Confesso di aver peccato. Testimonianza su Mons. Luis Augusto Castro

Mons Castro, Conferenza CAM Quito 2008 Mons Castro, Conferenza CAM Quito 2008 Foto JC Patias
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Un ricordo di Monsignor Luis Augusto Castro che ho conosciuto: l'uomo impegnato per il suo tempo, per i contadini dell'Amazzonia e della regione di Boyacá, un instancabile combattente per la pace.

Sì, confesso di aver peccato. I miei rapporti con la Chiesa cattolica non sono stati del tutto santi. Tre vescovi del Caquetá hanno avuto una grande influenza sulla mia formazione intellettuale, morale e politica (Ángel Cuniberti, José Luis Serna e Luis Augusto Castro), ma quando ho confermato l'omosessualità di un sacerdote, che poi è morto in Africa, ho cominciato a dubitare di tutto, per fortuna.

Nel 2004, l'arcivescovo di Bogotà, monsignor Pedro Rubiano, mi invitò a tenere una conferenza sulla “globalizzazione” ai vescovi del Paese riuniti nella Conferenza episcopale. Alla fine di quasi tre ore, monsignor Castro mi ha abbracciato sorridente e mi ha detto: “Non so se i vescovi hanno capito molto dei nuovi sistemi e delle tecnologie dell'informazione, i nuovi materiali, le economie della conoscenza, i cambi nel modo in cui le aziende competono e si localizzano su scala planetaria, tutte queste vostre storie... ma ciò di cui sono sicuro è che ora i vescovi sanno più cose sul Caquetá di quando siamo venuti alla conferenza”.

E monsignor Castro aveva ragione. Per spiegare il contrasto tra prima della globalizzazione e oggi, ho raccontato la mia vita di bambino a Florencia, nel Caquetá, in contrasto con quella di mia figlia a Bogotà nel 2004. Il nostro mondo - il mio mondo - aveva limiti insormontabili nella Cordigliera orientale delle Ande e nei “grandi fiumi della selva amazzonica”, dove si espandeva il fronte della colonizzazione e del disboscamento di quell’immenso territorio. Si parlava solo spagnolo e quando i sacerdoti della comunità della Consolata (italiani) avevano dei segreti, parlavano in italiano, o in un latino spettrale nelle messe che nessuno capiva. Esisteva solo la religione cattolica e le altre "erano" eresie o sciamanismi che meritavano di essere combattuti. Le stazioni radio erano sintonizzate solo di notte, soprattutto Radio Sutatenza. Nelle città più grandi c'era la corrente elettrica per 3 o 4 ore, e mai la TV. Eravamo tutti indios, neri e meticci, tranne i pochi sacerdoti e i ricercatori nordamericani che si inoltravano nel cuore dell'Amazzonia, come Richard Evans Schultes. Ci assomigliavamo tutti, perché i nostri genitori erano tutti sfollati a causa della guerra civile, "La Violencia", e nessuno voleva tornare al suo paese di origine. Inutile dire che le scuole erano poche, c'era una sola scuola superiore, La Salle, e nessuna università.

Al contrario, quando arrivavo a casa nel 2004, trovavo mia figlia tredicenne che parlava in inglese, francese e spagnolo allo stesso tempo, con le sue amiche di tutto il mondo, lo faceva sugli schermi di due computer collegati in rete e con un telefono cellulare. Parlava  di possibili fidanzati, musica e compiti, tratti dagli stessi libri che si usano in Europa o negli Stati Uniti o al "Colegio Alcaparros" dove studiava. Alcuni amici erano figli di genitori ebrei, altri cattolici, protestanti, musulmani o atei, non importava, ma, come impone il marketing della globalizzazione, le scarpe da tennis erano tutte Converse, y blue jeans strappati e tutti consumavano gli stessi prodotti.

