Una delegazione della popolazione quilombola del Brasile si è recata in Europa per denunciare le violazioni dei diritti fondamentali, la discriminazione culturale e religiosa e chiedere la regolarizzazione delle loro terre ancestrali. A Roma i leader afrodiscendenti hanno rilasciato un'intervista al sito Consolata News.
In Brasile, ci sono circa 1,3 milioni quilombolas (gruppi etnici afrodiscendenti) distribuiti in 1.700 comuni. Tra il 2019 e il 2024, sono stati registrati 46 omicidi di leaders, secondo il progetto “Resistenza Quilombola”, sviluppato dal Coordinamento Nazionale delle Comunità Rurali Nere Quilombolas (CONAQ) in collaborazione con la Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti (COSPE) e con il sostegno dell'Unione Europea. Il progetto che ha già coinvolto più di 90 comunità in conflitto i cui leaders sono stati minacciati, sta proponendo misure e protocolli di protezione.
Violenza contro le donne
Nello stesso periodo, sono stati documentati 58 casi di minacce di morte, di cui 33 rivolte a donne leader. “Non si tratta solo di essere una donna o di essere una leader isolata. La violenza è una questione trasversale che determina la nostra sopravvivenza sotto ogni aspetto”, afferma Nathalia Purificação, coordinatrice della comunicazione del CONAQ, che ha fatto parte della delegazione in visita in Italia (Ferrara, Firenze, Roma) e in Europa (Madrid, Bruxelles e Ginevra).

Carovane da diversi stati partecipano all'evento organizzato dalla CONAQ, aprile 2025. Foto: Joédson Alves/Agência Brasil
“Essere donna in questa società odierna è già una sfida enorme. Non voglio sminuire le lotte delle altre donne, ma essere una donna nera, quilombola, rurale, una leader, che venera religioni non accette in alcuni luoghi, determina la nostra vita qui sulla Terra”, sottolinea Nathalia, ricordando che, dal 2008 al 2024, 22 donne quilombola, la maggior parte delle quali leader, sono state uccise e due hanno subito un tentato omicidio.
Nathalia cita come esempio Maria Bernadete Pacífico, che nell'agosto del 2023 è stata brutalmente assassinata nel Quilombo Pitanga dos Palmares nello stato di Bahia con 25 colpi di arma da fuoco davanti ai nipoti. Come leader ella aveva denunciato ripetutamente attività illegali come il disboscamento e l'estrazione non autorizzata. La sua tragica fine segue quella di suo figlio, Flávio Gabriel Pacífico dos Santos, assassinato nel 2017. “Mãe Bernadete è stata uccisa perché era una donna leader, ma anche perché venerava e credeva in chi credeva. È una sfida che ci accompagna da quando il Brasile è Brasile, siamo sempre stati vittime di violenze, la nostra fede è sempre stata messa in discussione", sottolinea, evidenziando la piaga della discriminazione religiosa. In molti casi, sono gli stessi funzionari pubblici, spesso legati ai grandi proprietari terrieri, a creare un clima di terrore generalizzato nelle comunità.

