I colori dell’essere insieme. Edificare una chiesa (e ritinteggiare un villaggio)

I colori dell’essere insieme. Edificare una chiesa (e ritinteggiare un villaggio) Tutte le foto Matteo Pettinari

A colloquio con l’architetta Daniela Giuliani

A nord della Costa d’Avorio, nella diocesi di Odienné, presso la parrocchia Saint Joseph Mukasa di Dianra-Village dei Missionari della Consolata, su di un piccolo poggetto di pietra rossa, dal 2019 sorge una chiesa che è la più umile delle architetture, ma stupisce chi arriva per il suo simbolismo profondo. L’architetta Daniela Giuliani, della diocesi di Senigallia, in Italia, ci racconta come è nata questa chiesa piena di luce e di colori, dove anche chi non sa leggere, o non conosce la lingua in cui si celebra può partecipare alla vita nuova. «La chiesa parrocchiale Saint Joseph Mukasa di Dianra-Village nasce dalla fede grande del primo catechista Maxime Soro e della sua gente, dalla premura dei padri missionari, dalla generosità di molti, e dal coraggio del mio amico, padre Matteo Pettinari, che mi ha chiesto di dar forma al loro sogno: poter celebrare le meraviglie di Dio in un edificio che potesse annunciare il suo amore per noi. Il cantiere è durato tre anni e ci ha insegnato tanto: nell’ascolto della cultura Senoufo, nella fede della gente semplice, nei materiali locali, nel cammino dei neofiti che a Pasqua ricevono il battesimo e danzano tutta la notte, nelle architetture copte e siriache più vicine alla terra ivoriana. Abbiamo proceduto spesso a tentoni, senza pretendere di capire sempre tutto, disegnare tutto, ma vivendo l’obbedienza alle ispirazioni che piano piano sono cominciate ad arrivare. E con stupore i mattoni impastati uno ad uno sono diventati muri, archi, volte, mai visti a Dianra, ma realizzati da una piccola impresa locale. E poi le mattonelle, scarto di un magazzino di Abidjan, che i catecumeni hanno dapprima sgranato e poi ricomposto, con l’aiuto di alcuni giovani partiti per una esperienza di missione, in forma di pani, di croci, di acqua che dà vita. E infine Sorò, piccolo di statura, arrampicato su trabattelli di fortuna per affrescare le pareti, lui che dipingeva murales e ha voluto usare i suoi tre barattoli di colori da carrozzeria… con una abilità degna dei migliori artisti». 

Nella chiesa di Dianra-Village a prima vista colpiscono i colori: quelli della tonalità della terra a segnare i volumi all’esterno; il blu, il rosso e il giallo oro all’interno, nella navata e nell’abside. Perché questa manifestazione forte dei colori, che, tra l’altro, era presente spesso nella storia della Chiesa quando la fede è stata forte? 

In architettura oggi dominano spesso il bianco, il grigio e le linee essenziali, cercando forse semplicità e purezza dopo l’epoca barocca, ma esprimendo probabilmente anche la realtà dell’uomo contemporaneo, il suo vuoto. La tradizione della Chiesa, dall’altra parte, ci dona esempi straordinari di edifici liturgici pieni di colore e di potenza espressi va. Lo spazio liturgico è spazio abitato, è spazio di relazioni e di incontro. La liturgia che vi si celebra tocca la vita, quella della terra (fatta dell’ocra delle case di terra cruda, del verde delle piantagioni di anacardo, del rosso delle strade impolverate) e quella del cielo, dove il rosso di Dio e il blu dell’umanità danzano insieme, i volti dei santi ci fanno compagnia e l’oro di Dio rende luminosa la vita. Me lo hanno ricordato gli abiti degli amici di Dianra: in questo villaggio, dove non vi sono quadri alle pareti delle case, la loro vita esplode nel colore dei vestiti, che dicono la nostra appartenenza e cambiano colore nei giorni di festa. 

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È proprio la gioia che esprimono questi colori e la luce che pervade la chiesa. Secondo Alexander Schmemann la gioia non è soltanto una componente della nostra fede, ma «la tonalità che pervade tutto», è «la vocazione stessa della Chiesa». Nella gioia, ricorda Schmemann, la Chiesa diventa ciò che essa è. Come può un’architettura trasmettere questa gioia? 

Il “come” ci è insegnato nella liturgia che celebriamo. Noi entriamo con il nostro grigio, il nostro buio, la nostra morte. Ma il Signore fa nuovi noi e tutte le cose. Chi entra dalla porta, che è Cristo, è generato a vita nuova. La chiesa di Dianra è costruita a partire dal fonte battesimale, dove la notte di Pasqua i catecumeni si spogliano dell’abito vecchio e indossano quello di luce. E poi entrano in questa «stanza al piano superiore» dove tutto ci è dato in dono, da quella mano aperta del Padre che è nel punto più alto della chiesa, sopra l’altare. E tutta la vita è attratta dall’oro della Gerusalemme celeste dipinta nell’abside, dove tutto ciò che è oggi fatica e sudore, se vissuto nell’amore, diventa oro pieno di luce. 

