Sono stato missionario in Niger, una paese con il 98% di popolazione mussulmana ma anche con una piccola presenza cristiana apprezzata, attenta, vicina alle persone. È importante ricordare che il Niger è all’ultimo posto nell’indice di sviluppo umano, la lista redatta dall’ONU con il quale si misura il benessere di una nazione. Con questa mia testimonianza vorrei tenere aperta una finestra sulla grande regione del Sael, che attraversa tutta l’Africa settentrionale e vive una continua situazione di guerra, guerriglia e colpi di stato.
In questo contesto il 17 settembre 2018 sono stato coinvolto in un atto di terrorismo e per me è cominciato un tempo di sequestro e catene, durato poco più di due anni, che ha marcato profondamente la mia vita e mi ha messo davanti a domande fondamentali che potrei riassumere in tre.
La prima, che mi sono posto subito quel giorno, era se fossi stato al posto sbagliato e nel momento sbagliato. Ma subito la mia reazione è stata quella di dire: “sono al posto giusto, fra la mia gente” perché il posto di un missionario è stare con la sua gente. Ero in Niger condividendo con loro le gioie, le pene, la carestia e l’insicurezza. Ero fra gli ultimi, i più abbandonati d’Africa, la mia comunità missionaria è stata fondata per rispondere a queste esigenze. Ero nel posto dove il Vangelo mi aveva mandato.
L’altra domanda, una grande domanda, me la sono posta il giorno in cui mi hanno incatenato: una catena di ferro di non più di un metro e venti, da una parte legata a un albero e dall’altra attorno alla mia caviglia. Poi mi hanno portato nel Sahara, l’immenso deserto di dune, sabbia, sole e uno sconfinato cielo azzurro, immenso e infinito, che è stato fino alla fine la mia prigione. In settembre 2019 ho ritrovato la catena. In quella prolungata prigionia ho pianto e gridato a Dio “perché mi hai abbandonato”; che senso poteva avere tutto quello? perché le catene?
Le catene le ho poi vinte una sera quando mi sono accorto che, se i miei piedi erano incatenati, il mio cuore non lo era. Così ho cominciato a camminare, ad andare dove stava la gente a cui volevo bene, quella che nella mia missione incontravo nei villaggi con i bambini malnutriti e nelle situazioni più diverse. Ho fatto tutto con il cuore ed ho pregato moltissimo, come insegna Santa Teresa di Lisieux, patrona delle missioni, lei che nella chiesa voleva essere quel cuore che spinge la vita e l’amore di Dio verso tutti. Col mio cuore potevo continuare ad essere missionario portando alle periferie del mondo preghiera, pace, attenzione. Questo è stato il modo di vivere la missione legato con una catena a una pianta.
Ma poi c’è stata un’ultima domanda, forse la più dura e difficile, e aveva a che fare con l’amore ai nemici di cui parla Gesù. “Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,47). nel mio caso i miei nemici non erano persone lontane: li avevo davanti a me con tanto di Kaláshnikov sulla spalla. Io ho cercato di parlare anche con loro, ho imparato i loro nomi, ma per loro ero un nemico da combattere, da sopprimere o da convertire. Come avrei dovuto fare per amarli così come amo la mia famiglia o la mia gente? Come potevo metterli sullo stesso piano?
In tutto questo garbuglio interiore pieno di domande ho continuato a leggere interiormente il vangelo fino a “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Così ho dato il mio perdono a quei ragazzi che mi hanno privato di due anni e tre settimane di missione attiva e vicina alla gente.
Oggi mi sento in pace perché l’ultimo giorno di prigionia, il giorno 8 ottobre del 2020, quando mi portavano al luogo dove sarei stato liberato, ho detto tutto d’un fiato a Abu Naser, lui che capiva un po’ di francese ma mi rifiutava la mano perché non voleva sporcarsi con me che ero un miscredente: “guarda Naser, spero che Dio ci dia di capire un giorno che siamo tutti fratelli”.
Gli ho offerto la mia fraternità. Questo è stato il travaglio e il frutto di tutta la mia prigionia, di questa mia fatica... credo che questa è la strada e questo l’orizzonte. Dopo aver portato le catene dico che non dobbiamo mai incatenare nessuno, né con catene di ferro e nemmeno con catene di pregiudizi. In questo mondo ferito dobbiamo cominciare a togliere gli aggettivi e mettere al centro la persona e quell’umanità che porta all’incontro.
Oggi in Niger siamo ancora in guerra... ho appena telefonato e mi hanno detto di non tornare ora, e mi fa male sentirmelo dire, ma spero che con la pace sia possibile il ritorno e il condividere la mia vita con la gente che non ho mai voluto abbandonare e che, in questi mesi, ho accompagnato con il cuore.
* Pier Luigi Maccalli è missionario della Socità delle Missioni Africane