Il giorno della vigilia del Natale è stata resa pubblica la nomina del padre Lisandro Rivas, Missionario della Consolata, come vescovo ausiliare della grande archidiocesi della città di Caracas.
Abbiamo potuto scambiare con lui due parole appena prima della sua partenza per il Venezuela dove è stato convocato per partecipare a una riunione della Conferenza Episcopale. Gli abbiamo chiesto a proposito del suo nuovo impegno, della sfida che rappresenta per la sua vita missionaria, delle consolazioni di cui ha bisogno in questo momento il Venezuela.
Di che consolazioni ha bisogno oggi il Venezuela?
Non credo si tratti di fare niente di diverso di quello che come Missionari della Consolata abbiamo fatto in questi 50 anni di storia che abbiamo appena finito di celebrare.
Nella nostra missione in Venezuela abbiamo sempre accompagnato regioni e realtà umane specialmente povere, una costante sfida per la società e anche la chiesa di questo paese. Inizialmente abbiamo lavorato soprattutto fra gli indigeni e i discendenti degli antichi schiavi africani, ma poi ci siamo avvicinati alle situazioni marginali della città, e al complesso mondo giovanile. Questo lavoro l’abbiamo fatto secondo il nostro carisma: “senza tanto rumore” e con “il bene fatto bene”.
Oggi più che mai la gente ha bisogno di consolazione è questa la dobbiamo tradurre in vicinanza e presenza. I problemi che affronta il Venezuela sono tanti e sono gravi e come chiesa non abbiamo una soluzione facile in tasca, ma almeno possiamo essere presenti e questa presenza è già un primo chiaro segno di consolazione. In quella Caracas dove predomina la desolazione, che si traduce in povertà, mancanza di servizi e istituzioni, dobbiamo imparare a farci prossimi.
Mi sembra interessante che questa mia nomina sia stata diffusa nei vesperi del Natale, quando ricordiamo precisamente che Dio, nella persona di Gesù, si è fatto prossimo nella più assoluta povertà e semplicità. La consolazione della vicinanza, che si traduce in presenza, cammino, ascolto e regno, la dobbiamo donare ai nostri fratelli, come insegna il papa Francesco, in un cammino fatto insieme, sinodale.
Cosa rappresenta per te l’episcopato?
Per me lo stesso ritorno alla mia terra di origine, il Venezuela, dopo anni lontano dal mio paese, è una autentica sfida. Ho lavorato ormai un bel po’ di anni fa nel mio paese di origine, ma poi dopo la missione mi ha portato altrove. Adesso è come un nuovo principio e davvero chiedo a Dio di darmi il dono grande dell’ascolto. Bisogna ascoltare molto per sapere che cosa sta succedendo oggi in Venezuela.
Caracas è una realtà molto complessa: sono più di 600 i religiosi presenti nell’archidiocesi, e poi le religiose, i sacerdoti diocesani e le comunità cristiane. Non nascondo una certa preoccupazione ma se questo è quello che Dio mi sta chiedendo in questo frangente della mia vita, allora davvero voglio avvicinarmi a tutti con disponibilità all’ascolto. Non voglio nell’episcopato perdere la mia identità “consolatina”. Voglio fare il meglio possibile ma con un atteggiamento di ascolto, umiltà e attingendo sempre al carisma dei Missionari della Consolata, per essere precisamente fonte di consolazione.
Certamente i Missionari della Consolata continuano ad essere la mia famiglia e conto con la loro vicinanza, con la loro solidarietà, con lo spirito di famiglia che ci ha sempre caratterizzato. Anche se con un incarico diverso, io voglio rimanere in comunione con i miei fratelli missionari. Specialmente quelli che sono presenti nella città di Caracas, senza dimenticare le Missionarie della Consolata e i vari gruppi di laici.
E la missione?
Certamente la cosa più importante che possiamo portare è la nostra identità missionaria. Anche nella grande archidiocesi di Caracas è importante continuare a dare quel sapore missionario che ci ha contraddistinti. Il papa Francesco nella Evangelii Gaudium ci ricorda che la gioia dell’evangelizzatore deve permeare tutta l’attività pastorale della chiesa.
Vorrei anche fare di questo episcopato un segno di quello che i Missionari della Consolata hanno fatto in tutti questi anni in Venezuela.
Una delle cose che come Missionari della Consolata dobbiamo fare in Venezuela è continuare ad essere propositivi, senza imporre. Giuseppe Allamano diceva che non era importante la quantità ma la qualità e quindi, senza improvvisare, cerchiamo di costruire assieme, progetti chiari con le persone con le quali lavoriamo: gli afrodiscendenti, gli indigeni, le persone che vivono nelle periferie delle città.
Vorrei poter mostrare non a parole ma con fatti, anche in cose piccole e semplici, la grande opera della consolazione di Dio a favore degli ultimi e poveri, nella chiesa particolare di Caracas.
Chiedo a tutti voi di accompagnarmi con la preghiera e chiedo la benedizione della Consolata, quel che si fa è sempre opera sua.