Delegazione quilombola del Brasile durante intervista a Roma. Foto: Jaime C. Patias
Riconoscimento territoriale
“È a partire dalla regolamentazione del territorio che possiamo attuare altre azioni e garantire i nostri diritti”, osserva José Maximino Silva, coordinatore nazionale della CONAQ e del progetto Resistência Quilombola. “Guardando al Congresso Nazionale, ci rendiamo conto di quanto sia conservatore, così come le strutture di potere in Brasile. Gli spazi decisionali sembrano non essere stati creati per noi. Dobbiamo rompere questa bolla per affrontare le nostre richieste e dare visibilità alla nostra lotta”.
Nathalia Purificação sottolinea che “con la titolarità del territorio” che, secondo lei, “è il primo passo e non il punto di arrivo per ottenere i nostri diritti, altre politiche arrivano nella comunità. Si possono creare mille leggi, ma se non si dà ai quilombolas il potere sulla terra e l'autonomia di coltivare ciò che mangiano, di prendersi cura di ciò in cui credono e che dà slancio alla loro vita, si toglie loro tutto”, osserva.
Movimenti uniti nella lotta
Parlando sull'unità delle organizzazioni nella lotta contro il razzismo e la discriminazione in Brasile, Maria Aparecida Ribeiro de Sousa, coordinatrice nazionale del CONAQ, dove coordina anche il Collettivo delle Donne, spiega che “ci sono molti punti in comune tra i quilombolas e altri movimenti per la terra e i diritti, come quello indigeno. In Amazzonia, ad esempio, ci sono quilombos riconosciuti dal governo, simboli di identità e resistenza condivisi dai popoli africani schiavizzati dai coloni e dalle popolazioni indigene locali. Certo, le nostre rivendicazioni differiscono da quelle dei movimenti che emergono nelle aree urbane, ma quando arriva il momento di scendere in piazza, troviamo un terreno comune e marciamo insieme”, conclude.
Demonizzazione e cancellazione della fede ancestrale
Da qualche tempo i valori religiosi e culturali ancestrali hanno iniziato a essere demonizzati, soprattutto dal neopentecostalismo che si è diffuso nei territori indigeni e quilombola. Nathalia ricorda che “il processo di colonizzazione del Brasile è stato violento non solo per il sangue versato, ma anche per le storie cancellate”, sottolinea.
“Quando il neopentecostalismo arriva nelle nostre comunità, non si tratta di violenza nella sua forma più evidente, ma di violenza intrinseca che ferisce profondamente dentro di noi. Migliaia di comunità quilombolas hanno cancellato le loro uniche tracce di ascendenza e di culto degli orixás in nome di una politica che vede una sola salvezza”. Il popolo brasiliano è un popolo di fede diversificata con testimonianze indigene e africane. “Quando arrivano queste chiese, non solo trasformano una credenza, ma uccidono la cultura e la fede che sono rimaste, l’unica prova che siamo stati portati dall’Africa”, denuncia.
José Silva sottolinea che il Brasile è uno Stato laico, “ma sappiamo quali religioni predominano. La religione è sempre stata una forma di potere usata come forma di dominio. Noi, provenienti da religioni di origine africana, siamo stati oppressi fin dall'inizio. Il potere come religione è stato colonizzato, e questo continua ancora oggi”.
Le chiese neopentecostali “non solo utilizzano la religione per invadere i nostri territori, ma anche per negare la fede che abbiamo. Questo è molto dannoso e sono modi per rendere le persone sottomesse. I neopentecostali cercano di penetrare nella mente delle persone affinché rifiutino la loro condizione. È un lavaggio del cervello, una manipolazione che arriva in modo velato e mascherato”, dice José Maximino. La paura è così grande che gli anziani, che conservano le tradizioni delle rezadeiras (donne di preghiera), delle benzedeiras (guaritori) e degli orixás, “iniziano a nasconderlo e a vergognarsi di ciò che manifestavano. Di conseguenza, questa tradizione non viene più trasmessa ai giovani”.
Secondo José Silva, nel precedente governo brasiliano “si è assistito alla proliferazione di un tipo di fede. E questa fede era violenta perché ha creato una disputa per stabilire quale fosse la fede giusta e quale quella sbagliata, quale fosse utile e quale no. Così, abbiamo visto persone manifestare i lati più oscuri di sé praticando violenza in nome di una fede considerata quella giusta. Questo è molto negativo perché limita e mette a tacere una diversità bellissima nelle religioni africane”, valuta.
Resilienza, accettazione e ascolto
Guardando al futuro, gli attivisti afrodiscendenti sottolineano alcune parole chiave: resilienza, accettazione e ascolto. “Dobbiamo ascoltarci per comprenderci meglio e imparare ad ascoltare gli altri”, afferma Maria Aparecida. “Accettazione, ascolto e dialogo sono le triadi essenziali dell'energia propulsiva e trasformativa”, ribadisce José Silva.

Nego Bispo in visita allo Spazio della Conoscenza, Università Federale di Minas Gerais (UFMG) nel 2023. Foto: Fernando Silva
Nathalia aggiunge, citando Nêgo Bispo, leader, filosofo e scrittore della Comunità Quilombola di Saco-Curtume nel comune di São João do Piauí, Piauí, scomparso nel 2023, che insegnava: “Noi siamo inizio, mezzo e inizio”. Ciò significa che “la nostra ascendenza non finisce, ma ha una continuità. E noi siamo qui per realizzare questa continuità. Siamo una delegazione giovane e abbiamo questa voglia di continuare e rimanere, finché i nostri diritti non saranno riconosciuti e i nostri territori riconosciuti. La lotta non finisce qui. Noi siamo inizio, mezzo e inizio. Non vogliamo vendetta, vogliamo solo giustizia”, conclude Nathalia con uno sguardo di speranza.
* Jaime C. Patias, IMC, Ufficio per la Comunicazione.










