“Ma la morte è per tutti o per pochi? Non è più (o forse non è mai stata) una livella!”, dice padre Stefano Camerlengo, IMC, missionario della Consolata in Costa d’Avorio.
Per spazio + spadoni, riEvoluzionare le opere di misericordia significa anche avviare dibattiti, approfondire delle tematiche intorno ad esse. Oggi, questo nostro amico missionario – già Superiore Generale dell’Istituto Missioni Consolata – con la riflessione che ha voluto condividere con noi sul nostro blog, ci offre l’opportunità di riflettere su come trattiamo e seppelliamo i nostri morti, ricordandoci che la misericordia non è sganciata dalla giustizia.
Sono in Costa d’Avorio in una missione “lontana”. Lontana non solo geograficamente ma anche culturalmente, tradizionalmente, strutturalmente e molti altri “…mente”.
Qui alla missione abbiamo un Centro di salute che cerca di curare la gente. L’altra notte è morto un bambino per malaria e, purtroppo, questa è una triste realtà che spesso si ripete.
Ogni volta che muore un bambino per malaria uno si arrabbia e grida, perché non è possibile oggi morire così. Eppure, succede e la famiglia con molta dignità recupera il bambino e lo porta a casa per seppellirlo decorosamente, senza troppo strepito, senza clamore o maledizioni e piano piano è dimenticato.
Ma, dall’altra parte, cercando di tenermi informato, rimango allibito davanti a tanta ottusità, a difese assurde della violenza, a dichiarazioni di guerra, a discorsi senza senso e senza limiti. Il tutto innaffiato dalla paura che ha preso il sopravvento su tutto e la fa da padrona.
Mi è anche capitato di vedere le immagini e i discorsi che hanno accompagnato la morte di alcuni “grandi” come Pippo Baudo, Armani…e mi sono detto che Totò, nella sua poesia, non aveva ragione: la morte non è una livella perché ci sono morti e morti…
La morte di qualcuno conta e fa discutere, la morte di altri va subito dimenticata. Quella di altri ancora, poi, è un peso che dalla coscienza dobbiamo rimuovere rapidamente per poter stare bene, almeno in apparenza…
- i bambini che muoiono in mare tentando con i loro genitori la fortuna di una vita migliore;
- i bambini che qui da noi muoiono ancora per la malaria e arrivano distrutti nel nostro ospedale e non riusciamo a risvegliare;
- i bambini che hanno fame e non possono sfamarsi e di questo muoiono gridando al mondo il suo peccato.
Ecco perché non è vero che la morte è una livella. Io mi trovo a vivere con il popolo Xenofou che ha tra i propri valori più importanti il rispetto, la cura e l’attenzione per i morti.
Quando qualcuno muore, tutto il villaggio e anche gli abitanti dei villaggi vicini si fermano e prendono parte al funerale, all’accompagnamento del defunto.
La morte non è mai coerente, per nessuno. Non mi riferisco al dolore privato, che è sempre individuale e inestimabile, ma al suo riflesso nella cultura, ciò che crea una storia comune. La morte, in altre parole, come fatto sociale.
Quando Giorgio Armani muore, la notizia non è semplicemente riportata; è esaltata, ritualizzata, istituzionalizzata. I necrologi si trasformano in epiche, le foto diventano icone. I telegiornali aprono speciali sulla sua vita, un’epopea del genio italiano. La sua morte non è una morte, ma una consacrazione, un’apoteosi mediatica che rende eterno il suo mito. È il teatro della memoria occidentale: un uomo giustamente ammirato diventa una leggenda. È una morte che può essere raccontata su tutti i quotidiani, con articoli infiniti e infiniti particolari.
Diciottomila bambini che muoiono a Gaza, invece, non ricevono quello spazio; non viene concessa loro quella dignità narrativa. Neanche un piccolo particolare per raccontare quel genocidio.
E mentre piangiamo un Giorgio, cancelliamo Seraj Ayad, Mohammed, Hussein Yousef, Mousa, Duniam Mahomed. I loro nomi non diventano un coro, ma un sussurro perduto; si insinuano nelle notizie come una cifra che risuona freddamente nei bollettini delle agenzie.
Non vediamo i corpi, non ascoltiamo le storie, non documentiamo i sogni infranti.
Loro non muoiono per diventare un ricordo, ma per essere un numero. Non fanno notizia, non interessano a nessuno.
Due forme di lutto, completamente in contrasto: una ritualizzata, l’altra estraniata. La prima è raccontata e la seconda rimane non detta. È qui che la nostra ipocrisia è grande. Alcune vite sono intese come più “piangibili” di altre. Quelle “vite di scarto” descritte dal sociologo Zygmunt Bauman: vite la cui perdita non interrompe il nostro quotidiano, non forza le nostre emozioni fuori dalla loro zona di comfort.
Gaza, Dianra e altre zone dimenticate del mondo sono l’apogeo della logica: vite che non equivalgono a vite, morti che non contano tanto, che non sono condotte sullo stesso palcoscenico.
La morte del “Maestro” crea una storia ordinata; ha un protagonista, una trama di trionfo e una fine che grida di essere narrata. Ci rassicura. Al contrario, ciò che causa la morte di Dunia, di Mousa, di Mohamed e tanti altri senza nome è uno strappo nel tessuto della civiltà.

È una storia insopportabile perché, possiamo dirlo, è troppo vicina al crimine per essere inghiottita nella storia. Quindi preferiamo non guardare. Scateniamo forme altamente efficaci di distanziamento, a partire dalla depersonalizzazione. “Diciottomila” è un numero. Non diciottomila volti, non diciottomila futuri che non sono mai nati.
Il flusso costante di immagini e numeri ha un effetto anestetizzante, e l’orrore ripetuto inizia a sembrare un fenomeno normale. La nostra empatia è riversata su ciò che troviamo più vicino, più “nostro”.
La morte non è più un destino universale, se mai lo è stata. Si trasforma in un privilegio per alcuni. No, non è più una livella ma un coltello tranciante che continua a dividere le categorie tra quelli che contano e gli invisibili.
Per questa ragione, sono felice di essere un missionario, perché la missione è mettersi dall’altra parte, dove vivono i dimenticati, i poveri, gli scarti. Loro ci sono e ci ricordano che, nonostante tutto, la vita è importante per tutti e va amata, protetta e celebrata in ogni luogo.
* Padre Stefano Camerlengo, IMC, missionario in Costa d’Avorio. Originariamente pubblicato in: spaziospadoni.org










