Una "Chiesa di confine" a pochi chilometri dal muro che separa i territori controllati dai Peshmerga curdi dai primi bastioni dello Stato islamico; una terra di frontiera, sulla quale pende la minaccia costante del Califfato, capace di conquistare ampie porzioni di Siria e Iraq; una cittadina composta in larghissima maggioranza da cristiani, che ogni giorno devono "fare i conti con la paura", anche se "la volontà è di restare qui". Così p. Joseph Abdel Sater, dell'Ordine antoniano maronita, descrive la realtà quotidiana di Alqosh, cittadina della piana di Ninive resa celebre dal monastero di sant'Ormisda, incastonato sulla montagna che domina la vallata, dove a inizio '500 i cristiani irakeni maturarono il ricongiungimento con Roma. "Il nostro motto - racconta adAsiaNews - è non abbiate paura perché io ho vinto il mondo. Qui non bisogna avere paura, non bisogna temere ciò che può uccidere il corpo".
Libanese maronita nato nel dicembre del 1957, studi alla Pontificia università San Tommaso d'Aquino a Roma, oggi il monaco è delegato apostolico al monastero di Nostra Signora delle Messi ad Alqosh, appartenente all'Ordine antoniano di Sant'Ormisda dei Caldei. Esercita la funzione "pro tempore" di superiore generale, in attesa che l'ordine ne elegga uno proprio nel prossimo capitolo. "Ho iniziato nel 2012 e l'incarico dura cinque anni" racconta, ma non mancano le occasioni per rispondere agli inviti di mons. Rabban al Qas, vescovo di Duhok, e di mons. Amel Nona, arcivescovo di Mosul, "per partecipare a ritiri spirituali di sacerdoti, a incontri e conferenze". Tuttavia, aggiunge, "cerco di non spostarmi molto, perché qui al monastero c'è molto da fare".
"La nostra è una chiesa di confine con lo Stato islamico" prosegue p. Joseph, nato e cresciuto in una famiglia numerosa - sei figli, cinque maschi e una femmina - e dalla salda fede cattolica. Il motto, aggiunge, è "non avere timore di quello che può uccidere il corpo", perché "la nostra volontà è di restare qui: se anche i monaci scappano, chi resta a prendersi cura dei fedeli?".
Alqosh è una storica cittadina del governatorato di Ninive, nel Kurdistan irakeno; situata circa 50 km a nord di Mosul, la roccaforte dei jihadisti, essa costituisce uno dei principali centri della tradizione cristiana assiro-caldea. A circa 3 km dal centro, inerpicato sulle montagne che dominano la città, sorge il secolare monastero di Rabban Ormisda, sede dei patriarchi nestoriani dal 1551 al 1804. Nel tempo la struttura originaria, troppo esposta ad attacchi e assalti dall'esterno, oltre che simbolo di un periodo travagliato della Chiesa locale, è stata sostituita dal nuovo monastero di Nostra Signora delle Messi, poco fuori la città. Oggi è abitato da un gruppo di monaci, che hanno aperto le porte a orfani e giovani profughi, rimasti senza famiglia a causa delle violenze islamiste.
Anche Alqosh, come molte altre cittadine e villaggi del Kurdistan irakeno, ha accolto un numero consistente di rifugiati. "Questo è un villaggio cristiano, non ci sono musulmani. Nella nostra scuola abbiamo accolto alcune famiglie, altre sono sparse per la città; vi sono 13 famiglie di profughi, un centinaio di persone in tutto" racconta p. Jospeh, mentre ci apre le porte della chiesa del monastero. Al suo interno è stato realizzato un "presepe originale - racconta - realizzato su una cartina geografica dell'Iraq, con i colori nero, rosso e bianco; il Cristo viene da est, è la luce del mondo, che illumina e santifica il sangue (il rosso della bandiera irakena) versato dai nostri martiri".
Difatti in una zona ben definita del presepe campeggiano le fotografie di due grandi martiri della storia recente del cristianesimo in Iraq: p. Ragheed Ganni, ucciso da estremisti islamici nel giugno 2007, e mons. Paul Faraj Rahho, deceduto nel corso di un sequestro nel marzo dell'anno successivo. "Qui in Iraq la Nuova evangelizzazione è essere pronti al martirio" afferma, anche se l'obiettivo primario resta quello di "far rimanere qui i cristiani, fermare l'ondata migratoria, un dissanguamento" che non sembra avere fine. Per questo, aggiunge, "bisogna pensare a una strategia" e "la Chiesa in prima persona può e si deve occupare di questo".
Prima di salutarci, p. Joseph indica la grande croce di 6 metri di altezza che i cristiani della città hanno eretto sulle pendici della montagna; un simbolo che afferma, una volta di più, il coraggio e la determinazione di questa comunità nel fronteggiare e superare le insidie. Oggi lo Stato islamico come le persecuzioni del passato. "Possiamo scegliere fra la logica umana e la grazia divina: secondo la prima, dovremmo andare via. Ma se crediamo nella grazia - conclude il monaco - bisogna avere fede nella parola di Dio. Gesù ci ha amato fino alla croce, noi siamo qui per questo, per mantenere vivo il sangue dei primi martiri cristiani, che hanno innaffiato questa terra".