Letture:
Am.7,12-15;
Sal.84;
Ef.1,3-14;
Mc.6,7-13: Incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti.
Canto al Vangelo
Alleluia, alleluia
Accogliete la parole di Dio non come parola di uomini,
ma qual è veramente: Parola di Dio
Per salvare gli uomini, Dio ha bisogno degli uomini. È una legge fondamentale della storia della salvezza. Per salvarci, Dio deve poter comunicare con noi, ma se lo facesse direttamente, se parlasse una lingua divina o angelica, chi lo capirebbe? Deve quindi comunicare “per mezzo di uomini alla maniera umana” (DV 12), ed è precisamente quello che ha fatto: nei tempi antichi, nell’Antico Testamento, il Signore “ha parlato per mezzo dei profeti”. Poi però, quando è giunta la pienezza dei tempi, “ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Ebr 1,1s). Ma come fa il Figlio di Dio a parlare a tutti gli uomini di tutti i tempi, di ogni latitudine, in ogni situazione? Attraverso i suoi discepoli che manda in tutto il mondo a fare altri discepoli da tutte le nazioni: è la storia della missione.
1. Il vangelo di oggi ci racconta una sorta di tirocinio o “noviziato” missionario per i primi discepoli. Gesù se li è scelti uno ad uno, li ha poi chiamati tutti insieme e ha fondato la comunità dei “Dodici”. Da loro due obiettivi: il primo è “perché stessero con lui”, e il secondo, “per mandarli ad annunciare” (Mc 3,14). È arrivato ora il tempo per i discepoli di raggiungere questo secondo obiettivo: diventare missionari, come Gesù, e andare a fare quello che finora hanno visto fare al Maestro: annunciare il Regno di Dio e a guarire i malati. Pertanto, essi dovranno svolgere questa duplice attività: annunciare il Vangelo e guarire le infermità.
2. Il vangelo di Marco si sofferma sullo stile del missionario, che è un chiamato. Una chiamata-tipo l’abbiamo sentita raccontare nella 1ª lettura, tratta dal profeta Amos. Siamo nell’VIII secolo, al tempo del re Geroboamo II, nel regno del Nord, il regno di Israele. Sono tempi di grande prosperità materiale: alla sfacciata ricchezza di alcuni, fa riscontro la penosa povertà di molti. Lo sfoggio delle fastose cerimonie religiose nasconde il vuoto di una fede autentica, maschera l’avidità e l’ingiustizia. Lo scontro tra il profeta pastore-contadino venuto dal regno fratello-nemico di Giuda, e Amasia, il sacerdote di corte, è inevitabile e si conclude con la cacciata di Amos. Al sacerdote che gli rimprovera di non avere alcun mandato e di turbare l’ordine, Amos oppone la sua storia: ero un mandriano e coltivavo i sicomori; fui “afferrato” da Dio. Non si è profeti per professione, ma per vocazione. La missione non è un’autodestinazione, e il missionario è un mandato.
L’inviato ad evangelizzare non è più padrone di sé stesso. Scrivendo ai cristiani di Roma, Paolo si qualifica come “schiavo di Cristo Gesù”, e nella lettera ai cristiani di Filippi si autodefinisce “afferrato da Gesù Cristo” (3,12). Il missionario non ha un suo progetto da realizzare, né una parola propria da dire. La chiamata richiede un grande amore: non si va in missione per interesse, ma per amore, e non primariamente per amore degli uomini, ma di Gesù Cristo. “Noi siamo vostri servitori per amore di Gesù Cristo”: è sempre Paolo (2Cor 4,5).
3. Inoltre si va in missione a due a due, non da soli, né in ordine sparso, ma in comunione piena, legati a Cristo, il primo missionario, e a tutti gli altri. Il messaggio fondamentale dei cristiani “apostoli” sarà necessariamente la loro stessa vita, un segno di unità, un seme di comunione.
Si narra che un giorno S. Francesco d’Assisi disse ad un fraticello di prepararsi per andare insieme con lui a predicare in paese. E uscirono, passarono in una piazzetta dove si faceva il mercato, ma Francesco non predicò; entrarono nelle due, tre chiese incontrate lungo il percorso, ma neanche lì Francesco non predicò, né chiese al frate di farlo. Finalmente tornarono in convento, e il fraticello domandò al santo: “E la predica?”, e Francesco di rimando: “L’abbiamo già fatta?!”. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
4. Un’altra caratteristica dei missionari cristiani è la povertà: non devono “portare niente per strada... né pane, né bisaccia, né denaro nella cintura”. Senza appoggi e senza favori, sicuri solo dell’amore di lui che li invia. Vengono permessi solo il bastone e i sandali, l’equipaggiamento dei pellegrini, perché tali sono i messaggeri del Regno di Dio. Nel bastone e nei sandali, è da vedere una sottile allusione all’agnello pasquale da mangiarsi con “il bastone in mano e i sandali ai piedi” (Es 12,11). Quasi a dire: i discepoli del Signore devono annunciare la sua Pasqua, il suo passaggio dalla morte alla vita, l’Eucaristia.
5. La missione è grazia, “la grazia dell’apostolato” (Rm 1,5), un dono gratuito, prima che un dovere sfibrante. Certo sarà anche sacrificio, sarà anche rischio e forse martirio, ma è innanzitutto un segno di “misericordia che ci è stata usata” per “portare la conoscenza della gloria divina che risplende sul volto di Cristo” (2Cor 4,1.8). Di qui la perfetta letizia, l’umile e luminosa gioia del missionario, l’esultanza limpida e radiosa, anche se gli sbattessero la porta in faccia, o l’annuncio venisse respinto.
6. Chi è il missionario di Cristo? Forse possiamo usare la frase dei profeti antichi: “Chi viene sedotto da Cristo e si lascia sedurre”, anche se non solca i mari o attraversa i continenti e non lascia mai il suo luogo di lavoro.