Con l’andare del tempo non è scomparso soltanto il senso della santità e della festa di chi ci ha preceduto sulla via della giustizia e dell’amore, ma anche il senso profondo della morte e di coloro vivono in una dimensione nuova e diversa da quella che le nostre povere menti riescono a percepire.
La parodia e la banalizzazione della morte e della relazione con l’aldilà si è imposta in Occidente ultimamente con la festa di halloween, che ha stravolto la relazione feconda che, sin dall’antichità, è esistita tra chi vive e chi muore e ha popolato di mostriciattoli e di zombi la terra dei viventi e quella dei defunti. In questo modo si è creato un solco profondo e invalicabile tra l’aldiquà e l’aldilà, tra terra e cielo e la morte è stata estromessa dalla vita, quando invece rimane una delle poche certezze che dovrebbero accompagnarci per renderci autentici e felici nelle relazioni e nell’amore.
Prima lettura: Gb 19,1.23-27a
La prima lettura di questa domenica riporta il grido di Giobbe che emana dal profondo del suo dolore: «Io so che il mio redentore è vivo!». Il termine ebraico tradotto con «redentore» è pieno di significato e dà senso a tutto il brano. Nell’ebraismo e nell’antico Oriente, il go’el (redentore) era il parente più prossimo, che aveva il compito di riscattare i propri cari che, a motivo di debiti o altre vicende drammatiche, rischiavano di cadere o erano caduti in schiavitù. Il go’el interveniva per solidarietà familiare, per relazione intima e personale, pagando il riscatto e liberando lo schiavo. Giobbe, uomo provato e solo, torturato dai nemici e abbandonato dagli amici, si erge nella sua disgrazia e, con dignitosa fierezza proclama la sua fiducia in Dio, il go’el, che non abbandona mai nessuno e non dimentica.
È vero che, di fronte a tante situazioni umane – dove ogni essere umano (come Giobbe) vive nel disperato bisogno di una risposta – Dio sembra stare in silenzio. Di fronte all’agonia della morte, nel più disperato bisogno, nella notte degli ulivi… Dio sembra dileguarsi. È vero, alla morte Dio non dà la risposta che noi vorremmo, ma offre un senso. Non una qualsiasi attribuzione di senso: non si tratta di proclamare la trasformazione del silenzio di Dio in un tranquillante psichico o di procurare una facile consolazione… L’offerta di senso significa che Dio mi è vicino anche quando la mia situazione si fa desolata, assurda e disperata; che Dio è il mio go’el, il mio redentore, anche quando non c’è consolatore. Posso incontrarlo, non solo nell’ebbrezza della vita, ma anche nell’oscurità e nell’assenza. Questo significa che la morte, malgrado appaia quasi sempre come un abbandono da parte di Dio, in realtà può diventare luogo di incontro con Dio.
Ho ricordato spesso un’antica preghiera della tradizione bizantina, che proclama: «sei disceso, Signore, per cercare Adamo, e non avendolo trovato sulla terra sei andato a cercarlo fino agli inferi!». E in un’antica omelia siriaca è scritto: «Il creatore di Adamo ha visitato Adamo negli inferi; è sceso, l’ha chiamato: “Adamo dove sei?”, come gli aveva detto nel giardino (Gen 3,9). Quella stessa voce che lo aveva chiamato tra gli alberi, è discesa per chiamarlo tra i morti». Ecco il Dio della fede biblica: Jhwh è il Dio della vita e, proprio a motivo di ciò, non permetterà mai che i suoi santi sperimentino la corruzione di una relazione di vita.
Il Vangelo: Gv 6,37-40
Un altro grido – diverso da quello di Giobbe – ma che viaggia sulla stessa lunghezza d’onda che inneggia alla vita, è contenuto nel contesto della Parola evangelica che ci è donata in questa domenica; è il grido di Gesù: «Io sono!». Nel Vangelo di Giovanni, più volte viene proclamata una verità associata all’«Io sono» della Parola fatta carne: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35), “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25), «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Un «Io sono» che investe la vita dei credenti, come afferma Gesù subito dopo: «questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40). «Io sono» è un inno alla vita e alla ricerca di ciò che veramente nutre e disseta! Proprio il contrario del macabro e dell’orrore della signora «follia», che attraversa in questi giorni le nostre strade e che lusinga donne e uomini, promettendo senza mantenere. Orrore che diventa, poi, guerra che fa strage di innocenti, carestia che affama i bambini… L’«Io sono» di Dio diventa pane che alimenta, acqua che disseta, come canta il profeta Isaia: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti» (Is 55,1-2).
Tutti noi stiamo camminando su uno scialo di morte e di desertificazione della terra e delle relazioni vitali che ci fanno crescere. Non è Dio che ha creato il deserto e la morte; se siamo sinceri, non possiamo non riconoscere che una grande porzione di morte e di dolore che esiste nel mondo è riconducibile proprio alla prevaricazione e all’ingordigia umana, alla sua sete di potere (essere come Dio!), alla sua depravazione e irresponsabilità. Il deserto ci ricorda che Dio non può essere sfidato impunemente. E tuttavia, il deserto può diventare per noi un’esperienza pedagogica, da cui impariamo cosa significhi vivere e cosa significhi morire: quando ci insegna a riconoscere i veri bisogni e a liberarci di tutti i surrogati e le stampelle che la signora «follia» ci offre.
Nel deserto – lì dove l’essere umano è privato della prosopopea che lo illude di poter bastare a se stesso – l’uomo può imparare a guardare in faccia la realtà di menzogna in cui vive, a chiamarla per nome, senza finzione e senza paura, e a tornare sulla via della vita. Quando si impara questo ritorno – che potrebbe essere chiamato anche conversione – il deserto tornerà a fiorire e da quel luogo di tenebre e di morte, inaspettatamente, sgorgheranno sorgenti d’acqua viva e scenderà manna dal cielo.
Questa speranza viene da Dio, perché è l’amore di Dio che ha dato la sua Parola e ha stretto la sua alleanza con il popolo che camminava nel deserto, ma viene anche dalla responsabilità umana, come ci insegnano coloro che ci hanno preceduto nella fede. Allora, e solo allora, potremo cantare, con tutti i santi del cielo e gli esseri umani che vivono ancora sulla terra: «dov’è o morte la tua vittoria?».
* Don Massimo Grilli, Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana. Originariamente pubblicato in www.diocesitivoliepalestrina.it