“Il problema -avevo detto ai vescovi presenti alla conferenza- è che i talebani si oppongono alle nuove tecnologie come modo per mantenere la loro identità, la loro teocrazia, il loro potere sulle donne... come modo per resistere alla globalizzazione. La domanda è: quanto la Chiesa cattolica si sta adattando alla globalizzazione neoliberista e quanto alla resistenza talebana? Riuscirà a costruire un suo proprio percorso?” Monsignor Pedro Rubiano non mi invitó più a dare conferenze ai vescovi colombiani.

All'inizio del 1998 ricordo aver chiamato Monsignor Castro a San Vicente del Caguán per dirgli che avremmo fatto una campagna per la presidenza della Repubblica per il movimento indipendentista "Amazonia viva è Colombia viva" e che io sarei stato il candidato. Mi invitò a iniziare lì, a dormire in parrocchia, mi disse che avrei avuto i microfoni della radio del vicariato a disposizione. Mons. Castro era un progressista e un grande conoscitore e difensore dell'Amazzonia.

Luis Augusto Castro è stato anche il primo rettore dell'Università dell'Amazzonia (1973-74), allora chiamata Itusco. Aveva una mentalità molto aperta e accoglieva professori di diverse tendenze ideologiche. Era soprattutto un intellettuale e un uomo colto.

Alla fine, dopo aver servito la Chiesa cattolica a Roma e in Africa, Luis Augusto Castro tornò al Caquetá per 13 anni e il suo impegno era a favore di progetti produttivi che rendessero dignitosa la vita dei contadini e sostenibile l'utilizzo della foresta amazzonica. Ha creato il Cifisam, “Centro di ricerca, formazione e informazione per il servizio amazzonico” e il progetto di “fattoria contadina amazzonica”. 

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Porto fluviale in una comunità indigena amazzonica. Putumayo (Foto JA Sozzi)

Ma in quegli anni l’escalation della guerra era brutale e lui si impegnò a fondo per la pace, nella liberazione di persone rapite, soldati e poliziotti, rischiando la sua vita e il suo prestigio. Come era prevedibile, ha avuto incontri duri con i guerriglieri delle FARC e con i militari.

Infine, dopo essersi guadagnato la fiducia delle parti, in qualità di arcivescovo di Tunja e presidente della Conferenza episcopale, monsignor Castro è stato determinante nel riavvicinare le parti nelle tese trattative di pace all'Avana. Nel settembre 2014, quando il processo di pace sembrava impantanato, monsignor Castro dicharò alla stampa che in un incontro all'Avana con Iván Márquez, responsabile della guerriglia al tavolo negoziale, questi gli aveva detto che la pace era già un processo irreversibile. "Mi autorizza a dirlo in Colombia? Sì, si può dire, monsignore". Lì è scoppiata la pace.

L'arcivescovo Castro ha lasciato una vasta eredità: era un illustre ministro della Chiesa cattolica, ma anche un uomo impegnato nel suo tempo, nei confronti dei contadini dell'Amazzonia e della regione di Boyacá dov'è stato vescovo; nella creazione di conoscenza e nella sua diffusione attraverso la predicazione e le stazioni radiofoniche da lui create; in Colombia sarà ricordato soprattutto come un instancabile combattente per la pace.

Per quest'ultimo motivo, poiché era un costruttore di pace, non capisco come abbia permesso che Chiesa cattolica si dichiarasse "neutrale" quando l’accordo di pace del 2016 fu sottomesso a plebiscito. Credo che, tra i vescovi, in quel momento la sua opinione era minoritaria. In quell’occasione lui ha perso e noi tutti abbiamo perso. Solo ora, con il trionfo di Gustavo Petro e Francia Márquez, abbiamo vinto di nuovo tutti, dopo sei anni di ignominia e frustrazione. 

Ci incontreremo sempre, caro arcivescovo Luis Augusto Castro. Incontreremo Ángel Cuniberti e Álvaro Serna, altri due campioni della pace.

* Jorge Reinel Pulecio Yate è Economista e professore in pensione dell'Università Nazionale della Colombia. Si pubblica questo articolo con la espressa autorizzazione dell’autore.

Ultima modifica il Lunedì, 22 Agosto 2022 19:20
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