea Julia Kristeva, di origine bulgara naturalizzata francese, è studiosa che opera tra linguistica, psicanalisi, filosofia e narrativa. Insegna Semiologia alla State University of New York e all’Université Paris 7 Denis Diderot. Tra i suoi libri, Thérèse mon amour (2008). Presidente onoraria del Consiglio nazionale Handicap: sensibiliser, informer, former, dal 2015 è Commandeur della Legion d’onore.

Fonte: L'Osservatore Romano

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 09 Aprile 2015 12:38
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