Dipinti, mosaici, terracotte, volte a botte e archi... tutto vive in armonia in questo spazio. Ci ricorda le fabbriche delle basiliche, dove l’architetto univa tra di loro diverse arti. Un architetto che accoglie, mette insieme, ascolta, aiuta a discernere, fa partecipare. Perché, secondo Crispino Valenziano, tra tutti gli artisti è proprio l’architetto il «dispositore in globalità con armonia». 

Quello di Dianra era il mio primo cantiere e io ero lontana 7.186 chilometri da lì. Fortunatamente era presente padre Matteo che mi ha insegnato la via della Chiesa: se qualcosa deve parlare di Dio allora deve parlare il linguaggio di Dio, che è la comunione. In chiesa lavoravano non solo artisti con differenti abilità, ma lingue diverse, etnie diverse, religioni diverse. Poteva essere una Babele! Ma lo Spirito ha insegnato a tutti noi la via dell’umiltà, che significa in primo luogo ascoltare l’altro, cercare la sua bellezza, desiderare che possa essere il primo. Chi ha fatto i mosaici a terra con le piastrelle come nelle foto di Parc Guell di Gaudì, chi ha dipinto le pareti guardando i mosaici del Centro Aletti, chi ha costruito la volta a botte senza betoniera, ma catino dopo catino di cemento versato nella cassaforme di legno... non era lì per essere il primo, ma per servire nell’unità. 

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Credo anche io che l’architetto non può essere uno che produce delle cose da solo nel suo laboratorio e poi le offre o quasi le impone al mondo, ma che il suo ruolo sia quello di dare la possibilità di partecipare alla costruzione anche a persone diverse e di lavorare nella comunione, sperimentando la verità della vita nuova. Come faceva per esempio Gaudì che chiedeva l’opinione persino alle persone che incontrava per strada. 

Ogni architetto partecipa dell’azione creatrice di Dio. E questo è un mistero grande. Però possiamo abusare di questo potere e “imp orre” le nostre opere, oppure metterci in ascolto dello Spirito, di quella Sapienza che danzava davanti al Creatore mentre creava il mondo. Per me è stato facile perché era la mia prima architettura. Mi sono ripetuta spesso «quando sono debole è allora che sono forte, perché Tu sei la mia forza!». Si è generativi solo se in relazione. E la relazione è concreta: è non poter usare i materiali che vorresti, è non poter decidere tu le cose, è fidarsi dell’altro anche quando è debole come te. Ma se fai spazio, se ascolti, se ti fai strumento, allora ciò che si edifica non parla più “solo” di te e a te, ma partecipa della bellezza di Dio. 

Avete veramente lavorato insieme! La creatività della Chiesa, dunque, credo possa esprimersi nella bellezza di una chiesa che, anche se semplice, attira gli altri. A Dianra, infatti, in alcune case hanno cominciato a riprodurre ciò che hanno visto realizzare nella chiesa. 

Se un tetto di lamiera, la vernice da carrozzeria, le mattonelle di scarto, possono divenire «la chiesa più bella della Costa d’Avorio» come amano definirla loro, allora anche la loro vita di stenti, le loro case di terra cruda, il loro villaggio, può divenire il più bello della Costa d’Avorio! Nessuno aveva spinto o forzato queste persone a realizzare la stessa cosa che era stata fatta nella chiesa. In realtà la Chiesa non dovrebbe mai forzare. Erano semplicemente sospinti verso la bellezza, affascinati da qualcosa di vivo che poteva suscitare un po’di allegria nei loro cuori. 

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Paolo VI diceva agli artisti che «questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione» e che «la bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini». Ascoltando il suo racconto nasce il pensiero che forse proprio gli artisti e gli architetti cristiani potrebbero ridare all’architettura la sua verità profonda, ciò aiuterebbe anche l’uomo a ritrovare e a confermare la sua verità. 

Lavorare in terra di missione ti mette nel cuore gli stessi desideri del Padre: che ogni uomo e ogni donna abbia la vita e l’abbia in abbondanza. E quando risuonano queste parole nel buio di un villaggio dove tutto è povertà, solo ciò che è nell’amore ti sembra essere degno di essere pronunciato e costruito. Sembra che in questa storia stia succedendo qualcosa di tipicamente ecclesiale: una Chiesa locale che cammina insieme, che discerne insieme, che vive la comunione. Si potrebbe concludere che il cammino sinodale è il cammino della costruzione della Chiesa. 

*Andrej Brozovic è architetto, sacerdote e dottore in Missiologia. Questo articolo è stato pubblicato nell'Osservatore Romano martedì 28 febbraio 2023.

Last modified on Wednesday, 15 March 2023 11:48

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